mercoledì 8 gennaio 2025

Quando i vescovi francesi condannarono la laicità


Di Van Dyck, S. Ambrogio blocca Teodosio fuori dalla cattedrale di Milano.


Nove mesi prima dell’enciclica di Pio XI, Quas Primas dell’11 dicembre 1925 sulla regalità di Cristo e sul rifiuto dell’ateismo di Stato, l’ACA (Assemblea dei Cardinali e degli Arcivescovi di Francia) l’aveva anticipata condannando la laicità in quanto contraria ai diritti di Dio sulla società. Questo accadde cent’anni fa.
Rilanciamo questo articolo pubblicato su Res novae e già ripreso da Chiesa e postconcilio. Ricordiamo ai lettori che il nostro Osservatorio ha di recente pubblicato altri scritti di don Claude Barthe che si possono leggere QUI e QUI.




Di Don Claude Barthe, 2 Gen 2025


Un episcopato francese in prevalenza intransigente

La Separazione della Chiesa e dello Stato nel 1905 aveva provocato un profondo trauma nell’episcopato francese, che si sentiva privato allo stesso tempo, oltre che dei propri palazzi, anche di gran parte della sua influenza sociale. Tuttavia, mentre sotto il regime concordatario qualsiasi riunione nazionale era vietata, dopo la Grande Guerra poté organizzarsi liberamente un’Assemblea di Cardinali e Arcivescovi, l’ACA[1], con la benedizione di Benedetto XV e poi di Pio XI.

Dal 1919 al 1930, nel periodo che ci interessa, l’episcopato francese era rimasto delineato dalle nomine che san Pio X aveva fatto dopo la Separazione e dalla linea da lui stesso impressa con questi intransigenti in diverso grado, che erano in particolare NNSS Humbrecht (Besançon), du Bois de La Villerabel (Rouen), Ricard (Auch), Dubillard (Chambéry), Castellan (Digne), Monestès (Dijon), Maurin (Grenoble), Durfort (Poitiers), Charost (Rennes), Marty (Montauban), de Cabrières (Montpellier), Penon (Moulins), Bougouin (Périgueux), Nègre (Tours), Métreau (Tulle).

Alla morte di Pio X, l’orientamento dell’episcopato non si trovava più in linea con quello di Roma, rappresentato dal nunzio Cerretti. Il Segretario di Stato Gasparri, facendo leva sulla sacra unione suggellata durante la guerra tra cattolici e repubblicani, volle fare in modo che venissero integrate le direttive del Ralliement di Leone XIII. In concreto, si trattava di assicurare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica francese e la Santa Sede e di concludere con quest’ultima un compromesso accettando le associazioni diocesane, che fornissero una base giuridica alle diocesi francesi, contrariamente a san Pio X, che aveva viceversa esortato l’episcopato a rifiutare le associazioni cultuali (enciclica Maximam gravissimamque del 1924).

La commissione permanente dell’ACA era presieduta da Louis Luçon, arcivescovo di Reims, creato cardinale da Pio X, segretario ne era mons. Chollet, arcivescovo di Cambrai dal 1913, entrambi di tendenza intransigente; mons. Chollet era assistito da Padre Marie-Albert Janvier, domenicano, rappresentante dei cattolici non aderenti alla Terza Repubblica (aveva sbattuto la porta dell’Azione liberale popolare di Jacques Piou).

Ma se ci furono tensioni tra l’ACA – l’accettazione della Repubblica era ben lontana dall’esser fatta propria da molti prelati francesi – e l’accomodamento di Roma, esse non ebbero nulla a che vedere con la condanna della Separazione e della laicità, ritenute entrambe inaccettabili da Pio XI («Noi confermiamo la disapprovazione dell’iniqua legge della Separazione», disse Pio XI nella Maximam gravissimamque).

Nel 1924 la Camera dei Deputati dominata dal Cartello delle Sinistre succedette a quella del 1919, in cui il Blocco nazionale era largamente maggioritario (detto Camera Blu aviazione, alludendo al colore dell’uniforme di numerosi veterani che vi sedevano). Édouard Herriot del Partito radicale, politico tanto colto quanto accorto, nuovo presidente del consiglio dei ministri (14 aprile 1924-10 aprile 1925), predisponendosi a «rispettare scrupolosamente le leggi laiche», volle rompere di nuovo le relazioni diplomatiche, ricominciare ad espellere le congregazioni, abrogare lo statuto concordatario nell’Alsazia-Lorena sottratta alla Germania e ripristinare le leggi sulla laicità nell’insegnamento.
Senza tener conto della linea scelta da Roma, l’ACA scelse quella dello scontro.

