martedì 30 novembre 2010

Ritiro spirituale d'Avvento

Condividiamo dal blog del Coordinamento Toscano "Benedetto XVI"


Sabato 4 dicembre 2010, ore 9,30-16,30

Convento di Ognissanti dei Padri Francescani dell'Immacolata
Borgo Ognissanti, 42 - Firenze

RITIRO SPIRITUALE D'AVVENTODEL COORDINAMENTO TOSCANO «BENEDETTO XVI»

Il ritiro spirituale d'Avvento organizzato dal Coordinamento Toscano "Benedetto XVI" è rivolto a tutti i fedeli che intendono approfondire la spiritualità legata all'antica tradizione liturgica romana.
Esso avrà luogo il 4 dicembre 2010 presso il Convento di Ognissanti a Firenze (Borgo Ognissanti, 42) e sarà predicato dai Padri Francescani dell'Immacolata.

PROGRAMMA

Ore 9,30 - Ritrovo dei partecipanti e conferenza spirituale.
Ore 12 - S. Messa in rito romano antico.
Ore 13 - Pranzo (al sacco). Tempo libero per approfondimento personale.
Ore 14,30 - Conferenza spirituale e riflessioni condivise.
Ore 16,00 - Adorazione e Benedizione Eucaristica.
Ore 16,30 - Congedo dei partecipanti.

Coloro che nella mattinata hanno impegni lavorativi potranno unirsi al ritiro in un secondo momento, prima del pranzo o della conferenza spirituale del pomeriggio: di ciò si consiglia comunque di avvertire in anticipo.

Il ritiro è aperto a tutti.
Per informazioni e adesioni: coordinamentotoscano@hotmail.it

lunedì 29 novembre 2010

STORIA DELL'AVVENTO

di Dom Prosper Guéranger


Il nome dell'Avvento

Si dà nella Chiesa latina, il nome di Avvento [1] al tempo destinato dalla Chiesa a preparare i fedeli alla celebrazione della festa di Natale, anniversario della Nascita di Gesù Cristo. Il mistero di questo grande giorno meritava senza dubbio l'onore d'un preludio di preghiera e di penitenza: cosicché sarebbe impossibile stabilire in maniera certa la prima istituzione di questo tempo di preparazione, che ha ricevuto solo più tardi il nome di Avvento [2].

L'Avvento deve essere considerato sotto due diversi punti di vista: come un tempo di preparazione propriamente detta alla Nascita del Salvatore, mediante gli esercizi della penitenza, o come un corpo d'Uffici Ecclesiastici organizzato con lo stesso fine. Fin dal secolo V, troviamo l'uso di fare delle esortazioni al popolo per disporlo alla festa di Natale; ci sono rimasti a questo proposito due sermoni di san Massimo di Torino, senza parlare di parecchi altri attribuiti una volta a sant'Ambrogio e a sant'Agostino, e che sembrano essere invece di san Cesario d'Arles. Se tali documenti non ci indicano ancora la durata e gli esercizi di questo tempo sacro, vi riscontriamo almeno l'antichità dell'uso che distingue mediante particolari predicazioni il tempo dell'Avvento. Sant'Ivo di Chartres, san Bernardo, e parecchi altri dottori dell'XI e del XII secolo hanno lasciato speciali sermoni de Adventu Domini, completamente distinti dalle Omelie Domenicali sui Vangeli di questo tempo. Nei Capitolari di Carlo il Calvo dell'anno 864, i Vescovi fanno presente a quel principe che egli non deve richiamarli dalle loro Chiese durante la Quaresima nè durante l'Avvento sotto il pretesto degli affari di Stato o di qualche spedizione militare, perché essi hanno in quel periodo dei doveri particolari da compiere, principalmente quello della predicazione.

Un antico documento in cui si trovano, precisati, in maniera sia pure poco chiara, il tempo e gli esercizi dell'Avvento, é un passo di S. Gregorio di Tours, al decimo libro della sua Storia dei Franchi nel quale riferisce che S. Perpetuo, uno dei suoi predecessori, che occupava la sede verso il 480, aveva stabilito che i fedeli digiunassero tre volte la settimana dalla festa di san Martino fino a Natale [3]. Con quel regolamento, san Perpetuo stabiliva un'osservanza nuova, o sanzionava semplicemente una legge già esistente? È impossibile determinarlo con esattezza oggi. Rileviamo almeno questo intervallo di quaranta giorni o piuttosto di quarantatre giorni, designato espressamente, e consacrato con la penitenza come una seconda Quaresima, sebbene con minor rigore [4].

Troviamo quindi il nono canone del primo Concilio di Macon, tenutosi nel 583, il quale ordina che, durante lo stesso intervallo da san Martino al Natale, si digiunerà il lunedì, il mercoledì, il venerdì, e si celebrerà il sacrificio secondo il rito Quaresimale. Qualche anno prima, il secondo Concilio di Tours, tenutosi nel 567, aveva ordinato ai monaci di digiunare all'inizio del mese di dicembre fino a Natale. Questa pratica di penitenza si estese presto a tutti i quaranta giorni per i fedeli stessi; e si chiamo volgarmente la Quaresima di san Martino. I Capitolari di Carlo Magno, al libro sesto, non ne lasciano alcun dubbio; e Rabano Mauro attesta la medesima cosa nel secondo libro della Istituzione dei Chierici. Si facevano anche particolari festeggiamenti nel giorno di san Martino, come si fa ancor oggi all'avvicinarsi della Quaresima e a Pasqua.
Variazioni nelle osservanze.

L'obbligo di questa Quaresima che, cominciando a pesare in modo quasi impercettibile, era cresciuto successivamente fino a diventare una legge sacra, diminuì grado a grado; e i quaranta giorni da san Martino a Natale si trovarono ridotti a quattro settimane. Si è visto come l'usanza di tale digiuno fosse cominciata in Francia; ma di qui si era diffusa in Inghilterra, come apprendiamo dalla Storia del Venerabile Beda; in Italia, come consta da un diploma di Astolfo, re dei Longobardi († 753); in Germania, in Spagna[5], ecc., come se ne possono vedere le prove nella grande opera di Dom Martène sugli antichi Riti della Chiesa. Il primo indizio che riscontriamo della riduzione dell'Avvento a quattro settimane si può ritenere che sia, fin dal IX secolo, la lettera del papa san Nicola I ai Bulgari. La testimonianza di Raterio di Verona e di Abbondio di Fleury, autori appartenenti entrambi allo stesso secolo, serve anche a provare che fin d'allora si discuteva molto per diminuire d'un terzo la durata del digiuno dell'Avvento. É vero che san Pier Damiani, nell'XI secolo, suppone ancora che il digiuno dell'Avvento fosse di quaranta giorni e che san Luigi, due secoli dopo, continuava ad osservarlo in questa misura; ma forse questo santo re lo praticava in tal modo per un trasporto di devozione particolare.

La disciplina della Chiesa d'Occidente, dopo essersi rilassata sulla durata del digiuno dell'Avvento, si raddolcì presto al punto da trasformare tale digiuno in una semplice astinenza; si trovano inoltre dei Concili fin dal XII secolo, come quello di Selingstadt del 1122, che sembrano obbligare soltanto i chierici a tale astinenza[6]. Il Concilio di Salisbury, del 1281, pare anch'esso obbligarvi solo i monaci. D'altra parte, è tale la confusione su questa materia, senza dubbio perché le diverse Chiese d'Occidente non ne hanno fatto l'oggetto d'una disciplina uniforme, che, nella sua lettera al Vescovo di Braga, Innocenzo III attesta che l'uso di digiunare per tutto l'Avvento esisteva ancora a Roma al suo tempo, e Durando, sempre nel XIII secolo, nel suo Razionale dei divini Uffici, testimonia ugualmente che il digiuno era continuo in Francia per tutta la durata di quel tempo sacro.

Comunque sia, questa usanza venne sempre più diminuendo, di modo che tutto quello che poté fare nel 1362 il Papa Urbano V per arrestarne la caduta completa, fu di obbligare tutti i chierici della sua corte a conservare l'astinenza dell'Avvento, senza alcuna menzione del digiuno, e senza comprendere affatto gli altri chierici, e tanto meno i laici, sotto questa legge. San Carlo Borromeo cercò anch'egli di risuscitare lo spirito, se non la pratica, dei tempi antichi nelle popolazioni del Milanese. Nel suo quarto Concilio, ordinò ai parroci di esortare i fedeli a comunicarsi almeno tutte le domeniche della Quaresima e dell'Avvento, e indirizzo quindi ai suoi stessi diocesani una lettera pastorale in cui, dopo aver loro ricordato le disposizioni con le quali si deve celebrare questo sacro tempo, faceva istanza per condurli a digiunare almeno il lunedì, il mercoledì e il venerdì di ciascuna settimana. Infine Benedetto XIV ancora Arcivescovo di Bologna, calcando cosi gloriose orme, ha consacrato la sua undicesima Istituzione Ecclesiastica a ridestare nello spirito dei fedeli della sua diocesi la sublime idea che i cristiani avevano un tempo del tempo dell'Avvento, e a combattere un pregiudizio diffuso in quella regione, cioè che l'Avvento riguardava le sole persone religiose, e non i semplici fedeli. Egli dimostra che questa asserzione, salvo che la si intenda semplicemente del digiuno e dell'astinenza, è di per sé temeraria e scandalosa, poiché non si potrebbe dubitare che esiste, nelle leggi e nelle usanze della Chiesa universale, tutto un insieme di pratiche destinate a mettere i fedeli in uno stato di preparazione alla grande festa della Nascita di Gesù Cristo.

La Chiesa greca osserva ancora il digiuno dell'Avvento, ma con molto minore severità rispetto a quello della Quaresima. Esso consta di quaranta giorni, a partire dal 14 novembre, giorno in cui quella Chiesa celebra la festa dell'Apostolo san Filippo. Per tutto questo tempo, si osserva l'astinenza dalla carne, dal burro, dal latte e dalle uova; ma si fa uso di pesce, olio e vino, cose tutte vietate durante la Quaresima. Il digiuno propriamente detto è d'obbligo soltanto per sette giorni sui quaranta; e tutto l'insieme si chiama volgarmente la Quaresima di san Filippo. I Greci giustificano queste mitigazioni dicendo che la Quaresima di Natale è solo di istituzione monastica, mentre quella di Pasqua è d'istituzione apostolica.

Ma se le pratiche esteriori di penitenza che consacravano una volta il tempo dell'Avvento presso gli Occidentali, si sono a poco a poco mitigate, in maniera che oggi non ne resta alcun vestigio fuori dei monasteri, l'insieme della Liturgia dell'Avvento non è cambiato; ed è nello zelo per appropriarsene lo spirito che i fedeli daranno prova d'una vera preparazione alla festa di Natale.
Variazioni nella Liturgia.

La forma liturgica dell'Avvento, quale si ha oggi nella Chiesa Romana, ha subito alcune variazioni. San Gregorio (590-604) sembra aver istituito per primo questo Ufficio che avrebbe abbracciato dapprima cinque domeniche, come si può vedere dai più antichi Sacramentari di quel grande Papa. Si può anche dire a questo proposito, secondo Amalario di Metz e Bernone di Reichenau, seguiti da Dom Martène e da Benedetto XIV, che san Gregorio sembrerebbe essere l'autore del precetto ecclesiastico dell'Avvento, benché l'uso di consacrare un tempo più o meno lungo a prepararsi alla festa di Natale sia del resto immemorabile, e l'astinenza e il digiuno di questo tempo sacro siano iniziati dapprima in Francia. San Gregorio avrebbe determinato, per le Chiese di rito romano, la forma dell'Ufficio durante questa specie di Quaresima, e sanzionato il digiuno che l'accompagnava, lasciando tuttavia una certa libertà alle diverse Chiese circa la maniera di praticarlo.

Fin dal IX e X secolo, come si può vedere da Amalario, san Nicola I, Bernone di Reichenau, Reterio di Verona, ecc., le domeniche erano già ridotte a quattro; è lo stesso numero che porta il Saeramentario gregoriano dato da Pamelio, e che sembra sia stato trascritto a quell'epoca. Da allora, nella Chiesa Romana, la durata dell'Avvento non ha subito variazioni, ed è sempre consistito in quattro settimane, di cui la quarta è quella stessa nella quale cade la festa di Natale, a meno che tale festa non capiti di domenica. Si può dunque assegnare all'usanza attuale una durata di mille anni, almeno nella Chiesa Romana; poiché vi sono delle prove che fino al secolo XIII alcune Chiese di Francia hanno conservato l'usanza delle cinque domeniche[7].
La Chiesa ambrosiana conta ancor oggi sei settimane nella sua liturgia dell'Avvento; il Messale gotico o mozarabico mantiene la stessa usanza. Per la Chiesa gallicana, i frammenti che Dom Mabillon ci ha conservati della sua liturgia non ci attestano nulla a questo riguardo; ma è naturale pensare con questo studioso la cui autorità è rafforzata anche da quella di Dom Martène, che la Chiesa delle Gallie seguiva su questo punto, come su tanti altri, le usanze della Chiesa gotica, cioè che la liturgia del suo Avvento si componeva ugualmente di sei domeniche e di sei settimane [8].


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[1] Dal latino Adventus, che significa Venuta.
[2] La proclamazione del dogma della Maternità divina, avvenuta ad Efeso nel 431, diede vivo impulso al culto mariano e una grande celebrità alla commemorazione della Natività del Signore. È infatti poco dopo il Concilio di Nicea (325) che la Chiesa romana istituì la festa di Natale e la fissò al 25 dicembre, ma è dall'Oriente che attinse i primi elementi dell'Avvento.
[3] Secondo i più recenti lavori dei Liturgisti, si possono segnalare testimonianze ancora più antiche di questa. Cosi un frammento di un testo di sant'Ilario, quindi anteriore al 366 dice che «La Chiesa si dispone al ritorno annuale della venuta del Salvatore. con un tempo misterioso di tre settimane». Il Concilio di Saragozza, da parte sua, fin dal 380 impone ai fedeli di assistere agli uffici dal 17 dicembre al 6 gennaio. In questo periodo di ventuno giorni, la parte che precede il Natale formava un quadro ben indicato per la preparazione di questa festa e costituiva una specie di Avvento. Ma siccome si era introdotto l'uso, nel IV secolo, di considerare l'Epifania e il Natale stesso come festa battesimale, potrebbe qui trattarsi solo d'una preparazione al battesimo e non d'una liturgia dell'Avvento.
In Oriente. nel V secolo. A Ravenna, nelle Gallie e nella Spagna, una festa della Vergine era celebrata la domenica prima di Natale, e talvolta anche una festa del Precursore la domenica precedente. Si avrebbe qui ancora una breve preparazione al Natale, un Avvento primitivo, a meno che non si tratti che d'un semplice ampliamento della festa di Natale. Infine, il Rotolo di Ravenna, di cui sarebbe autore san Pier Crisologo (433-450). possiede 40 orazioni che possono essere considerate come preparatorie al Natale.
[4] Bisogna notare anche che questo digiuno non era proprio del Tempo dell'Avvento; poiché, tra la Pentecoste e la metà di febbraio, i fedeli digiunavano due volte la settimana e i monaci tre volte. Il carattere penitenziale de]l'Avvento derivò a poco a poco, a causa dell'analogia che si presentava naturalmente tra questa stagione e la Quaresima.
[5] Forse il digiuno esisteva già in Spagna a quell'epoca. Una lettera del 400 circa, ci parla di tre settimane che pongono fine all'anno e ne cominciano uno nuovo, comprendenti la festa di Natale e quella dell'Epifania, durante le quali conviene darsi al ritiro e alle pratiche dell'ascetismo: la preghiera e l'astinenza (Rev. Bén. 1928 p. 289). Le Chiese d'Oriente che ricevettero dall'Occidente la celebrazione della Natività di Nostro Signore, adottarono ugualmente, nell'VIII secolo, il digiuno dell'Avvento.
[6] Il Concilio di Avranches (1172) prescrive il digiuno e l'astinenza a tutti coloro che lo potranno, in particolare ai chierici e ai soldati.
[7] Si può oggi stabilire in una maniera molto più dettagliata lo sviluppo della Liturgia dell'Avvento. Mentre il Sacramentario leoniano (fine del VI secolo) non porta aleuna messa, il che sembra indicare che a quell'epoca Roma ignorava ancora l'Avvento, il Sacramentario gelasiano antico (fine del VI e inizio del VII secolo) contiene cinque messe «De Adventu Domini». Il Sacramentario gelasiano d'Angoulême e gli altri Sacramentari dell'VIII secolo contengono essi pure cinque messe, o in più le tre messe delle Quattro Tempora di dicembre. Infine, nel Sacramentario gregoriano, troviamo delle messe per quattro domeniche e per le tre ferie delle Quattro Tempora. Porse anche la messa dell'ultima domenica dopo la Pentecoste era considerata come messa «de Adventu». Aggiungiamo infine che san Benedetto († dopo il 546) ha scritto, nella sua Regola, un capitolo sulla Quaresima, che parla del Tempo pasquale ma non menziona l'Avvento.
[8] Segnaliamo che il Sacramentario mozarabico: «Liber mozarabicus saeramentorum», (del IX secolo, ma che rappresenta la liturgia del VII), contiene cinque domeniche, e infine che i Lezionari gallicani portano sei domeniche dell'Avvento.

Quanto ai Greci, le loro Rubriche per il tempo dell'Avvento si leggono nei Nenei, dopo l'Ufficio del 14 novembre. Essi non hanno un Ufficio proprio dell'Avvento, e non celebrano durante questo tempo la Messa dei Presantificati, come fanno in Quaresima. Si trovano soltanto, nel corpo stesso degli Uffici dei Santi che occupano il periodo dal 15 novembre alla domenica più vicina a Natale, parecchie allusioni alla Natività del Salvatore, alla maternità di Maria, alla grotta di Betlemme, ecc. Nella domenica che precede il Natale, celebrano quella che chiamano la Festa dei santi Avi, cioè la Commemorazione dei Santi dell'Antico Testamento, per celebrare l'attesa del Messia. Il 20, 21, 22 e 23 dicembre sono decorati del titolo di Vigilia della Natività; e benché in quei giorni si celebri ancora l'Ufficio di parecchi Santi, il mistero della prossima Nascita del Salvatore domina tutta la Liturgia.

domenica 28 novembre 2010

Il Cardinale Piacenza ai preti: “Temete il giudizio di Dio”

di M.Antonietta Calabrò. ROMA

Il neocardinale Mauro Piacenza nuovo prefetto della Congregazione del clero, sarà il primo cardinale nella storia della Chiesa ad essere titolare della Basilica di San Paolo alle Tre fontane, costruita sul luogo del martirio dell’ apostolo delle genti, Paolo di Tarso. Così come la Basilica di San Pietro è stata costruita sul luogo del martirio di san Pietro. È anche l’ uomo chiamato da Benedetto XVI a prendersi la responsabilità dei preti cattolici in tutto il mondo, dopo lo scoppio dello scandalo della pedofilia.

Proprio mentre il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale William Levada, ha annunciato che l’ ex Sant’ uffizio invierà una circolare a tutte le Conferenze episcopali sulle linee guida per «un programma coordinato ed efficace» nella lotta agli abusi sessuali sui minori commessi da uomini di Chiesa. Con particolare riferimento alla «collaborazione con le autorità civili», alla necessità «di un efficace impegno di protezione dei bambini e dei giovani e di un’ attenta selezione e formazione dei futuri sacerdoti e religiosi». Per superare questa crisi il cardinal Piacenza indica «una sola strada», come scrive anche in un libro che uscirà tra qualche giorno, e il cui titolo è Il Sigillo: la radicalità della vocazione e della missione del prete (editrice Cantagalli, ndc), un uomo su cui, per grazia, Dio ha impresso, appunto, il suo sigillo, pronto alla testimonianza, fino se necessario, al martirio.

«Troppo spesso – spiega Piacenza – noi preti siamo specialisti in economia, in politica o in sociologia, ma occorrono piuttosto molti specialisti in sana dottrina che preferiscano le processioni alle marce, le preghiere alle proteste». Com’ è che questa identità è andata perduta o attenuata? «Questa è la diretta conseguenza della “riduzione” sociologica della Chiesa e, diciamolo, dell’ indebolimento della fede». «Purtroppo sì!», risponde il cardinale alla domanda se nella Chiesa abbia preso il sopravvento la tentazione massmediologica (che si è infiltrata nelle omelie, in alcuni aspetti delle celebrazioni liturgiche, fino alla presenza nei talk show) rispetto alla radicalità identitaria. Parole nette come quest’ altra valutazione: «Chi non ha più chiaro di agire alla Presenza e in Nome di Dio, si riduce a mendicare la visibilità del mondo. A nessuno è lecito utilizzare il Ministero ecclesiale ricevuto per fini diversi da quelli della Chiesa e, laddove i sacerdoti si discostano dal Magistero costante, il loro dire perde di autorevolezza».

E allora cosa dice ai preti il neocardinale? «Ai preti dico: Viene da pensare che proprio a causa della riduzione sociologica denunciata dal porporato, alla fine, il celibato diventa un peso e più predisposto è il terreno anche per la devianza nella pedofilia. Risponde Piacenza: «Pedofilia e celibato non sono mai da mettere in rapporto come effetto e causa: sarebbe un troppo grande errore. Il celibato è una grazia». «Certamente, però – aggiunge -, la confusione dottrinale e la conseguente rilassatezza degli ultimi decenni, diffusa in non pochi ambienti, anche ecclesiali, hanno rappresentato “terreno fertile”, nel quale anche la zizzania ha potuto germinare. Come dice Gesù: certi demoni non si scacciano se non con il digiuno e la preghiera». In ogni caso «Il delitto orribile di alcuni, non può delegittimare tutti, e Dio e la Sua Chiesa sono più grandi del peccato degli uomini». Naturalmente «la Chiesa è doverosamente e pastoralmente vicina, nella sua tenerezza di Madre, a tutte le vittime ed implora, su tutti, la Divina Misericordia», ma «le famiglie, però, ben sanno che l’ unica vera loro alleata, in campo educativo, è la Chiesa». © 2010 Corriere della Sera

venerdì 26 novembre 2010

Il Concilio Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica

Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata, organizza un convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II, nei giorni 16-17-18 dicembre 2010, presso l’Istituto Maria SS. Bambina, via Paolo VI, 21 – 00193 Roma

Mossi dal discorso del S. Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della lettera, quella cioè della «rottura», ci si prefigge di esaminare il Vaticano II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di carattere pastorale. Certo, non per fare del Vaticano II un concilio “di serie B”, ma al fine di mettere meglio in luce quest’unicum che caratterizza per la prima volta un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni nuove, ma la fede di sempre.

Così si espresse Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962):
«Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace».

Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi, soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ecc.

Spesso, però, magari presi dal fervore del nuovo, quando non addirittura da un accecamento storicista, si dimentica di considerare che il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti definitivae tenenda; si dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo autentico ordinario.

Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, ricordava che «bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…». Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva: «…dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti».

Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un «superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)?

A nostro modo di vedere, e come si tenterà di far emergere dai lavori del convegno, una della cause è lo stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità. Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Non stiamo certo con Otto Hermann Pesch che parla di un «significato rivoluzionario» del Vaticano II, stiamo con la Chiesa e nella Chiesa: solo Ella è portatrice della Tradizione. Ma si tenterà di capire perché, di fatto, sembra che una rivoluzione ci sia stata.

p. Serafino M. Lanzetta, FI
[Fonte:www.mediatrice.net]



Programma

16 dicembre 2010
ore 9,15 Inaugurazione dei lavori
ore 9,30 Conferenza: Rev.do Prof. Brunero Gherardini (Pont. Università Lateranense): Sull’indole pastorale del Vaticano II: una valutazione
10,30 Pausa
ore 11,00 Comunicazione: Rev.do Prof. Rosario M. Sammarco (Sem. T. Immacolata Mediatrice): La formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis
ore 11,30 Conferenza: Rev.do Prof. Ignacio Andereggen (Pont. Università Gregoriana):
La modernità: un’analisi filosofica
ore 16,00 Conferenza: Prof. Roberto de Mattei (Università Europea di Roma):
La Chiesa nel XX secolo. Immagini di un repentino cambiamento
ore 17,00 Conferenza: Prof. Yves Chiron (Direttore del Dictionnaire de biographie française):
Dal Vaticano I al Vaticano II. I Pontefici dinanzi ad un possibile concilio
ore 18,00 Dibattito con i relatori intervenuti

17 dicembre 2010
ore 9,30 Conferenza: Rev.do Prof. Paolo M. Siano (Sem. Teologico Immacolata Mediatrice):
Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II (1962-1965)
ore 10,30 Pausa
ore 11,00 Comunicazione: Rev.do Prof. Giuseppe M. Fontanella (Sem. T. Immacolata Mediatrice):
Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?
ore 11,30 Sua Ecc.za Mons. Atanasio Schneider (Vescovo ausiliare di Karaganda):
La teologia pastorale: sviluppi alla luce del Vaticano II per leggere correttamente il Concilio
ore 16,00 Conferenza Rev.do Prof. Serafino M. Lanzetta (Sem. T. Immacolata Mediatrice): Approccio teologico al Vaticano II. Status quaestionis
ore 17,00 Conferenza: Rev.do Dott. Florian Kolfhaus (Segreteria di Stato):
Annuncio di un insegnamento pastorale – motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate
ore 18,00 Dibattito con i relatori intervenuti

18 dicembre 2010
ore 9,30 Conferenza: Sua Ecc.za Mons. Agostino Marchetto:
Rinnovamento all’interno della Tradizione
ore 10,30 Pausa
ore 11,00 Conferenza: Rev.do Prof. Don Nicola Bux (Istituto Ecumenico di Bari):
La Sacrosanctum Concilium e la sua esecuzione postconciliare: dagli adattamenti all'inosservanza dello ius divinum nella liturgia
ore 12,00 Chiusura dei lavori: intervento di Sua Em.za Card. Velasio de Paolis (Presidente della Prefettura degli Affari Economici della S. Sede):
Il diritto nell’edificazione della Chiesa
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Per informazioni: (055) 2398700
email: fifirenze@immacolata.ws
(0776) 3560272 email: fficassino@immacolata.ws
www.catholicafides.blogspot.com

domenica 21 novembre 2010

Quod et tradidi vobis





La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa

di Mons. Brunero Gherardini





- Prologo -



Titolo e sottotitolo non son affatto ermetici: riguardan la T r a d i z i o n e ecclesiastica. Tuttavia, credo opportuno premettere qualche considerazione.

l - Alla Tradizione la coscienza cristiana dedicò sempre, fin dagl’inizi, un’adeguata riflessione. Le grandi monografie sull’argomento son, però, opera della teologia moderna. Dopo l’intenso dibattito sorto in ambito tridentino e concluso da una ben nota definizione conciliare sul fatto e sul concetto di Tradizione, il tema fu ripreso con intenti decisamente contestatari dal Secolo dei Lumi, le cui conclusioni ed il cui spirito furon poi la culla nella quale la dissoluzione modernistica della Tradizione sarebbe cresciuta e si sarebbe trovata a proprio agio.