«Le leggi sulla laicità non sono leggi»

La dichiarazione «sulle cosiddette leggi di laicità e sulle misure da assumere per contrastarle» del 10 marzo 1925[2], preparata da Padre Janvier, teneva certamente conto dell’enciclica di Leone XIII Au milieu des sollicitudes [In mezzo alle sollecitudini] e se la prendeva con le cattive leggi della Repubblica, non con le istituzioni repubblicane. Ma, sul punto relativo alla laicità, essa attaccava di fatto la matrice della Rivoluzione: «Le leggi sulla laicità sono ingiuste prima di tutto perché contrarie ai diritti formali di Dio. Derivano dall’ateismo e ad esso conducono nella sfera individuale, familiare, sociale, politica, nazionale, internazionale. Implicano una totale ignoranza di Nostro Signore Gesù Cristo e del suo Vangelo. Tendono a sostituire al vero Dio degli idoli (la libertà, la solidarietà, l’umanità, la scienza, ecc.); a scristianizzare tutte le vite e tutte le istituzioni. Coloro che ne hanno inaugurato il regno, coloro che l’hanno consolidato, esteso, imposto, non avevano altro scopo. Di conseguenza, esse sono opera dell’empietà, che è l’espressione della più colpevole delle ingiustizie, così come la religione cattolica è l’espressione della più alta giustizia». Ed enumera quattro complessi legislativi della laicizzazione: la legge sulla scuola, che «toglie ai genitori la libertà loro propria» nello stesso momento in cui inganna l’intelligenza dei bambini, perverte la loro volontà, altera la loro coscienza; la legge di Separazione, che priva la Chiesa dei beni, che erano necessari al suo ministero, «senza contare ch’essa comporta la frattura ufficiale, pubblica, scandalosa della società con la Chiesa, la religione e Dio»; la legge sul divorzio, che «autorizza legalmente l’adulterio»; e l’insieme delle disposizioni, che laicizzino gli ospedali e privano i malati del conforto spirituale, esponendoli ad una morte senza sacramenti.

Giunge poi al cuore della questione: disobbedire ad esse non è soltanto un diritto, bensì un dovere. «Le leggi sulla laicità non sono delle leggi. Sono leggi solo di nome, un nome usurpato; non sono altro che corruzioni della legge, violenze piuttosto che norme, dice San Tommaso[3] […]. Dopo aver rovinato i principi essenziali su cui poggia la società, esse sono nemiche della vera religione, che ci ordina di riconoscere e di adorare, in ogni ambito, Dio ed il suo Cristo, di aderire al loro insegnamento, di sottometterci ai loro comandamenti, di salvare le nostre anime a qualsiasi costo; non ci è permesso di obbedir loro, noi abbiamo il diritto e il dovere di combatterle e di esigerne, in tutti i modi leciti, l’abrogazione».

I prelati francesi, liberati dai vincoli concordatari, rafforzati dal sacrificio di sacerdoti, religiosi e seminaristi durante la guerra, e non ancora imbrigliati dalla condanna dell’Action française, erano chiaramente combattivi, quasi sovversivi.

Le tattiche possibili sono due, spiegavano. «La prima consisterebbe nell’evitare lo scontro frontale con i legislatori laici; nel cercare di tranquillizzarli e di ottenere che, dopo aver applicato le loro norme in uno spirito di moderazione, finiscano per lasciarle cadere in dimenticanza». Ma ciò presenta – proseguivano – delle conseguenze gravi:

«Lascia le leggi in piedi. Supponendo anche che uno o più ministeri ne usino con benevolenza oppure cessino di usarle contro i cattolici, è facoltà di un nuovo governo farle uscire dall’oblio». Gli effetti del laicismo sono provvisoriamente attenuati, ma il principio resta. «Si dirà che un atteggiamento conciliante ci è valso qualche favore speciale. Piccoli vantaggi, se si pensa all’immensa corrente di errore che invade le anime e le trascina verso l’apostasia!». «Le più dannose di queste leggi sono ancora in vigore, indipendentemente dalle intenzioni dei ministeri succedutisi».