A tale dissoluzione, alcuni teologi - e certamente non gli ultimi venuti - opposero di volta in volta e con indubbia efficacia il frutto delle loro ricerche e del loro “intellectus fidei”. Al loro nome son legate le monografie di cui sopra, in special modo quelle di J. B. Franzelin e L. Billot, in seguito continuate e precisate da Y. M.-J. Congar, A. Deneffe, P. Lengsfeld, A. Michel, J. Ranft, G. H. Tavard, J, R. Geiselmann, H. Holstein, J. Beumer e tanti altri ancora. In genere, si tratta d’opere davanti alle quali sta non “lo spazio d'un mattino”, ma l’oggi e il domani. È quindi logico che qualcuno mi chieda se ci fosse proprio bisogno del mio intervento. Che proprio io dovessi intervenire e che il mio intervento fosse necessario in assoluto, son il primo a negarlo. Ho peraltro la consapevolezza che il mio non è un intervento di ripetizione. P. es., mentre mi trovo in sostanziale armonia con Geiselmann, qualche perplessità suscita in me Tavard; e mentre seguo in gran parte l’opera di Beumer, ne rifiuto l’acritica adesione al Vaticano II. Nemmeno lo scritto di Congar, un po’ confuso ed eccessivamente didascalico, mi convince molto né m’entusiasma. Quanto a Deneffe, che pur ha scritto una delle opere migliori sulla Tradizione, mi discosto dalla sua identificazione di Tradizione e Magistero. Anche se, per quanto mi riguarda, su quest’argomento mi soffermo poco, son di parere nettamente contrario.

Quanto al mio intervento, il titolo proviene notoriamente dall’apostolo Paolo, il quale, in l Cor 11,23, introduce così il racconto dell’istituzione eucaristica. Alla giovane comunità di Corinto, dove non mancan abusi e deviazionismi, rivolge un salutare richiamo perché la fede sia vissuta con totale e cordiale adesione alla sua fonte genuina. Si tratta d’una fonte non già umana, né puramente storico-letterararia, anche se passa attraverso la testimonianza degli uomini e le maglie della storia. Ciò che d’umano e di storico la caratterizza non costituisce la fonte in sé e per sé, ma indica la mediazione che la veicola ad una libera e responsabile scelta. La fonte, in effetti, è rivelata. Parte da Dio. È sua parola. Una parola non al vento, ma alla coscienza dei destinatari, ai quali Dio la rivolge.

1/1 - In forma diretta ed immediata quella parola fu rivolta alla Chiesa nella persona di coloro che, fin dall’inizio, eran considerati le sue colonne (Cf G1 2, 9): gli apostoli, nel cui collegio una chiamata d’eccezione (1) inserì pure Paolo di Tarso, il convertito sulla strada di Damasco (At 9,3-9).

L’annuncio dell’avvenuta Rivelazione e del suo contenuto - un annuncio ufficiale, in nome cioè della Chiesa che ne aveva avuto il sacro deposito dal suo divin Fondatore - fu tra i compiti precipui degli apostoli e di coloro ai quali essi stessi l’affidarono perché si perpetuasse nel tempo. E “Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato ad esser apostolo e destinato alla proclamazione dell'Evangelo” (Rm l,l), fa appello a questa sua qualità e conseguente responsabilità e trasmette ai Corinzi la Fede ch’egli stesso ha ricevuto.

Come l’abbia ricevuta fa parte delle sue confidenze e del suo racconto; è quindi un fatto acquisito. Egli è apostolo perché scelto come tale non da questo o da quello, ma dallo stesso Cristo (Gal l,l). Il riferimento all’evento di Damasco che lo trasformò da persecutore a confessore e lo pose al servizio di Cristo e della Chiesa è qui evidente. Evidente è, alla base di tutto, una manifestazione diretta; quello ch’egli predica non proviene da un insegnamento umano, ma “da una rivelazione di Gesù Cristo - αλλα δι αποκψεωσ ’Ιησου Χριστου” (Gal 1,12). L’espressione rievoca certamente un fatto straordinario. È la stessa con cui, “quattordici anni dopo”, giustifica la sua seconda ascesa a Gerusalemme (Gal 2,2).

Subito dopo Damasco, era stato accolto in seno alla Chie¬sa. La Rivelazione ricevuta direttamente da Cristo passò allora attraverso la voce della Chiesa stessa; e ne ebbe conferma. Poi, tre anni dopo, il convertito “rese omaggio” (ιστορεσαι) a Pietro e si fermò “quindici giorni con lui” (Gal 1,18); fu l’occasione d’una prima verifica del suo “Evangelo”. Nella circostanza del suo secondo ritorno a Gerusalemme, confessa candidamente d’aver “confrontato” la sua predicazione con quella degli altri apostoli, per accertarsi di “non correre invano” (Gal 2,2). Dal confronto con coloro che, nella stima comune, eran alla guida della Chiesa (cf Gal 2,2), uscì con la confermata coscienza d’una predicazione in tutto conforme a quella delle “colonne” ecclesiali - gli altri apostoli - con l’eccezione d’alcune circostanze esterne e non sostanziali. Ben poteva perciò dichiarare di trasmettere ciò che - da Cristo e dalla Chiesa - aveva egli stesso ricevuto.



1.2 - Ho parlato di forma diretta ed immediata. Ma la vicenda stessa di san Paolo fa capire - a me sembra chiaramente - che perfino per lui ci fu anche una forma indiretta e mediata.

Riportiamoci sulla via di Damasco per assister ancor alla drammatica scena descritta in At 9,3ss. L’ex persecutore, rialzatosi cieco da terra, venne accompagnato “per mano” in città, dove Anania, un discepolo, l’accolse fraternamente, “gl’impose le mani” in segno di benedizione e lo battezzò. Altri discepoli, stupefatti per il suo cambiamento o dubbiosi ancora, lo trattennero in città “alcuni giorni”. Non si sa quanti, ma furon sufficienti perché da Anania e dagli altri apprendesse “la buona notizia” e subito dopo la trasmettesse, predicando Cristo in quelle sinagoghe (At 9,10-22). La dinamica del “ricevere-trasmettere” è qui fuori discussione. Ma è ormai indiretta e mediata: Paolo ritrasmette quello che ha ricevuto. È la dinamica della παραδοσισ, la quale è la vita stessa della Chiesa: un’ininterrotta trasmissione dell’eredità apostolica.

A suo tempo si vedrà come una siffatta trasmissione fu messa in moto, con lo scopo che non subisse alcun arresto né alcun’innovazione in processo di tempo e continuasse a normare per sempre la vita della Chiesa con l’eredità degli apostoli. Ebbe così inizio la trasmissione ecclesiale, priva della sua prima caratteristica di comunicazione diretta ed immediata. Con la morte dell’ultimo apostolo - san Giovanni - la Rivelazione si chiuse. Da allora, il Cristianesimo vive non già di nuove rivelazioni, non di nuove dottrine, non d’una Fede nuova, ma di quell’unica Rivelazione ed unica dottrina ed unica Fede che, predicata da Cristo e dai suoi apostoli, attraversa il tempo del “già e non ancora” mediante il ministero della Chiesa.

1.3 - Mediante, vale a dir in forme spazio-temporali che si rifanno a valori originari ed ormai lontani, ne ripeton la normatività sempre attuale, li fanno rivivere. È questa la vita della Chiesa: una continuità mediante l’aggancio all’originario e la sua inalterata attualizzazione. Ciò che ella ebbe in origine, è ciò che ritrasmette in ogni istante del suo “hic et nunc”: in origine le fu consegnato per via diretta ed immediata ciò che, qui ed ora, il suo ministero ne fa una comunicazione indiretta e mediata, in risposta ad una precisa disposizione di Cristo: “Andate in tutt’il mondo ed ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed insegnando loro a conservare tutto quanto vi ho comandato”. Poi, quasi a rivendicare per sé l’ammaestramento in forma diretta ed immediata, aggiunse: “Ecco, io sono con voi o¬gni giorno, sin alla fine del tempo” (Mt 28,18-20). Il maestro, la guida, il pastore è Lui: “non vi lascerò orfani” (Gv 14,18).

Sembra di capire che anche nel mediante - fermo restando e non discutibile lo statuto indiretto e mediato della comunicazione cristiana ad opera dei “mandati” da Cristo - sussiste qualcosa della comunicazione originaria, diretta ed immediata. La Chiesa, è vero e lo si sa, non è un semplice megafono né un ripetitore meccanico; trasmette infatti ciò che ha ricevuto con tutta la sua responsabile soggettività. Ma il maestro la guida il pastore continua ad esser Lui. Misticamente sacramentalmente mistericamente è sempre Lui colui che comunica. Una vera interazione si verifica, dunque, nell’atto stesso della παραδοσισ: dalla trasmissione ecclesiale dei valori ricevuti mediante l’ininterrotta catena del ricevere e ritrasmettere, emerge l’Io di Cristo, “il rivelatore del Padre” (cf 2Cor 4,4; Col 1,15).

Cristo stesso, del resto, aveva affidato al suo Spirito il compito d’attualizzare la propria parola: “Fin a che son rimasto in mezzo a voi, vi ho comunicato queste cose. Poi il Padre manderà il Paraclito, cioè lo Spirito Santo, il quale vi ripeterà tutto quello che v’ho insegnato io” (Gv 14,25-26). “E quando questo Spirito della verità sarà venuto, v’introdurrà – οδηγησει - nella verità tutt’intera” (Gv 16,13).

Questi due ultimi testi hanno un’importanza decisiva per la storia della Chiesa, a condizione che non se ne equivochi il genuino significato. Nella sua sostanza, infatti, la verità che lo Spirito Santo trasmetterà alla Chiesa non avrà nulla di nuovo: sarà costituita da “tutto quello che v’ho insegnato io”. Il fatto, poi, che lo Spirito Santo introduce la Chiesa in tutta la verità, non significa che la “revelatio” di Cristo, perché parziale, verrà integrata dalla “suggestio” dello Spirito Santo; significa invece che, grazie a codesta “suggestio”, saranno scoperti, della Rivelazione di Cristo, aspetti prima in tutto o in parte nascosti o moduli espressivi meno inadeguati.

A questi due testi non pochi, oggi, fan risalir errori e contraddizioni evidenti tanto quanto stridenti rispetto alla comunicazione originaria. Come se Dio, verità sostanziale che non inganna né s’inganna, si correggesse nel rinnovarsi del suo rapporto con l’uomo e con la storia. Come se questo rapporto fosse in tanto nuovo, in quanto allineato con la cultura del momento, ignorando superando o azzerando il passato, recente o remoto. S’è infatti convinti che lo Spirito Santo tutto legittimi e perfino il contrario di tutto, fosse pur un’eresia. Introducendo nei gangli vitali della Chiesa ciò che ieri si riteneva errore, se ne coglierebbe non “frutti di cenere e tosco”, ma un’efflorescenza nuova ed attuale della verità quale “qui ed ora” si rende visibile. In tal modo verrebbe garantita alla Chiesa una vitalità sempre nuova e rigogliosa, proprio perché prima nemmeno intravista. E tutto, anche un assurdo teologico/dogmatico, diventerebbe la novità, che lo Spirito della verità farebbe scaturire come giovane e vitale virgulto dal vecchio ceppo della prima Rivelazione, dimostrandone tutta l’imperitura e rinascente vitalità.

Anche il Tridentino si richiamò ai due testi giovannei, ma con ben altro intento ed altro significato. Tra le sue righe, specie là dove si parla delle verità predicate da Cristo o (suggerite) dallo Spirito Santo (2), riemerge, come culla della novità, la prima comunicazione diretta ed immediata. Da tutto l’insieme perfino l’ombra della contraddizione e dell’assurdo è assente. La novità vien legittimata da una “conditio sine qua non”: quella dell’ “eodem sensu eademque sententia” (3) .

2 - Se la spiegazione d’un titolo che proprio sibillino non sembra, a queste considerazioni - ma anche ad altre, per il momento taciute - ha portato, le parole con cui è formulato il sottotitolo parrebbero ancor men bisognose di precisazioni e d’osservazioni ermeneutiche, grazie alla loro chiarezza ed alle stesse discussioni di questi ultimi tempi.

2.1 - Può darsi che anch’io abbia dato un contributo a codeste discussioni con il mio recente scritto sull’ermeneutica del Vaticano II (4). Certo è che l’impatto è stato vastissimo e vivace; se n’è parlato e si continua a parlarne. E la discussione verte preminentemente sulla Tradizione: una realtà vivente, o un soprammobile del passato?

Non ho alcuna intenzione d’anticipar a questo prologo il nucleo di fondo della mia riflessione. Ma allo scopo di render questa medesima riflessione non puramente teorica ed astratta e di convincer il lettore, fin da subito, sulla provata necessità della discussione, se non proprio sulla sua ineludibilità per alcuni aspetti riguardanti la vera Fede cristiano-cattolica, ritengo che il sottotitolo debba esser adeguatamente sviluppato.

Nessuno s’aspetti d’incrociare, attraverso le sue letture, qualche difensore dell’alternativa sopra indicata. Credo che nessuno formuli la domanda in termini così nettamente alternativi. La maggior parte, anzi, anche di coloro che parteggian per la c. d. Tradizione vivente, si dichiara a favore della Tradizione apostolica, di cui intende metter in evidenza la vitalità imperitura, la capacità di corrisponder alle attese di sempre, la funzione di tacitarle assumendone in proprio le acquisizioni scientifiche e come proprie proclamandole, la sintesi della verità cristiana nella “geltende Lehre” di schleiermacheriana memoria (5) con conseguente integrazione di Cristianesimo e cultura imperante.

Sì, l’alternativa parrebbe del tutto estranea agl’intenti critici di chi si schiera a difesa della Tradizione vivente. Lo sanno tutti che nessuna verità può aver diritto di cittadinanza nel complesso delle verità cristiane se in concorrenza con esse, o a sostituzione anche parziale d’una sola di esse. Le verità rivelate godono dell’intangibilità ed inalterabilità di Dio; le altre in tanto sono, in quanto cambiano. Si potrebbe applicar loro una famosa ed acuta osservazione agostiniana: “Mutantur enim, ergo creata sunt”. Il loro stesso adattarsi agl’imperativi del momento esclude che vengan da Dio, la cui parola “dura per sempre” (Sal 119/118,89).

L’alternativa è, allora, assente dall’orizzonte teologico dei fautori della Tradizione vivente? Non lo direi. Da quando l’aggettivo “vivo/vivente” fece il suo ingresso nel Vaticano II (6) portandovi un significato ignoto all’uso che prima se ne faceva, l’alternativa è in atto. In alcuni teologi e pastori, in modo acritico e superficiale, in ossequio alla “svolta” conciliare, sotto la spinta emotiva dell’ondata innovatrice che il gruppo di Bologna (Alberigo e colleghi) era riuscito a diffondere ovunque, giustificandola all’insegna d’una Chiesa pre- e d’una Chiesa postconciliare. Chi infatti considerava il Vaticano II come l’evento epocale che aveva conferito un assetto nuovo alla Chiesa, un nuovo inizio, una nuova autocoscienza, celebrandone il trionfo sulle ceneri del vecchiume tridentino e scolastico, non era affatto tenero per la Tradizione che, fin a poco prima, aveva sorretto proprio quel “vecchiume”. Davanti a sé aveva solamente “il sol dell'avvenire” e ne preparava l’avvento mediante tutto ciò che di vivo e vitale fosse reperibile nella matrice cristiana. La “nuova Pentecoste” e l’“ondata di primavera”, espressioni ormai proverbiali dopo che Giovanni XXIII aveva in esse sintetizzato il Concilio (7), escludevan uno sguardo a ritroso verso quei valori che il tempo aveva inesorabilmente usurato - qualcuno parlava pure di “nuova primavera”, come se l’alternarsi di essa alle stagioni precedenti potesse anche farne qualche cosa di vecchio -. Son fatti, questi, ch’escludon perentoriamente il bilanciarsi delle posizioni tra l’una e l’altra Tradizione. Che lo si dicesse o no, la scelta e le simpatie avevan una sola direzione, quella della Tradizione vivente.

2.2 - Che di natura sua il Magistero ecclesiastico sia vivente fa parte delle certezze illustrate e suggellate dalla dottrina teologica. Quando, solo per portar un esempio, san Tommaso fa intervenire il Magistero per render più esplicita una verità di Fede e per adeguarne la proposta al superamento d’incomprensioni ed errori (8) , ne dimostra l’intrinseca vitalità. E quando dalla sponda del Magistero si passa a quella della Tradizione per ricuperarne la qualità apostolica e risponder agl’interrogativi del momento con la dottrina proveniente dagli apostoli, non il Magistero soltanto si rivela vivo e vitale, ma anche la Tradizione. Questa, cioè, dimostra la sua immanente ed immutabile vitalità in quanto “deposito sacro” di quella divina verità che il Magistero eredita dagli apostoli e ripropone in quanto tale e che, in quanto tale, trascende ogni limite di tempo e di cultura. La qual cosa mai si verificò, né mai si verificherà per nessun sistema nato nel tempo, espressione del livello culturale di quel tempo e perciò stesso destinato a tramontare insieme con esso.

L’eredità apostolica ha una vitalità che trascende ogni limite spaziotemporale, perché raccoglie nel “sacro deposito” affidato al Magistero qualcosa d’assoluto: la verità rivelata da Cristo nell’intero arco della sua esistenza terrena, compresi i giorni tra la sua risurrezione e la sua gloriosa ascensione. Essendosi definitivamente chiusa la Rivelazione pubblica con la morte dell’ultimo apostolo, si chiuse pure con essa quel periodo transitorio che s’era aperto con la prima Pentecoste cristiana, durante il quale lo Spirito Santo aveva dato inizio alla sua missione di ricordar alla Chiesa “tutto quello che Cristo aveva insegnato”. Da allora la sua “suggestio” immette nel “sacro deposito” qualche nuovo elemento, estrinseco all’insegnamento di Cristo, ma in grado di confermarlo e d’approfondirne la conoscenza. Quando ciò avviene, entra nel “sacro deposito” non una nuova rivelazione, ma un nuovo raggio di luce che illumina la verità rivelata da Cristo (9).

Nient’altro potrà più entrarci. Nient’altro, da allora alla fine del mondo. È questo il tempo del “già e non ancora”, riempito illuminato e signoreggiato - per quanto attiene alla vita cristiana e all’eterna salvezza - da Cristo e dallo Spirito Santo: una presenza che mantiene la Tradizione apostolica sempre viva e sempre vivificatrice perché sempre se stessa nel volger inarrestabile dei secoli.

2.3 - Ciò non ha nulla a che fare con il fissismo e l’immobilismo dogmatico, rimproverato a Roma - non solo alla teologia della Scuola Romana, ma anche alla Curia romana, alla Santa Sede, agli organi di governo e di magistero ecclesiastico -. Fronteggiò queste accuse il beato Pio IX soprattutto con il Syllabus del 1864 e fece altrettanto san Pio X con i suoi interventi antimodernistici. Dunque, non solo un no all’immobilismo, ma anche un sì ad una visione evolutiva della Tradizione. Anche se ne parlerò più diffusamente in fase espositiva, dev’esser chiaro fin d’ora che la Tradizione è viva non se cambia i suoi connotati, ma se li mantiene; e li mantiene non per sclerotizzarli, ma per precisarli sempre meglio.

Si vedrà a suo tempo che la vitalità della Tradizione è dovuta, paradossalmente, ad un non negoziabile sbarramento d’ingresso per ogni progresso sostanziale o intrinseco di essa. Per capir di che cosa si tratti, basta riferirsi al pericolo mortale, subdolamente teso alla Fede e alla Chiesa dai campioni più rinomati del modernismo, quando il dogma veniva da loro dissolto nel suo contrario con l’immissione di dati emergenti dalla cultura del tempo, dalle scienze cosiddette umane e segnatamente dalla psicologia (“e latebris subconscientiae” [10]), dalle filosofie immanentistiche e razionalistiche, dalle metodologie c. d. critico-scientifiche. La rivelazione diventava un’illuminazione soggettiva del senso religioso, Dio non ne era più l’autore personale e trascendente; e suo contenuto non eran più le verità oggettivamente e storicamente da Lui rivelate. Tutto si risolveva sul piano della coscienza individuale, del sentimento, della cultura, della storia e del suo “eterno” movimento.

Forse pochi altri movimenti eterodossi furon più del modernismo responsabili d’un piano così terribilmente eversivo del dogma cattolico. Sottoposto ad un suo movimento interno che ne dissolveva il contenuto e si concludeva, sia pur temporaneamente, con un suo sostanziale cambiamento, il dogma modernisticamente corretto e riveduto era sempre qualcos’altro. Si vide in ciò il suo “progresso sostanziale”; senza l’opera di san Pio X, sarebbe stato la tomba di se stesso.

Eppure, va detto con altrettanta chiarezza e fermezza che la vitalità della Tradizione apostolica non impedisce del dogma un miglioramento espressivo-conoscitivo, detto sintomaticamente progresso accidentale. Si tratta d’un progresso estrinseco, estraneo alla natura d’un dogma in particolare, o del dogma in quanto tale. A solo titolo d’esempio, riporto l’attenzione al grande e grandemente bistrattato Pio IX. Nel 1854, come ognuno sa bene, proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione (11) . Se, con tale definizione, avesse inteso:

• aggiungere nel “sacro deposito” delle verità rivelate una nuova e fin a quel momento sconosciuta verità;

• arricchire d’un nuovo contenuto dogmatico l’esperienza originaria della Rivelazione;

• ed affermar il ripetersi degli atti rivelatori anche dopo la morte dell’ultimo apostolo,

avrebbe operato un cambiamento veramente sostanziale della Tradizione apostolica, della Rivelazione e dello stesso dogma. Della Tradizione, infatti, avrebbe dilatato i margini contenutistici al di là del “sacro deposito” che la Chiesa ha ereditato da Cristo e dagli apostoli; della fonte rivelata avrebbe considerato tuttora aperto e mai prima d’ora chiuso il flusso rivelatorio; del dogma avrebbe dissociato il rapporto “fondativo” con codesta medesima fonte, nei limiti storici e dogmatici entro i quali essa è conclusa.

Nulla di tutto questo è ascrivibile al beato Pio IX. Va intanto ricordato che né inventò lui la pia credenza nell’Immacolato Concepimento di Maria - riconosciuto, certo a modo suo, perfino da Lutero (12) - né convertì la pia credenza in dogma con un coup de théâtre. I precedenti storici, le commissioni di studio, i pareri raccolti presso tutto l’episcopato son dati di fatto storicamente accertati. Con la definizione e dopo di essa, la Fede cattolica non registrò alcun cambiamento sostanziale, rimanendo quella ch’era sempre stata. Il cambiamento ci fu, ma esclusivamente sul piano d’una più profonda intelligenza del dogma cristologico e d’un passaggio dall’implicito all’esplicito.

3 - Quando leggo o ascolto eminenti teologi che, dall’alto della loro raffinata intelligenza e sconfinata cultura, apron con evidente convinzione - e qualcuno spalanca -la Fede al mondo per integrar in essa principi e metodi assolutamente inconciliabili con la trascendenza della Fede stessa; quando ne seguo l’affannarsi nella dimostrazione dell’inconciliabile conciliabilità e addirittura dei vantaggi che la verità cristiana potrebbe trarre dall’apporto del sapere profano; quando perfino altissime personalità della Chiesa leggon nel positivismo, nel razionalismo, nel romanticismo ed in genere nell’illuminismo segnali certi d’un’ineludibile provenienza da Cristo e d’una Tradizione che proprio in questo rivelerebbe la sua vitalità, mi si stringe il cuore e mi chiedo se si sappia davvero ciò di cui si sta parlando. Di per sé, cioè nel rigoroso rispetto dei propri e degli altrui confini, il compito d’annunciar la Fede, e di professarla annunciandola in piena conformità alla Tradizione apostolica e non come una “lezione cattedratica”, spetta al “ministro della parola” (At 6,4) e soprattutto al vescovo. Il professore, invece, ne proporrà i termini tecnici e l’analisi scientifica, per dimostrare che fede e scienza, se rispettose dei propri statuti, non si contraddicono. Quando “ministro della parola” e professore son la stessa persona, annuncio e lezione interagiranno, ed anche utilmente, ma solo se s’asterranno da reciproche prevaricazioni.

Un’invasione di campo sarebbe insostenibile: lo scienziato che, con lo strumento del suo metodo sperimentale, sdottoreggia in campo teologico; il giornalista che, solo perché accreditato presso la sala stampa della Santa Sede, s’atteggia a san Tommaso d’Aquino; il teologo che, specie se non digiuno d’infarinature scientifiche, concilia la creazione con il fantasmagorico Big Bang originario e sua disseminazione dell’essere; il pastore, che scambia il pulpito o l’ambone con la cattedra. L’invasione di campo è davvero un caos e caos è quel farneticare degli invasori che nella Tradizione vivente introduce o il tarlo che la corrode, o il veleno che l’uccide.