«Questa politica incoraggia i nostri avversari, che, contando sulla nostra rassegnazione e sulla nostra passività, si abbandonano ogni giorno a nuovi attentati contro la Chiesa».

Era dunque un’altra tattica ad essere promossa, «più militante e più energica». Essa richiedeva che «su qualsiasi terreno, in qualsiasi regione del Paese, si dichiari apertamente ed unanimemente guerra al laicismo ed ai suoi principi fino all’abolizione delle leggi inique che ne derivano», con «tutte le armi legittime», elencate ancora qui in tre punti, come in una buona predica:

Agire sull’opinione pubblica attraverso una propaganda insistente, in particolare attraverso giornali e conferenze ed anche attraverso «manifestazioni all’esterno». Agire sui legislatori, essenzialmente votando solo per politici contrari alla laicità. La dichiarazione, riferendosi al parere di «uomini seri», rifiutava la tattica di voto del «male minore», che consisteva, in assenza di un buon candidato, nel votare il candidato ritenuto meno peggio.

Agire sul governo, imitare i manifestanti, che «si recano in massa alle porte dei municipi, delle prefetture, dei ministeri», nel rivolgere a coloro che governano proteste, delegazioni, ultimatum e nello scatenare scioperi.

Una preparazione dei percorsi dell’enciclica Quas primas

La dichiarazione dell’ACA suscitò tempeste alla Camera dei deputati. Herriot, interpellato da un deputato del Cartello delle Sinistre circa l’atteggiamento che il governo intendesse assumere, rispose in modo alquanto misurato, ma denunciò in particolare, come fonte ideologica del testo episcopale, la dottrina del Seminario francese di Roma, dove si reclutavano in abbondanza i vescovi di Francia (Herriot si riferiva al suo superiore Padre Henri Le Floch, spiritano, una delle figure di spicco del cattolicesimo integrale). E soprattutto denunciò l’aspetto più sovversivo del testo dei vescovi: «La dichiarazione degli arcivescovi e dei cardinali non dice affatto che si debba riformare la legge, bensì che si debba violarla».

A Roma, il cardinale Gasparri scoprì la dichiarazione dei cardinali e degli arcivescovi leggendola su La Croix. Si può immaginare il suo disappunto. Disse al cardinale Luçon che si rammaricava di non esserne stato informato, deplorando soprattutto il tono “aggressivo” del documento. Tanto il cardinale Luçon quanto mons. Chollet si difesero invocando l’urgenza…

Ma, se la diffidenza di Pio XI nei confronti dei prelati francesi, troppo segnati a suo avviso dallo stile di Pio X, era evidente, il papa, che aveva scelto come motto Pax Christi in regno Christi, condivideva pienamente, sul fondo delle cose, la loro condanna della laicità. Nella sua enciclica Ubi arcano del 1922, affermò che «Gesù Cristo regna nella società quando, rendendo sovrano omaggio a Dio, essa riconosce che da Lui derivano l’autorità ed i suoi diritti» e che non c’era «la pace di Cristo, se non attraverso il regno di Cristo». Il papa riteneva che fosse l’apostasia delle nazioni ad averle condotte al suicidio collettivo della Grande Guerra. La dichiarazione dell’ACA anticipava così i temi dell’enciclica Quas primas, pubblicata nove mesi più tardi, il cui scopo, istituendo una festa annuale di Cristo Re l’ultima domenica d’ottobre, mirava anche alla «peste del nostro tempo, […] il laicismo, come viene chiamato, con i suoi errori e le sue imprese criminali».

Qualunque sia la forma di governo, aveva detto Leone XIII nell’Immortale Dei e diceva ancora Pio XI, «tutti i capi di Stato devono assolutamente avere lo sguardo fisso su Dio, sovrano Moderatore del mondo, e, nell’adempimento del loro mandato, prenderLo come modello e regola. […] I capi di Stato devono quindi tener per sacro il nome di Dio e porre tra i loro principali doveri quello di favorire la religione, di proteggerla con la loro benevolenza, di coprirla con l’autorità tutelare delle leggi e di nulla decretare e decidere che sia contrario alla sua integrità». Pio XI precisava: «I governanti ed i magistrati hanno l’obbligo, come anche i privati, di rendere a Cristo un culto pubblico e di obbedire alle sue leggi».