A chi mi chiedesse una parola più chiara, potrei risponder “tolle et lege”: c'è solo il problema della scelta. Indirettamente, tutt’il presente volume sarà una risposta. Al fine di renderla il più possibilmente accessibile mediante una fondamentale consonanza d’idee tra chi scrive e chi legge, mi rifaccio al titolo di questo volume ed al testo paolino (l Cor 11,23) che l’ha suggerito.

Anche al tempo di san Paolo, specie nella città di Corinto, c’eran non pochi e perfino gravi disordini. Per liberarsene e dar un nuovo assetto alla scomposta situazione determinata da alcuni scontenti, l’apostolo invitò i Corinzi a voltarsi indietro, verso l’inizio. Oggi, al contrario, proprio quella situazione qualcuno avrebbe analizzato - ovviamente in profondità - per valutarne i disordini come un arricchimento della comune esperienza vissuta. Avrebbe osservato che quei disordini nascevan non dalla, ma all’interno della vita cristiana. Potevan esser, perciò, rettificati purificati ed amalgamati nella grande Tradizione apostolica. L’apostolo Paolo fu di tutt’altro avviso. Invitò i Corinzi a discernere i dati costitutivi dell’inizio, per confrontare con essi la situazione del momento e risolverla alla luce del detto confronto. All’inizio c’era stato un ricevere ed un ritrasmettere: “vi ho infatti trasmesso ciò che io pure ho ricevuto”. Nel dire “ciò che” l’apostolo stabilisce un’assoluta coincidenza, anzi un’indiscutibile identità di contenuti fra il ricevere ed il ritrasmettere, in ogni loro margine e senz’alcun’eccezione. Ne consegue che la verità cristiana è reperibile non già nella situazione sopraggiunta, l’ultima nella ridda di tutte le altre, senza connessione con l’inizio o in rottura con esso, ma nell’accennata coincidenza ed identità fra ciò che si riceve e si ritrasmette. Ai Corinzi, pertanto, l’apostolo affida il compito di ripristinare codest’identità ed espungerne ogni deviazionismo dalla Tradizione degli apostoli.

Non diverso sarà il compito sia di chi, oggi domani e sempre, regge in mano i “suscepta gubernacula” di cui parla san Leone Magno (13), sia di quanti son in comunione con lui nel moderare la rotta della Chiesa: davanti ad essi sta l’inizio come faro e punto d’orientamento. Il segreto della Tradizione vivente - di quella forza vitale che ringiovanisce la Chiesa nonostante il passare degli anni e l’irrobustisce nonostante ogni assalto dall’interno e dall’esterno - sarà dunque la fedeltà all’inizio, a quel “ciò che” ricevuto e ritrasmesso che porta la Tradizione stessa nel presente per predisporre il futuro prossimo e remoto.

4 - Aggiungo qualche breve indicazione metodologica, forse superflua, considerando che i lettori del presente scritto saranno soprattutto i teologi. Rifuggendo dalle deprecabili invasioni di campo, mi son fatto scrupolo di rimaner e procedere su un terreno specificamente teologico, lungo i suoi più tipici percorsi. Il discorso sul metodo, si sa, è il discorso sulle strade da battere: metodo significa “attraverso la strada” o “via che conduce oltre”. Sembra ovvio che, svolgendo un argomento teologico, si segua una strada teologica, vale a dir un metodo teologico. Ma quale?

4.1 - Prima, tuttavia, di stabilire quale esso sia, non si può non tener conto del fatto che l’attuale interconnessione dello scibile ha toccato anche il “santuario”. È vero, inoltre, che poche altre discipline hanno, come ha la teologia, contatti e riferimenti al di là del proprio recinto. Filosofia, diritto, storia, psicologia, sociologia ed altre scienze c.d. umane: un ventaglio molto ampio, dal quale il teologo potrebb’esser tentato e perfino disorientato. Per quel che mi riguarda, credo d’esser rimasto nel mio orticello.

Con riferimento più diretto alla questione del metodo, posso dire d’essermi rigorosamente attenuto al principio del decreto conciliare OpT 16/a: “In lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu”. Esso sembra, almen a prima vista, un principio aureo. Pone nella Fede il punto di partenza e l’orientamento sicuro; chiede poi di proceder accompagnati per mano dalla Chiesa.

Affiora subito, peraltro, qualche interrogativo: qual è la Fede che illumina? la mia, cioè quella del singolo credente, che egli crede e per la quale crede, o quella pubblica, sociale, ecclesiale? ed in base a che cosa o l’una o l’altra potrà costituir il “lumen” per il mio orientamento ed il mio avanzamento? dove dovrò attinger questa Fede e dove la sua luce: dalla Sacra Scrittura? dalla mia coscienza? e perché non dalla Tradizione?

Se dalla Tradizione, l’oggetto stesso di tutta la ricerca funge pure da faro d’orientamento. Ma non ne deriva, allora, una contraddizione? o quanto meno una tautologia? una “petitio principii”?

4.2 - Quando i Padri conciliari proclamaron: “In lumine fidei - sub ductu Ecclesiae” forse non vennero nemmeno sfiorati dai suesposti interrogativi. Si può dire, anzi, che non percepiron nemmeno tutta la portata del “ductus Ecclesiae"”. Il quale, lungi dall’abbinarsi con il “lumen fidei", ha di questo il pieno controllo ed esercita a suo favore una funzione formale. Impressiona, a tale riguardo, la frequenza con cui san Tommaso parla di "fides Ecclesiae”, dove il genitivo indica non solo il soggetto d’un possesso, ma anche il titolo di esso e la sua ragione. La Fede, pertanto, che dovrà guidar il mio cammino di ricerca sarà non astratta e generica, ma specifica e garantita dal giudizio della Chiesa. In ultim’analisi, il principio metodologico suggerito dal Vaticano II stabilisce, sì, due condizioni, ma le collega in un rapporto per cui la prima dipende dalla seconda, da questa autenticata e quasi legittimata.

4.3 - La “fides Ecclesiae” è in realtà la Fede oggettivamente ed inequivocabilmente ricevuta precisata formulata e ritrasmessa come propria dalla Chiesa cattolica nell’arco della sua storia più che bimillenaria. È il patrimonio delle verità che ebbe in “deposito” da Cristo e dagli apostoli e che ritrasmise nei secoli con fedeltà sostanziale, se pur non senza qualche passaggio da una minore ad una maggiore chiarezza, né senza qualche conoscenza più piena, più profonda, più chiara delle parti men evidenti del patrimonio stesso. Al termine della ricerca, non sarà difficile per nessuno - questa è la mia speranza - chiamar per nome questa “fides Ecclesiae”: Tradizione apostolica, identificandola con la Tradizione ecclesiastica.

4.4 - I lettori teologicamente più provveduti non avran difficoltà a collegar una siffatta metodologia con le linee maestre d’un’opera ormai completamente dimenticata, ma degna, come il nome del suo autore, il domenicano Melchior Cano († 1560), di rinnovato interesse. Alludo al De locis theologicis (14). L’espressione, nell’improvvisato linguaggio d’alcuni moderni, è diventata sinonimo di tematiche teologiche, mentre in Cano indicava l’elenco delle autorità a sostegno delle singole verità della Fede cattolica. Le elencò secondo l’ordine decrescente del loro valore probatorio: Sacra Scrittura, Tradizione di Cristo e degli apostoli, Chiesa cattolica, Concili ecumenici, Curia apostolico-romana, Santi Padri, Teologi scolastici, Ragione naturale, Filosofi, Storia umana (15). È sintomatico il posto assegnato alla Tradizione, immediatamente dopo la Sacra Scrittura e prima della Chiesa stessa, anche se poi gran parte dell’intero discorso ha un valore prettamente ecclesiologico. E proprio in esso sta la ragione dell’incontro metodologico fra la strada da me seguita e quella suggerita da M. Cano. Anche se mi son astenuto dal portar l’attenzione alla storia delle religioni – un’attenzione di cui Cano si sarebbe avvalso, secondo J. Ranft (16), per dar risalto alla specificità della Tradizione cattolica – l’accennato accostamento metodologico mi sembra evidente nel fatto stesso del premetter la Tradizione alla Chiesa e del ricondurre alla Chiesa la Tradizione. Nel dir Chiesa, in realtà, si dice implicitamente Tradizione. Nella Tradizione la Chiesa trova la divina Rivelazione che la fa Madre e Maestra. Nella Chiesa la Tradizione vive la sua inalterata stagione ed assicura l’identità della “Sponsa Christi”.

5 - Dovrei, a questo punto, elencare le opere alle quali, direttamente o no, la mia si riferisce. In genere, non son molto entusiasta delle lunghe liste bibliografiche, perché né sempre né in tutto “sunt ad rem” ed in qualche caso son semplicemente affastellamenti di titoli. Riconosco peraltro la funzione non solo documentaria, ma anche orientativa d’una buona bibliografia. Ad una tale funzione rispondon, nel mio caso, la nota a piè di pagina, senz’alcuna pretesa né d’esaurire l’elencazione delle opere esistenti, né di segnalar le migliori. Segnalo infatti quelle che mi sono state utili.

Tuttavia, per un argomento di tale e tanta rilevanza, una nota bibliografica minima e ridotta all’essenziale mi sembra doverosa. Così com’è doveroso iniziarla con il nome di:

FRANZELIN J. B., Tractatus de divina traditione et scriptura, Roma 1870 (18964). La prima edizione ha recentemente trovato un bravo traduttore e commentatore francese nella persona di Jean-Michel Gleize (Cardinal Jean- Baptiste Franzelin -1816/1886 - La Tradition, Courier de Rome, s.d.);

BILLOT L., De immutabilitate Traditionis, Roma 1904;

BAINVEL J.V., De magisterio vivo et traditione, Parigi 1905;

RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, ed. M. Schmaus, Monaco 1931;

DENEFFE A., Der Traditionsbegriff Studie zur Theologie, Miinster 1931;

SALAVERRI J., La tradición valorada come fuente de la revelación en el Concilio de Trento, in “Estudios eclesiásticos” 20 (1946) 33-61;

MICHEL A., Tradition, in DThC XVI/I (1946) 1252-1350;

GEISELMANN J.R., Die Tradition - Fragen der Theologie heute, Einsiedeln 1957; ID., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und die nichtgeschriebenen Traditionen: die mündliche Überlieferung, ed. M. Schmaus, Monaco 1957;

VAN DEN EYNDE D., Tradizione e Magistero, in AA.VV., Problemi e orientamenti di Teologia Dogmatica, 1. Milano 1957, p. 231-252;

PIEPER J., Über den Begriff der Tradition, Colonia 1958;

LENNERZ H., Scriptura sola? In “Gregorianum” 40 (1959) 38-53; ID., Sine scripto traditiones, ivi, p. 624-635;

CONGAR Y. M., La Tradition et les traditions. Essai historique, Parigi 1960; tr. it. di G. Auletta, ed. Paoline 1961;

HOLSTEIN H., La Tradition dans l’Eglise, Parigi 1960;

RAMBALDI G., In libris scriptis et sine scripto traditioni¬bus. La interpretazione del teologo conciliare G. A. Delfino OFM Conv., in “Antonianum” 35 (1960) 88-94;

BEUMER J., Die mündliche Überlieferung als Glaubensquelle, Friburgo i. Br., 1962; tradotto in fr. da P. Roche e P. Maraval, Parigi 1967;

TAVARD G. H., Écriture ou Église? La crise de la réforme, Unam Sanctum 42, Parigi 1963;

PENNA A., La Scrittura come momento della tradizione - la tradizione come contesto della Scrittura, in “Atti della XX Settim. Biblica”, Brescia 1970, p. 151-176 (17).



6 - Manca, in questa nota, ogni riferimento ad opere non direttamente né squisitamente teologiche (18), così come ad alcune elaborazioni teologiche della Tradizione secondo i due Concili Vaticani (19). Sull'influsso di questi due Concili e su coloro che più d'altri se ne fecero assertori convinti, riferirò al momento opportuno.

7 – Un’ultima precisazione. Manca in questi preliminari un elenco di sigle, il ricorso alle quali generalmente vorrebbe semplificare l’esposizione. Ci ho rinunciato, preferendo alla sigla il nome intero, per motivi di chiarezza e di tempo: il lettore avrà sotto gli occhi la citazione nella sua interezza e non sarà più obbligato a verifiche che ne interrompan la lettura.

Qualche sigla, peraltro abituale ai lettori d’altri miei scritti, è l’eccezione che conferma la regola. I documenti del Vaticano II son tutti indicati con la loro sigla abituale: LG per Lumen gentium; GS per Gaudium et spes; DV per Dei verbum; DH per Dignitatis humanae, e così via.

8 - Ho la triste consapevolezza che, a distanza di quasi mezzo secolo dall’ultimo Concilio, ancora non si sia colto di esso una sintesi teologica che ne inquadri l’insegnamento all’interno ed in armonia con l’insegnamento di sempre: con la Tradizione e con lo stesso concetto di essa. Si è indubbiamente parlato in tal senso, ora per auspicare l’accennata sintesi, ora per assicurare che determinate iniziative teologiche - monografie, manuali, articoli, tavole rotonde ed atti di congressi anche ad altissimo livello – s’inseriscano, col Vaticano II, nel solco della Tradizione viva della Chiesa.

Ma, né l’auspicio è realtà, né la realtà è andata oltre il limite della sterile e talvolta ingannevole declamazione. Potrei portare migliaia d’esempi, attingendo direttamente al Vaticano II, ai suoi celebrati interpreti, all’attività della Santa Sede, alle numerose riviste teologiche italiane e straniere, alla valanga di libri ed articoli del c. d. postconcilio, ai già ricordati congressi. Un solo atteggiamento prevale: il plauso. E quando ad esso s’aggiunge una parvenza d’interesse critico, non è per verificare se “l’ermeneutica della continuità” abbia frnalmente smosso le acque, ma per proporre il ridicolo d’accostamenti impossibili, come quello recentemente (15-16 maggio 2009) compiuto da un periodico dal nome glorioso: la “Revue thomiste” e dall’Institut Saint-Thomas d’Aquin di Tolosa (20). Ridicolo, ho detto: non saprei in qual altro modo qualificar un “colloquio” che “si propone di riflettere sul modo con cui l’indirizzo teologico ispirato a san Tommaso d’Aquino possa concorrere ad una ricezione tale del Vaticano II, che onori il Concilio come un atto della Tradizione vivente”. Come se del Concilio bastasse sottolineare “l’aspetto-memoria e l’aspetto-novità” per poter parlare di Tradizione vivente. E come se la memoria fosse di per sé riferibile a fatti di “Tradizione vivente”, e fatti di “Tradizione vivente” venissero in piena luce con la novità. Il colmo, poi, è nella convinzione che ciò possa conseguirsi con l’aiuto di quel san Tommaso d’Aquino che, in tutto il Vaticano II, vien ri¬cordato due sole volte e quasi di passaggio.

È pertanto evidente che, sul concetto cattolico di Tradizione, s’impone un’operazione chiarificatrice. Nella storia della teologia cattolica l’impresa è stata tentata, talvolta egregiamente e qualche altra volta un po’ meno. Mi ci provo anch’io, con l’intento e la speranza d’aggiornare l’argomento.

Dal Vaticano, 31gennaio 2010

Brunero Gherardini

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NOTE

1 - Il fatto avvenuto sulla via di Damasco è noto. In At 9,1-19 si nar¬ra la straordinaria trasformazione del persecutore Saulo nell’apostolo e “vaso d'elezione” Paolo. Sui Dodici, cioè sugli apostoli, cf KREDEL E. M., Apostolo, in BAUER J., (a c. di), Dizionario di Teologia Biblica, ed. italiana a c. di L. Ballarini, Morcelliana, Brescia 1965, p. 127-139; ID., Der Apostelbegriffin der neueren Exegese. Historisch-kritische Darstellung, in “Zeitschrift f. kathol. Theologie” 78 (1956) 266-290, 425-444.

2 - CONC. OECUM. TRIDENT., sess IV (8 apr. 1546) DS 1501; cf CONC. OECUM. VATIC. I, sess. III (24 apr. 1870) DS 3006.

3 - Cf. S. VINCENZO DA LERINS, Commonitorium 23 PL 50,667.

4 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico Vaticano II - Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009. In poco più d’un mese si è provveduto ad una seconda edizione e si stan già ultimando varie traduzioni.

5 - SCHLEIERMACHER Fr., Kurze Darstellung des theologischen Studiums, a c. di H. Scholz sulla terza ed. del 1910, Verlag Olms, Hildesheim 1977, §§ 94-97 e 195-231, p. 40-41 e 73-88.

6 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico…, cit., pp. 130-133

7 - GIOVANNI XXIII, Alloc. 8 dic. 1962 in SEGRETERIA GEN. VA¬TICANO II, Constitutiones, decreta, declarationes, Poliglotta Vaticana 1966, p. 891.

8 - S. TOMMASO, STh 11/2,1,9 ad 2.

9 - A ciò si riferisce il Tridentino distinguendo tra verità di Cristo e dello Spirito Santo.

10 - PIO X, Encicl. “Pascendi dominici gregis”, 8 sett. 1907, ASS 40 (1907) 597-598.

11 - PIO IX, Bolla “Ineffabilis Deus”, 8 dic. 1854, DS 2800-2804.

12 - GHERARDINI B., Lutero-Maria. Pro o contro?, Giardini editori, Pisa 1985, p. 140-147.

13 - S. LEONE MAGNO, Serm 3,3-4 PL 54,146-147.

14 - M. CANO, De locis theologicis lib. XII, Tipogr. Remondiniana, Venezia 1799, spec. p. 4-7.

15 - M. CANO, De locis, cit., p. 4.

16 - RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, Würzburg 1931, p. 112-113, 248-284.

17 - Ovviamente si dovrebbe far attenzione anche ai manuali di Teologia dogmatica, d’estrazione sia romana che straniera. Quanto all’elenco sopra presentato, si tratta solo d’un piccolissimo “specimen” d’interventi a carattere o storico o dogmatico, non tutti dello stesso valore né tutti dello stesso indirizzo, ma tutti meritevoli della massima attenzione.

18 - Un solo esempio: ZOLLA E., Che cos’è la Tradizione?, Bompiani, Milano 1971. L’opera non è priva d’un suo afflato religioso ed ha soprattutto nella parte esplicativa un’importanza di notevole rilievo. S’oppone - e qui colpisce anche nel segno teologico - ad ogni ricostruzione storicistica della Tradizione, come forma e come contenuto, e difende egregiamente una visione metafisica di essa.

19 - Non si tratta d’un rifiuto, come se i due Concili in parola non avessero una loro dottrina sulla teologia della Tradizione e non avessero avuto un forte influsso sul successivo dibattito teologico. Ne parlerò in fase espositiva e non mancherò di tratteggiare il detto influsso, ricordando pure qualcuno dei teologi che vi s’impegnarono. Questo farò anche per colmare una strana lacuna: né il Beumer né lo Holstein, giustamente ammirati e spesso lodati, son molto sensibili all’influsso del Vaticano I sul concetto di Tradizione.

20 - REVUE THOMISTE - INSTITUT SAlNT-THOMAS D’AQUIN, Vatican II: rupture ou continuité. Les herméneutiques en présence.

venerdì 19 novembre 2010

Ushaw College: un seminario storico in grave difficoltà

Per il destino dello storico seminario: Ushaw College, sono settimane decisive (la proposta della Latin Mass Society di trasformarlo in seminario tradizionale é ancora sotto scrutinio).
Eì importante far sapere che siamo in molti ad averne a cuore la sorte. chi ha un profilo facebook, si iscriva alla pagina "Save Ushaw College from closure"(http://www.facebook.com/pages/Save-Ushaw-College-From-Closure/171060129574904).

There is a great fear that the closure of this estabishment will mean the complete mothballing of such an important historic site which which holds great significance to the local, regional and national communities.The main aim of this page is to create awareness of the impending closure and to allow the power of the internet and socail media to assist in providing a way forward to securing the future of this building.It has been stated in news articals that the management teams have explored every avenue in looking for a viable way forward. I find this very hard to believe. They are still hoping that someone will come forward with a business plan proposal which could prevent the closure in June 2011. I think we can help. There is a brian storming sesson within the discussions tab of this page where i would like anyone to throw in thier ideas and if we're lucky, some connections to support those ideas. Press Statement below.Trustees announce proposal to close Ushaw CollegeThe trustees of Ushaw College have announced a proposal today that pending consultation with College employees and the Charity Commission that Ushaw College will be closed.The 200-year old Roman Catholic college is home to St Cuthbert’s Seminary which has been forming young men for the priesthood since its foundation more than 400 years ago. Ushaw also provides a range of conferencing, events, and accommodation facilities to groups, organisations and businesses from throughout the UK. The proposal means that if implemented the College will cease operating at the end of the current academic year in June 2011.The seminary serves the seven dioceses of the Northern Province of England and the Diocese of Shrewsbury and the wider church.In recent years, Ushaw College has developed to blend heritage with advancement while maintaining its core function of the formation of priests to help renew and continue the work of the Roman Catholic Church in the region. Currently, there are 26 seminarians in formation at St Cuthbert’s Seminary and once they have completed this year’s studies, it is proposed that they will transfer to another seminary.

giovedì 18 novembre 2010

L'arricchimento mutuo in marcia

Pubblichiamo una interessante intervista a padre Claude Barthe, tratta da Paix Liturgique.



Un libro sul nuovo movimento liturgico conquista i lettori francesi (*). Scritto da padre Claude Barthe, già autore di vari libri sulla liturgia antica, questo breve saggio tratta della "messa a posto" della messa di Paolo VI. Eccone una presentazione, tradotta dall'intervista rilasciata da padre Barthe alla rivista francese Monde et Vie.

1/ Padre, il suo ultimo lavoro ci spiazza un po'. La conosciamo come difensore della messa tradizionale e la scopriamo attento alla messa di Paolo VI. Come mai un tale interesse da parte sua?
La partecipazione attiva alla difesa della messa tradizionale, non mi ha mai impedito di interessarmi alla trasformazione dell'altra, la messa di Paolo VI. Nel 1997, dieci anni prima del Motu Proprio, avevo pubblicato un libro di riflessioni - "Reconstruire la liturgie. Entretiens sur l’état de la liturgie dans les paroisses" edizioni F-X di Guibert -, in cui il tema era esattamente quello dell'attuale Quaderno. E' chiaro che il Motu Proprio del 2007 ha rilanciato questo proposito, che consiste nel sottolineare come le due critiche parallele dei cambiamenti attuati sotto Paolo VI, nello specifico quella frontale, tesa a promuovere una larga diffusione della liturgia antica, e quella riformista, detta "riforma della riforma", che cerca di mettere in pratica dei cambiamenti dall'interno della liturgia di Paolo VI, sono state strettamente legate sin dall'inizio.Il progetto di riforma della riforma non può realizzarsi senza quella colonna vertebrale costituita dalla celebrazione più ampia possibile secondo il messale tradizionale. D'altro canto quest'ultimo non può sperare di reinserirsi massicciamente nelle parrocchie ordinarie senza la rinascita di un ambiente favorevole alimentato dal vitale sostegno della riforma della riforma.

2/ I fondamentalisti della forma straordinaria ritengono che il messale di Paolo VI non sia riformabile e che sarebbe necessario disfarsene. Lei pensa che invece possa essere salvato, o che si possa addirittura arricchirlo, come?
Penso innanzitutto che sia completamente irrealistico credere che con un colpo di bacchetta magica in tutte le parrocchie del mondo tutte le messe vengano di nuovo celebrate secondo l'uso antico. Di contro posso constatare, insieme ad altri, compresi alcuni che sono ai vertici della gerarchia cattolica, che il messale di Paolo VI contiene un'infinità di opzioni, sfumature e possibilità d'interpretazione. Operando una scelta progressiva o sistematica, o sistematicamente progressiva, delle opzioni a carattere tradizionale che contiene, si può rendere possibile nelle parrocchie, in modo perfettamente canonico, un aggiustamento, in senso ortodosso, del suo utilizzo. D'altra parte è una semplice constatazione: Moltissimi parroci praticano già questa riforma della riforma, spesso per tappe, e nella grande maggioranza dei casi, parallelamente, celebrano la messa tradizionale.Per rispondere dunque alla domanda, direi che credo che la liturgia romana possa essere salvata, come si può constatare in pratica, attraverso un'azione a doppia velocità: diffusione del messale di San Pio V e riforma della riforma. Questo farà si che, parafrasando un celebre discorso di Paolo VI, si abbandoni progressivamente tutto ciò che questa riforma comporta che è già vecchio e fuori moda proprio perché non tradizionale. Dopo questa operazione vedremo bene cosa si salverà...