Bei tempi, quando il magistero del papa e dei vescovi ricordava che l’obbligo per la società politica di rendere un culto pubblico a Dio apparteneva al diritto naturale.

Il «braccio armato» dei vescovi di Francia?

La dichiarazione dell’ACA del 10 marzo 1925 era stata preceduta dalla fondazione, nel febbraio 1924, della Federazione nazionale cattolica (FNC) ad opera del generale Édouard de Castelnau, il più intelligente dei generali del 14-18 secondo i suoi pari, su incoraggiamento di cardinali e arcivescovi. Costituì un potente gruppo di pressione, la cui organizzazione in unioni diocesane, unioni cantonali, unioni parrocchiali, ricalcava quella del cattolicesimo francese in diocesi, decanati, parrocchie. Il suo primo congresso nazionale, gli Stati generali della FNC, sorta di assemblea di tutto il cattolicesimo militante, ebbe luogo precisamente nel febbraio 1925, poco prima della pubblicazione della dichiarazione dell’ACA, che galvanizzò i militanti rientrati nei loro paesi natii. Tutto era ben calcolato. Bisogna dire che ci si trovava in qualche modo in un «circolo ristretto», essendo Padre Janvier anche cappellano della FNC.

Il programma militante dell’ACA venne applicato dalla FNC alla lettera. Le manifestazioni su larga scala si moltiplicarono fino al 1927, specialmente nell’ovest della Francia (50.000 manifestanti ad Angers, 60.000 a Saint-Laurent-sur-Sèvre, ecc.), ma anche nei dipartimenti dell’est, a Tolosa, dove i vescovi non avevano paura di prendere la parola.

Tuttavia, la FNC del generale de Castelnau, che riuniva molte correnti e tendenze, si collocava nel complesso un gradino sotto l’ACA dal punto di vista politico: essa non era certo sostanzialmente democratica come il Sillon di Marc Sangnier, da cui sarebbero usciti i democratico-cristiani francesi, ma non si riteneva nemmeno sovversiva come l’Action française, tanto che quest’ultima all’epoca conservava il suo progetto di «colpo di Stato».

L’AF contribuiva, del resto, alle manifestazioni oceaniche della FNC. Padre Janvier (anche dopo la sua condanna del 1926), e con lui non pochi vescovi, simpatizzavano per il movimento di Charles Maurras, come Pio XI sperimentò amaramente quando lo condannò l’anno successivo. Castelnau, invece, era chiaramente «non Action française». Infatti, aveva abbandonato qualsiasi ambizione politica dopo esser stato deputato durante la legislatura della Camera Bleue horizon, all’interno di quel grande partito liberale e conservatore, che era la Federazione repubblicana.

I vantaggi del processo di rivendicazione avviato dalla dichiarazione degli alti prelati francesi non furono trascurabili, poiché nel 1925 Édouard Herriot fece marcia indietro di fronte a questa pressione proveniente da tutte le Destre: il concordato del 1801 fu mantenuto in Alsazia-Lorena, le relazioni diplomatiche con la Santa Sede proseguirono e le congregazioni religiose, tanto quelle rientrate in Francia dopo la Grande Guerra quanto quelle che non l’avevano lasciata, rimasero.

Ma la Repubblica laica rimase laica. Fino a che punto i vescovi di Francia erano pronti a spingersi con le loro direttive? La dichiarazione dell’ACA del 10 marzo 1925 conteneva un passaggio-chiave, un po’ oscuro, che era curiosamente messo tra parentesi: «(La religione lascia a ciascuno la libertà d’esser repubblicano, realista, imperialista, poiché queste diverse forme di governo sono conciliabili con essa; non gli lascia la libertà di esser socialista, comunista o anarchico, poiché queste tre sette sono condannate dalla ragione e dalla Chiesa. Salvo circostanze particolari, i cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi di fatto per tutto il tempo in cui questi operino per il bene temporale e spirituale dei loro amministrati [il corsivo è nostro]; non è loro permesso dare il proprio appoggio a misure ingiuste o empie assunte dai governi; sono tenuti a ricordarsi che la politica, essendo parte della morale, è soggetta, come la morale, alla ragione, alla religione, a Dio. In modo analogo conviene che si confutino gli altri pregiudizi diffusi nella popolazione)».