3/ Lei ci fa scoprire una parte poco conosciuta della storia liturgica di questi ultimi quarant'anni. Mentre i sostenitori della messa tradizionale non sentivano il bisogno di preoccuparsi del nuovo messale, alcuni adepti "moderati" di quest'ultimo, una corrente decisamente minoritaria a dire il vero, si sono adoperati per proporne una riforma. Ci può brevemente descrivere questa posizione?
E' la storia di quella che potremmo chiamare la critica riformatrice del nuovo messale. In breve, e parlando solo della Francia, possiamo ricordare che un teologo come Louis Bouyer, che aveva partecipato attivamente alla riforma conciliare, è entrato molto presto in conflitto con un certo numero dei suoi aspetti, in particolare in riferimento all'orientamento della celebrazione. L'abbazia di Solesmes e, in gradi differenti, alcune delle sue "figlie" hanno accettato la riforma, ma senza derogare all'uso del latino e del gregoriano. La Comunità Saint-Martin, di Monsignor Guérin, ha optato per il messale di Paolo VI, ma secondo un'interpretazione molto "tradizionalizzante". Monsignor Maxime Charles, rettore della Basilica di Montmartre, e l'abate Michel Gitton, il suo principale erede spirituale, un tempo parroco di St-Germain-l’Auxerrois a Parigi, hanno avuto come linea di condotta la conservazione di ciò che sembrava poter essere recuperabile in mezzo alle rovine. Soprattutto, c'è stato il fenomeno Ratzinger. Già nel 1966, Joseph Ratzinger era intervenuto in modo molto severo al Katholikentag di Bamberga a proposito della riforma in corso. La lotta contro quello che riteneva essere un "falso spirito del Concilio" è divenuta, per così dire, sostanziale per colui che è stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1981, e poi Papa nel 2005. In materia di liturgia Joseph Ratzinger andava molto più lontano rispetto agli altri riformisti. Sappiamo oggi che il 16 novembre 1982 aveva organizzato a Roma una riunione cardinalizia "riguardo le questioni liturgiche", ed aveva ottenuto che tutti i Prefetti delle Congregazioni presenti alla riunione affermassero che il messale romano antico doveva essere "ammesso dalla Santa Sede in tutta la Chiesa per le messe celebrate in lingua latina". Nel 1982... esattamente un quarto di secolo prima della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum!

4/ La Sua opera è sottotitolata "Un nuovo movimento liturgico". E' un pio auspicio, o la constatazione del fatto che attorno a Benedetto XVI, punta di diamante di questa riforma della riforma, si è costituito un gruppo influente di prelati e uomini di Chiesa che intendono, se non portarla velocemente a compimento, almeno dargli una spinta decisiva?
Appunto: Appoggiandosi sulle opere di Joseph Ratzinger ("Rapporto sulla fede", "La mia vita", "Introduzione allo spirito della liturgia", "Cantate al Signore un canto nuovo", "La festa della fede") e trovando in queste un'autorevole legittimazione, si è costruita una nuova generazione di teologi, storici del culto divino e membri della Curia , che forma oggi il nucleo degli ideatori della riforma della riforma e dei sostenitori del Motu Proprio.Detto questo, nessuno di loro, a cominciare dal Papa, intende promuovere questa riforma della riforma attraverso testi, decreti o tramite la pubblicazione di un nuovo messale di sintesi fra il nuovo e l'antico: Un messale "Benedetto XVI" che non farebbe altro che aggiungersi al messale Paolo VI. Vogliono piuttosto procedere con l'esempio, l'esortazione, l'educazione e soprattutto, per evocare il tema dell'Epistola ai Romani di San Paolo, provocare una sana "gelosia" della forma detta oggi ordinaria nei confronti di quella detta straordinaria. Questa è del resto la caratteristica della restaurazione voluta dal cardinale Ratzinger fin dal 1985: Cercare di arrivare al cuore delle questioni conciliari, ma in modo esortativo e mai coercitivo.La riforma della riforma, infatti, da già i suoi frutti in un gran numero di parrocchie. E' sufficiente dunque incoraggiarla, diffonderla, e soprattutto farla arrivare al livello delle diocesi. Sarebbe giusto e opportuno che, invece di riguardare solo i parroci alla base, e il Papa alla sommità, essa venisse messa in pratica anche dai vescovi. Immaginiamo per un momento l'effetto prodigioso della restaurazione non solo della liturgia, ma di tutto ciò che ad essa si accompagna, intendo le vocazioni, la dottrina, il catechismo, il rinnovamento della pratica cattolica, che si scatenerebbe se un vescovo, poi due, poi tre... girasse nuovamente l'altare nella sua Cattedrale, ristabilisse l'uso della comunione in ginocchio, reintroducesse il latino e il gregoriano, e vi facesse regolarmente celebrare la messa tradizionale.

5/ Benedetto XVI, durante il suo viaggio apostolico nel Regno Unito, ha celebrato tutte le sue messe con il prefazio e il canone letti in latino. Cosa le ispira questa novità solo l'ultima di una serie a partire dall'elezione del cardinale Ratzinger, riguardo le celebrazioni pontificie?
Mi ispira "gaudium et spem", gaudio e speranza. Spero, per esempio, che in un prossimo viaggio apostolico, il Papa celebri pubblicamente la messa secondo la forma straordinaria del rito romano, cosa che, si dice, lui faccia regolarmente in privato....



(*) "La Messe à l'endroit – Un nouveau mouvement liturgique"

Segnalazione del libro "L'opposizione al Motu Proprio Summorum Pontificum", di Alberto Carosa



L'autore: è straordinaria liturgia che attrae giovani sacerdoti

Roma, 20 settembre 2010

Il Motu Proprio che ha liberalizzato la liturgia latina antecedente al Concilio Vaticano II risale al 2007, ma in questi pochi anni ha già cominciato a trasformare la vita della Chiesa. "Contrariamente a quanto si potrebbe comunemente pensare, si tratta di una liturgia straordinaria che esercita una particolare attrattiva proprio sui giovani sacerdoti, che sono il futuro della Chiesa".
E' quanto scrive Alberto Carosa, giornalista e socio fondatore del Centro Culturale Lepanto, nel suo ultimo libro "L'opposizione al Motu Proprio".
Un'opposizione che non viene dal giovane clero, ma da quegli esponenti avanti con gli anni e già con una certa esperienza di ministero.
"Ciò che forse più colpisce e addolora il cattolico – scrive Carosa - è la virulenza di certe argomentazioni critiche, anche e specialmente contro la figura del Papa, una sorta di fuoco amico che sembra quasi ricordare i toni più accesi di certe recenti campagne mediatiche anti-cattoliche, apparentemente motivate dalle tristi vicende dei preti pedofili.
Apparentemente, perché a questo punto potrebbe sorgere il sospetto che si voglia colpire il Papa anche per il motu proprio e le sue implicazioni.
Se così fosse, la conclusione non può che essere una sola: buon segno, perché vuol dire che la direzione è quella giusta".

(Apcom 20 settembre 2010)

Festa del Coordinamento Toscano «Benedetto XVI»

Il 22 novembre, presso la Chiesa parrocchiale dello Spirito Santo sita a Prato in Via Silvestri 21, si terrà la Festa del Coordinamento Toscano dei gruppi legati alla liturgia tradizionale, in occasione del 2° anniversario della sua fondazione.

Programma:

Ore 19,00 - S. Messa cantata in rito romano antico, in onore di S. Cecilia Vergine e Martire.

Ore 20,30 - Cena a buffet, aperta a tutti, nei locali della parrocchia (si prega di comunicare in anticipo la propria presenza scrivendo a: coordinamentotoscano@hotmail.it). Seguirà un breve intrattenimento musicale a cura del gruppo Aptatur Musicha

domenica 14 novembre 2010

Quel rito antico da celebrare a porte chiuse…


Pubblichiamo un articolo di Andrea Tornielli - del 13/11/10 tratto da blog.ilgiornale.it

Cari amici su queste pagine, negli anni scorsi, avevo scritto della curiosa reazione “ambrosiana” al motu proprio di Benedetto XVI che nel 2007, come sapete, ha liberalizzato la messa antica.

Motu proprio che, ha dichiarato il vicecapo del rito ambrosiano, mons. Luigi Manganini, non si applica alla diocesi di Milano.

Quanto è accaduto nei giorni scorsi e poi ancora stamattina, la dice però molto lunga, a mio avviso, sul “rito” ambrosiano e su come un alto esponente dello stesso, arciprete del Duomo di Milano nonché vicario episcopale, guardi (?) al Papa, alla sua parola, al suo insegnamento, al suo esempio. Questi i fatti.
Ieri sera a Seregno si è svolto un convegno sulla figura del neo-beato John Henry Newman, elevato all’onore degli altari da Benedetto XVI durante il recente viaggio in Gran Bretagna. Tra i partecipanti c’era anche il sacerdote belga Jean-Pierre Herman, teologo, cappellano di Notre Dame de Beauraing nonché segretario aggiunto del nuovo arcivescovo di Malines-Bruxelles, André Joseph Leonard. Il sacerdote celebra la messa quotidiana con il messale antico, quello liberalizzato da Benedetto XVI. Don Jean-Pierre ha chiesto di poter celebrare la mattina dopo il convegno quella messa nella chiesa parrocchiale: trattandosi di una messa il sabato mattina alle 11, si trattava ovviamente di una celebrazione al di fuori del normale calendario della parrocchia e vi avrebbero assistito i promotori e qualche partecipante al convegno su Newman della sera precedente.

Il parroco era favorevole, ma ha consultato il responsabile del rito ambrosiano, vale a dire Manganini, che magnanimamente, seguendo la lettera e soprattutto la “mens” del Pontefice, ha pensato bene di rispondere inizialmente di no. Messa vietata.

Il presidente del Centro culturale Newman di Seregno, Andrea Sandri, gli ha fatto presente che in base al Codice di diritto canonico, non si poteva vietare. Allora Manganini, telefonicamente, ha detto sì, ma a patto che la celebrazione sia fatta a porte rigorosamente chiuse, “sine populo”, senza fedeli.
Sandri ha inviato un fax urgente alla Pontificia commissione Ecclesia Dei, che come sapete da oltre un anno è stata inglobata nella Congregazione per la dottrina della fede. Dal Vaticano hanno risposto nel giro di 48 ore, con una lettera (pubblicata in originale sul blog di Messainlatino).

Questo il testo:
Il motu proprio ‘Summorum Pontificum’ di S.S. Benedetto XVI dà facoltà a tutti i sacerdoti cattolici di rito latino, siano essi secolari o religiosi di celebrare nella “forma extraordinaria” del rito romano in tutto l’Orbe cattolico, usando il Messale di Giovanni XXIII ed. 1962, senza aver bisogno di alcun permesso né della Sede Apostolica né dell’Ordinario (cf. S.P. art. 2).

Dare la licenza di celebrare in una parrocchia o in una rettoria spetta rispettivamente al Parroco o al Rettore (cf. S.P. art. 5 §3 e §5). Se la chiesa non avesse un Rettore designato, spetta al parroco del territorio, dove è ubicata la chiesa, dare la suddetta licenza.

Il Motu Proprio all’art. 5 §3 stabilisce altresì che ai fedeli e ai sacerdoti che chiedono la celebrazione secondo il Messale del b. Giovanni XXIII, il parroco permetta le celebrazioni in questa “forma extraordinaria” anche in circostanze particolari.

Trattandosi di una Santa Messa a conclusione di un convegno, si può legittimamente considerare una “circostanza particolare”, a condizione però che il sacerdote celebrante sia idoneo alla celebrazione e non giuridicamente impedito (cf. S.P. art. 5 §4).
In sostanza la commissione della Santa Sede deputata a questo, ricorda che non si può impedire ciò che il Papa ha concesso e che la celebrazione poteva tenersi. Mons. Manganini è rimasto sulla sua posizione, e ha messo nero su bianco le sue ragioni in una lettera inviata ad Andrea Sandri.

Perché la messa doveva avvenire a porte chiuse? Perché quello della sera precedente non era un convegno ma una semplice conferenza e dunque non c’erano le condizioni per la “circostanza particolare”. Ma soprattutto per non suscitare meraviglia nel popolo, abituato al rito ambrosiano, che si sarebbe trovato improvvisamente spaesato di fronte al rito romano (e per di più antico)…
Già, è facile da immaginare, questa mattina, quale sarebbe stato lo scompiglio provocato in quel di Seregno: centinaia di persone in strada con i manifesti di protesta contro la Curia di Milano che ha concesso a questo prete per di più belga di celebrare non in italiano o in antico lumbard, ma addirittura in latino e secondo il rito romano, in terra ambrosiana, quasi un sacrilegio.

Manganini deve aver giustamente temuto il ripertersi di storici moti popolari, dopo le Cinque giornate di Milano, le Cinque giornate di Seregno, combattute dai cattolicissimi genitori e figli, studenti e operai, giovani e teenager, che – è noto – a quell’ora del dì prefestivo – invece di fare jogging, andare a scuola, andare a far la spesa, andare a spasso, preparare il pranzo, andare a lavare la macchina, portare fuori il cane, sistemare il giardino – riempiono fino all’inverosimile tutte le chiese dell’hinterland spinti dallo spirito del Concilio.

Occupano ogni sedia, ogni banco. Riempiono ogni spazio libero. E chi il sabato mattina non riesce a trovare posto in chiesa, segue le liturgie, le catechesi, la lectio o la cattedra dei non credenti dal sagrato, dalla piazza, dalle strade circostanti, dai bar, tutti collegati in videoconferenza.
Si poteva impressionare tutto questo benemerito popolo di cattolici di Seregno? Si poteva far loro violenza per quaranta minuti con un rito che avrebbe provocato confusione e meraviglia?
No, assolutamente no. Manganini deve aver giustamente pensato a quante richieste di ”sbattezzo” sarebbero piovute da lunedì negli uffici della Curia ambrosiana, già peraltro oberata di lavoro. Il decano della zona avrebbe protestato formalmente, ci sarebbe stato il rischio di uno scisma: la Chiesa che è in Seregno, attonita dalla “meraviglia” provocata nel popolo dall’inusitata concessione, avrebbe potuto chiedere di essere aggregata alla confederazione delle Chiese luterane. Non si poteva rischiare.