L’ACA si pose così nell’alveo di un’ambiguità calcolata: rispettava le direttive di Ralliement di Leone XIII verso il potere repubblicano costituito, semplicemente qualificato come «governo di fatto», ma rendeva possibile il passaggio dalla disobbedienza alle leggi ingiuste alla secessione: i cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi «finché questi lavorino al bene temporale e spirituale dei loro sudditi».

Nonostante tutto, la difesa della Città cristiana per questi vescovi si riduceva a generare un gruppo di pressione conservatore. Ed il suo capo, il generale de Castelnau, pur essendo a capo di un movimento considerevole che, in un anno soltanto, era giunto a raggruppare due milioni di cattolici, si accontentava d’esser riuscito a mantenere un nunzio del papa in viale Presidente Wilson, a Parigi. Egli non coltivava, nemmeno sotto forma di utopia, il progetto di istituire uno Stato cattolico.


(Immagine: Wikipedia, Pubblico Dominio)

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[1] L’ACA sussistette dal 1919 al 1964, data in cui lasciò il posto alla Conferenza episcopale francese, CEF.

[2] Déclaration sur les «lois dites de laïcité» [Dichiarazione sulle «leggi dette di laicità»], La Documentation catholique, no 282, 21 marzo 1925, col. 707-712, e La Porte latine, Quand les évêques de France déclaraient : « Les lois laïques ne sont pas des lois » • LPL [Quando i vescovi di Francia dichiaravano: “Le leggi laiche non sono leggi”].

[3] Somma Teologica, Ia IIæ, q. 96, art. 4.







martedì 7 gennaio 2025

L’“opzione Benedetto” è una valida strategia di riscossa cristiana?




[Sull’argomento il nostro Osservatorio gradirebbe aprire una discussione – S.F.]




Di Guido Vignelli, 7 Gen 2025

Una proposta di resistenza cristiana al laicismo

Com’è noto, nel 2017, il giornalista statunitense Rod Dreher pubblicò un libro che propose la cosiddetta Benedict option, intesa come scelta strategica tesa a preservare la residua civiltà cristiana dalla offensiva di un laicismo sempre più aggressivo e repressivo. Questo libro riscosse un successo mondiale, anche nella sua edizione italiana (L’opzione Benedetto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsano 2018). Pochi anni dopo, nel blog The American Conservative, l’autore ha rivisto e corretto la sua proposta alla luce delle obiezioni ricevute e delle novità sopraggiunte.


Tuttavia, ci pare opportuno esaminare brevemente quel suo libro perché contiene una buona analisi storica e molte valide indicazioni, raccogliendo suggerimenti provenienti da esperti appartenenti a varie confessioni cristiane. Soprattutto, ci sembra necessario valutare se l’originaria proposta “neo-benedettina” costituisca una valida strategia di resistenza culturale e politica che permetta ai cristiani di salvarsi dalle persecuzioni, nella prospettiva di preparare una riscossa capace di vincere il nemico della civiltà cristiana.

Infatti, a un’attenta analisi, i dubbi al riguardo non mancano.

L’attuale crisi di civiltà è simile a quella dell’antichità?


Il primo dubbio sulla opzione neo-benedettina sorge dal fatto ch’essa presuppone una somiglianza tra la crisi dell’antica civiltà pre-cristiana e quella della moderna civiltà post-cristiana. Pertanto, secondo Dreher, quei fattori che, attorno al V secolo, avviarono la costruzione della civiltà cristiana oggi potrebbero essere ripresi per salvarla dalla estinzione, ovviamente adattandoli alle nostre esigenze.

Tuttavia, questo paragone tra l’epoca alto-medioevale e quella contemporanea non regge all’analisi storica e quindi mette in discussione la premessa che fonda la opzione neo-benedettina.

Ad esempio, la crisi di civiltà vissuta all’epoca del grande santo italiano fu molto meno grave di quella contemporanea. Infatti, la crisi del VI secolo non fu unitaria, perché ebbe aspetti di luogo e di settore tra loro molto diversi; non fu dominante, perché venne contrastata da fattori spirituali ereditati dalla tradizione greco-romana e soprattutto dalla rapida diffusione del Cristianesimo; non fu globale, perché abbatté l’Impero Romano occidentale ma risparmiò quello orientale. Basti ricordare che, mentre san Benedetto fondava il monastero di Montecassino, l’imperatore Giustiniano sopprimeva la pagana Accademia di Atene e varava il Codice giuridico della Cristianità.

Invece, la crisi che oggi noi stiamo subendo ha le gravi caratteristiche di essere unitaria, dominante e globale; pertanto, essa necessita di una soluzione che sia altrettanto unitaria, dominante e globale, ossia una soluzione radicale.

Inoltre, la crisi di civiltà vissuta all’epoca di san Benedetto fu molto diversa da quella contemporanea. Infatti, la neonata Cristianità era fiorente nell’Europa orientale e sopravviveva debolmente nell’Europa occidentale nonostante il crollo di Roma e le invasioni barbariche; la Chiesa era in crescita e stava avviando la conversione dei popoli nordici. Per restaurare la civiltà, ai monaci benedettini bastò restaurare le basi culturali e le strutture politico-giuridiche della società, trasformando i popoli barbari da fattori distruttivi in costruttivi. Infatti, dalla riforma benedettina e da quella carolingia nacquero in Occidente l’Impero franco-germanico e in Oriente i Regni slavi, destinati a durare oltre un millennio.

Invece, l’attuale crisi di civiltà è causata da fattori non tanto esterni quanto interni, perché i nuovi barbari distruttori sono sorti dal declino spirituale e culturale della Cristianità. Inoltre, ormai la dirigenza della Chiesa Cattolica è in piena crisi d’identità e mette in discussione la propria credibilità, ad esempio pretendendo non di convertire i nuovi barbari ma di convertirsi a loro. Pertanto, oggi bisogna non tanto restaurare un edificio danneggiato quanto ricostruirlo dalle fondamenta sia naturali che soprannaturali, sia politiche che religiose.

È sufficiente isolarsi dal mondo per arginare la crisi?


Questo fraintendimento dell’attuale grave situazione della civiltà cristiana suscita un secondo dubbio sulla validità della opzione neo-benedettina.

Infatti, secondo Dreher, l’attuale processo di secolarizzazione è ormai inarrestabile; pertanto, i fedeli sono destinati a ridursi a una minoranza marginale e ininfluente, incapace di convertire il mondo d’oggi e di costruire una civiltà cristiana integrale come quella dei loro antenati (p. 323).

Di conseguenza, l’opzione Benedetto propone di «costruire un’arca in cui rifugiarsi» per sopravvivere al nuovo diluvio (p. 29), ossia tessere una rete di comunità che permetta ai pochi fedeli rimasti di preservare verità e virtù dalla corruzione dominante, restando immuni dalle seduzioni del secolo. Questa opzione di mera resistenza passiva costituisce una “ritirata strategica” che si limita a ridurre i danni e rallentare il declino della civiltà, salvando ciò che resta e rinunciando a riconquistare ciò ch’è stato perduto.

Tuttavia, bisogna obiettare che l’attuale sistema di potere si sta organizzando in modo capillare per impedire ogni tipo di efficace resistenza passiva. Pertanto, la strategia neo-benedettina può funzionare solo se rimane locale e momentanea, ma fallirebbe se diventasse globale e definitiva impedendo di passare dalla resistenza alla riscossa mirante a vincere il nemico.

Ormai, il finale scontro globale tra Chiesa e anti-Chiesa è inevitabile; ai cristiani rimane solo la drammatica alternativa tra una resa incondizionata che conduca alla loro scomparsa lenta e indolore e una riscossa efficace che prepari la loro vittoria sul nemico.

È sufficiente “ritirarsi nel privato” per vincere il pubblico degrado?


Questa inevitabilità dello scontro globale tra la residua Cristianità e i suoi agguerriti nemici suscita un terzo dubbio sulla validità strategica della opzione neo-benedettina.