Meglio vietare al popolo di entrare in chiesa. Un atteggiamento autenticamente sacerdotale, attento al bene delle anime, preoccupato che intendano bene il rito e che non vadano dietro a certe anticaglie ancien regime liberalizzate dal Papa.

Sapete che cosa è poi veramente accaduto stamattina? Un fatto gravissimo, una disobbedienza abnorme (si teme scomunica). Le porte della chiesa, alle 11 erano chiuse, ma una trentina di persone, complice il parroco accondiscendente, sono state fatte entrare alla chetichella, dalla porta di servizio. Non so se fuori all’edificio sacro sia stato appeso il cartello “Chiuso per restauri” o “conclave in corso”.

Mi ero trattenuto un mese e mezzo fa, dal raccontarvi dell’omelia che mons. Manganini aveva tenuto nella mia parrocchia, in occasione dell’insediamento del nuovo parroco, quando aveva invitato i fedeli a non “idolatrare” l’eucaristia.
Non è la prima volta che mi capita: le tre volte che l’ho sentito predicare, mi è sempre sembrato di vedere – e lo dico con rispetto e con affetto – un sacerdote zelante che crede di rivolgersi non a della gente semplice, in una parrocchia di periferia con liturgie minimaliste e rigorosamente novus ordo, ma che pensa invece di essere a una celebrazione lefebvriana, piena di beghine con il velo in testa e uomini in feluca, in una chiesa barocca addobbata con le bandiere della nobiltà papalina, negli anni Cinquanta.

Oggi, caro don Manganini, a me – modesto osservatore di cose cattoliche – sembrava che il rischio fosse l’opposto: non quello di idolatrare l’eucaristia, ma quello di non adorarla a sufficienza, o meglio di non adorarla proprio.

Il Papa anche su questo insegna, con la parola e con l’esempio, ma evidentementre sbaglia lui e sbaglio io a far notare che sotto la Madonnina un vicario episcopale, arciprete del Duomo nonché responsabile del rito ambrosiano ha così a cuore il bene delle anime e teme così tanto la confusione e la meraviglia, da vietare a un prete, segretario del primate cattolico del Belgio, di celebrare una messa in rito romano antico a chiesa aperta.

E per fortuna che con il Concilio la Chiesa doveva aprirsi…


(Nella foto: 21 giugno 1958, il Servo di Dio Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, ordina prete don Luigi Manganini. Il rito era antico, la chiesa era aperta, la fede era la stessa di oggi)




sabato 13 novembre 2010

Il Papa scuote i Vescovi: "Imparate da san Francesco"

Pubblichiamo un articolo di Sandro Magister del 12/11/2010, in chiesa.espresso

Lui sì capiva che cos'è una vera riforma della liturgia, scrive Benedetto XVI in un messaggio che è un severo rimprovero alla gerarchia cattolica italiana. Dove continuano a prevalere, in campo liturgico, gli oppositori di Ratzinger

di Sandro Magister

ROMA, 12 novembre 2010 –

Gli ultimi due papi, in ripetute occasioni, hanno indicato nella Chiesa italiana e nel suo episcopato un "modello" per altre nazioni.C'è un campo, però, nel quale la Chiesa italiana non brilla. È quello della liturgia. Lo si è capito dalla severa lezione che Benedetto XVI ha impartito ai vescovi italiani riuniti ad Assisi in assemblea generale dall'8 all'11 novembre, un'assemblea con al centro l’esame della nuova traduzione del messale romano.

Nel messaggio che ha rivolto ai vescovi alla vigilia dell'assemblea, papa Joseph Ratzinger non si è limitato ai saluti e agli auguri. È entrato direttamente nel tema.
Ha dettato lui i criteri di una "vera" riforma della liturgia.

"Ogni vero riformatore – ha scritto – è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del tesoro istituito dal Signore e a noi affidato. La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra".

Il papa ha portato ad esempio di genuina riforma liturgica il Concilio Lateranense IV del 1215, che mise in mano ai sacerdoti il "Breviario" con la liturgia delle ore e rafforzò la fede della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino eucaristici.

Erano quelli i tempi di san Francesco d'Assisi. E Benedetto XVI ha dedicato buona parte del suo messaggio a illustrare ai vescovi italiani lo spirito con cui quel grande santo obbedì a quella riforma liturgica, e fece obbedire i suoi frati.

San Francesco, si sa, è uno dei santi più popolari e universalmente ammirati. È un modello anche per quei cattolici che vogliono una Chiesa più spirituale e "profetica", invece che istituzionale e rituale. In campo liturgico, questi propugnano una maggiore creatività e libertà.

Ma Benedetto XVI ha mostrato, nel messaggio, che il vero san Francesco era di tutt'altro orientamento. Era profondamente convinto che il culto cristiano debba corrispondere alla "regola della fede" ricevuta, e in questo modo dar forma alla Chiesa. I sacerdoti, per primi, devono fondare sulle "cose sante" della liturgia la loro santità di vita.

*Curiosamente, i vescovi italiani ai quali il papa ha rivolto questa lezione si erano riuniti questa volta proprio ad Assisi, la città di Francesco.

E vescovo di Assisi è Domenico Sorrentino, un esperto di liturgia, non però della linea di Ratzinger.Nel 2003 monsignor Sorrentino fu nominato segretario della congregazione vaticana per il culto divino. Ma durò solo due anni. Ratzinger, da poco divenuto papa, lo trasferì ad Assisi e al suo posto chiamò un proprio fedelissimo in materia liturgica, Malcolm Ranjith, dello Sri Lanka, oggi arcivescovo di Colombo e cardinale di imminente nomina.Prima del 2003, per cinque anni, era stato segretario della congregazione per il culto divino un altro esperto di liturgia italiano, Francesco Pio Tamburrino, monaco benedettino. Anche lui però era di linea contraria a quella dell'allora cardinale prefetto della congregazione, il "ratzingeriano" Jorge Arturo Medina Estévez. E infatti anche lui fu rimosso e trasferito a una diocesi, quella di Foggia.

Sorrentino e Tamburrino sono due figure di spicco della commissione per la liturgia della conferenza episcopale italiana. Ma in questa commissione, fino a poco tempo fa, c'era anche monsignor Luca Brandolini, vescovo di Sora oggi emerito, distintosi per aver proclamato una sorta di "lutto" di protesta quando nel 2007 Benedetto XVI emanò il motu proprio "Summorum pontificum" che liberalizzava l'uso del rito antico della messa.

Nell'eleggere i membri della commissione per la liturgia, i vescovi italiani hanno sempre dato la preferenza a loro colleghi di questa tendenza, i cui ispiratori sono stati gli artefici della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II, in particolare il cardinale Giacomo Lercaro e il principale ideatore ed esecutore di quella riforma, monsignor Annibale Bugnini.

Gli esiti negativi di quella riforma sono quelli contro cui interviene Benedetto XVI. Ma già Paolo VI ne vide gli abusi, e ne fu talmente addolorato che nel 1975 rimosse Bugnini e lo mandò in esilio in Iran come nunzio apostolico.Ma il sentimento della maggioranza dei vescovi e del clero italiani continua a essere influenzato tuttora dalla "linea Bugnini".

In Italia sono rari gli eccessi che si registrano in altre Chiese d'Europa, ma lo stile prevalente delle celebrazioni è più "assembleare" che "rivolto al Signore", come papa Ratzinger vuole che sia. E questa distorsione si riflette anche nell'architettura delle chiese di recente costruzione.

La conferenza episcopale italiana è un caso speciale, rispetto a tutte le altre. Ha un legame diretto col vescovo di Roma. E infatti il suo presidente non è eletto ma nominato dal papa.

Introducendo l'8 novembre i lavori della conferenza episcopale ad Assisi, l'attuale presidente, il cardinale Angelo Bagnasco, ha citato un commento di Ratzinger al fatto che il Concilio Vaticano II dedicò la sua prima sessione proprio alla liturgia:"Cominciando con l’argomento della liturgia, si poneva inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema ‘Dio’. Prima di tutto Dio: questo dice l’iniziare con la liturgia. Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento".

Ma per capire più a fondo qual è il senso della "riforma della riforma" voluta da papa Ratzinger, ecco qui di seguito che cosa ha scritto ai vescovi italiani, sulla liturgia.

"OGNI VERO RIFORMATORE È UN OBBEDIENTE DELLA FEDE"

Dal messaggio di Benedetto XVI ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale[...]

1. In questi giorni siete riuniti ad Assisi, la città nella quale “nacque al mondo un sole” (Dante, Paradiso, Canto XI), proclamato dal venerabile Pio XII patrono d’Italia: san Francesco, che conserva intatte la sua freschezza e la sua attualità – i santi non tramontano mai! – dovute al suo essersi conformato totalmente a Cristo, di cui fu icona viva. Come il nostro, anche il tempo in cui visse san Francesco era segnato da profonde trasformazioni culturali, favorite dalla nascita delle università, dallo sviluppo dei comuni e dal diffondersi di nuove esperienze religiose.

Proprio in quella stagione, grazie all’opera di papa Innocenzo III – lo stesso dal quale il Poverello di Assisi ottenne il primo riconoscimento canonico – la Chiesa avviò una profonda riforma liturgica.Ne è espressione eminente il Concilio Lateranense IV (1215), che annovera tra i suoi frutti il “Breviario”.

Questo libro di preghiera accoglieva in se la ricchezza della riflessione teologica e del vissuto orante del millennio precedente. Adottandolo, san Francesco e i suoi frati fecero propria la preghiera liturgica del sommo pontefice: in questo modo il santo ascoltava e meditava assiduamente la Parola di Dio, fino a farla sua e a trasporla poi nelle preghiere di cui è autore, come in generale in tutti i suoi scritti.

Lo stesso Concilio Lateranense IV, considerando con particolare attenzione il sacramento dell’altare, inserì nella professione di fede il termine “transustanziazione”, per affermare la presenza reale di Cristo nel sacrificio eucaristico: “Il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo e il vino nel sangue per divino potere” (DS, 802).

Dall’assistere alla santa messa e dal ricevere con devozione la santa comunione sgorga la vita evangelica di san Francesco e la sua vocazione a ripercorrere il cammino di Cristo Crocifisso: “Il Signore – leggiamo nel Testamento del 1226 – mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo” (Fonti Francescane, n. 111).

In questa esperienza trova origine anche la grande deferenza che portava ai sacerdoti e la consegna ai frati di rispettarli sempre e comunque, “perché dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri” (Fonti Francescane, n. 113).
Davanti a tale dono, cari fratelli, quale responsabilità di vita ne consegue per ognuno di noi! “Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti – raccomandava ancora Francesco – e siate santi perché egli è santo” (Lettera al Capitolo Generale e a tutti i frati, in Fonti Francescane, n. 220)!

Sì, la santità dell’eucaristia esige che si celebri e si adori questo mistero consapevoli della sua grandezza, importanza ed efficacia per la vita cristiana, ma esige anche purezza, coerenza e santità di vita da ciascuno di noi, per essere testimoni viventi dell’unico sacrificio di amore di Cristo.

Il santo di Assisi non smetteva di contemplare come “il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umìli da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane” (ibid., n. 221), e con veemenza chiedeva ai suoi frati: “Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, che quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umilmente i sacerdoti perchè venerino sopra ogni cosa il Santissimo Corpo e il Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo” (Lettera a tutti i custodi, in Fonti Francescane, n. 241).

2. L’autentico credente, in ogni tempo, sperimenta nella liturgia la presenza, il primato e l’opera di Dio. Essa è “veritatis splendor” (Sacramentum caritatis, 35), avvenimento nuziale, pregustazione della città nuova e definitiva e partecipazione ad essa; è legame di creazione e di redenzione, cielo aperto sulla terra degli uomini, passaggio dal mondo a Dio; è Pasqua, nella croce e nella risurrezione di Gesù Cristo; è l’anima della vita cristiana, chiamata alla sequela, riconciliazione che muove a carità fraterna.

Cari fratelli nell’episcopato, il vostro convenire pone al centro dei lavori assembleari l’esame della traduzione italiana della terza edizione tipica del Messale Romano. La corrispondenza della preghiera della Chiesa (lex orandi) con la regola della fede (lex credendi) plasma il pensiero e i sentimenti della comunità cristiana, dando forma alla Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Ogni parola umana non può prescindere dal tempo, anche quando, come nel caso della liturgia, costituisce una finestra che si apre oltre il tempo. Dare voce a una realtà perennemente valida esige pertanto il sapiente equilibrio di continuità e novità, di tradizione e attualizzazione.
Il Messale stesso si pone all’interno di questo processo.

Ogni vero riformatore, infatti, è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del tesoro istituito dal Signore e a noi affidato. La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra. [...]

Dal Vaticano, 4 novembre 2010
Benedetto XVI