Infatti, Dreher è convinto che ormai sia inutile impegnarsi nella vita pubblica tentando di preservare quel poco di sano che resta nelle istituzioni politiche (p. 29); pertanto, l’opzione Benedetto propone come soluzione quella di “ritirarsi nel privato”. Si tratta di costituire “isole di santità” (p. 85), un arcipelago di piccole comunità libere e autonome che raccolgano famiglie, gruppi e associazioni capaci di educare nuove generazioni di cristiani, ad esempio costituendo “scuole parentali” e imprese di sopravvivenza economica e di assistenza sociale.

Per salvarsi dalla crisi, basta che i cristiani organizzino comunità di “privato sociale” o “avamposti periferici” che, isolandosi dal mondo e rendendosi autonomi dal sistema dominante, possano preservare ristretti “spazi di libertà” che permettano di compiere una missione educativa, caritatevole e assistenziale (pp. 123-125).

Tuttavia, la storia dimostra che le comunità dissidenti non possono resistere a lungo, se vengono attaccate da poteri politici capaci di fare “terra bruciata” attorno ad esse. A maggior ragione, le comunità cristiane non possono restare a lungo fedeli al Vangelo, senza una organizzazione politica che le favorisca e le protegga; interventi soprannaturali in loro difesa sono certamente possibili ma non programmabili.

Già nel XVI secolo, un grande convertitore come san Francesco Saverio ammonì i missionari che una comunità cristiana nata in terra pagana può sopravvivere e convertire solo se si dota, oltre che di una formazione culturale, anche di una protezione politica e militare. A maggior ragione, ciò vale per una comunità cristiana che vive in un mondo dominato da potenti forze anticristiane decise a perseguitarla e a sopprimerla.

Oggi l’offensiva laicista è talmente radicale e globale da poter reprimere “isole benedettine” di resistenza passiva; oggi essa lo fa ponendo ostacoli legali, burocratici, economici e fiscali, domani lo farà suscitando persecuzioni mass-mediatiche, giudiziarie e malavitose. Quelle isole finiranno sommerse dal maremoto sollevato dalla imposizione dei “nuovi diritti civili” e dalla esecuzione di “transizioni globali” occasionate da (vere o presunte) emergenze economiche o ecologiche o sanitarie.

Per la verità, lo stesso Dreher ipotizza “un nuovo genere di politica cristiana” (cap. IV) e ammette la necessità d’instaurare un “ordine educativo” che sia sicuro, stabile e duraturo (p. 85). Ma ciò presuppone ch’esso sia favorito e protetto da legami, poteri e istituzioni politici; pertanto, eludere l’esigenza della battaglia pubblica al fine di “ritirarsi nel privato” costituisce un tentativo di suicidio non giustificabile da motivazioni soprannaturali. Sebbene oggi la battaglia sia soprattutto spirituale e culturale, non è realistico escludere quella politica e giuridica permettendo che il nemico diventi padrone assoluto della vita pubblica per mobilitarla contro la Chiesa.

Conclusione: un minimalismo volenteroso ma inadeguato


In conclusione, ci sembra che la soluzione minimalista della crisi proposta dalla opzione Benedetto sia perlomeno parziale e momentanea, quindi del tutto inadeguata alla gravità e alla vastità dell’attuale pericolo; pertanto, essa non può costituire una realistica ed efficace strategia per una riscossa cristiana capace di vincere il nemico.

I fedeli rimasti devono impegnarsi affinché l’autorità religiosa e quella politica facciano valere i diritti di Cristo Re sulla intera vita civile; essi devono unirsi e organizzarsi per agire sia alla base che al vertice della società; devono affrontare il nemico tentando di colpirlo al cuore, anche se ciò costituisca un rischio per la misera ed effimera sopravvivenza d’ipotetiche isole rimaste fedeli. Lo stesso Dreher ammette che «ci si difende attaccando, espandendo il Regno di Dio» (p. 111).

Insomma, se oggi ritornasse tra noi, san Benedetto elaborerebbe e avvierebbe una strategia che non si limiti a una resistenza capace di rallentare e ridurre l’offensiva rivoluzionaria, ma che osi organizzare un’audace riscossa capace di colpire e vincere quella offensiva, al fine di restaurare la civiltà cristiana nelle sue fondamenta non solo religiose e culturali ma anche morali e politiche.

Ovviamente, non si potrà ottenere tutto e subito; la guarigione dalla crisi sarà difficile, dolorosa e graduale, quindi forse anche lenta; in una prima fase, bisognerà accontentarsi di arginare il male frenandone l’avanzata e riducendone i danni. Ma potremo ottenere questo primo risultato solo contrastando il male alla radice e rovesciandolo dalle fondamenta, sia ideologiche che pratiche.

Questo risultato può sembrare impossibile, ma la speranza cristiana c’insegna che Dio è onnipotente e la Chiesa è invincibile; fare coscienziosamente oggi tutto ciò che è concretamente possibile è il modo per ottenere domani quello che ieri sembrava impossibile.



(Foto: Di Elekes Andor – Opera propria, CC BY-SA 4.0, wikipedia)








I trentenni «stanno smettendo di diventare adulti»




Il preoccupante allarme del “Wall Street Journal” su una generazione sempre meno propensa a uscire di casa e mettere su famiglia. E non è solo un problema economico. Anzi



Di Redazione di Tempi, 07 Gennaio 2025

Cosa succede se un’intera generazione decide di non diventare mai grande? È questa la domanda che si è fatta qualche giorno fa Rachel Wolfe sul Wall Street Journal in un approfondimento innescato da una serie di dati poco rassicuranti che apparentemente confermano una tendenza: «I trentenni americani non sono mai sembrati così poco adulti».

Di per sé non è una novità che le giovani generazioni fatichino a mettere in fila quelle che il quotidiano americano chiama «the milestones of adulthood», le tappe fondamentali dell’età adulta. I tassi di matrimonio e fertilità sono in calo da molto tempo ormai negli Stati Uniti (ma il discorso vale anche per altri paesi del “mondo ricco”), così come le chance per i millennial di diventare proprietari di casa. Adesso però, tra crescenti ostacoli economici alla piena autonomia e comportamenti sociali scelti consapevolmente, scrive Rachel Wolfe, «quello che un tempo i ricercatori consideravano un ritardo inizia a sembrare più uno stato di arresto permanente dello sviluppo».

«Un terzo degli attuali giovani adulti non si sposerà mai, secondo le proiezioni del think tank conservatore Family Studies, rispetto a meno di un quinto dei nati nei decenni precedenti. E secondo il Pew Research Center, la percentuale di adulti senza figli sotto i 50 anni che dichiarano che non avranno mai figli è aumentata di 10 punti tra il 2018 e il 2023, passando dal 37 al 47 per cento».

Dal più tardi al mai


Richard Reeves, presidente dell’American Institute for Boys and Men, dice al Wsj che quello a cui stiamo assistendo è la transizione «dal più tardi al mai», anche perché più le persone rimandano l’ingresso nell’età adulta convenzionalmente intesa, meno probabilità ci sono che questo ingresso avvenga affatto.

Accanto a una fetta sempre più importante di trentenni che rinviano o evitano le pietre miliari (milestones) della maturità per scelta, per molti altri il freno è imposto da prospettive economiche negative. Le cui cause sono note: l’aumento dell’inflazione che affligge l’America, i prezzi delle case in costante impennata, salari insufficienti a far fronte a tutto questo.

Buona parte della generazione dei trentenni, ricorda il Wsj, se la passa effettivamente peggio dei propri genitori a livello economico, e le maggiori difficoltà a raggiungere le tappe fondamentali dell’età adulta sono innegabili. Il mercato del lavoro non offre più le occasioni del passato, specialmente ai giovani uomini, mentre l’ammontare dei debiti accumulati durante gli studi universitari sono più che raddoppiati negli ultimi due decenni, e questo a fronte del fatto che una laurea ormai non è più garanzia di trovare un lavoro ben retribuito. E tra aumento dei tassi di interesse e diminuzione dell’offerta immobiliare, «quest’anno l’età mediana degli acquirenti di una prima casa ha raggiunto il livello record di 38 anni, contro i 35 del 2023 e i 29 del 1981», scrive Rachel Wolfe citando i dati della National Association of Realtors.

Questione di pessimismo

Tuttavia la spiegazione utilizzata convenzionalmente secondo cui il passaggio alla vita adulta sarebbe diventato irrealizzabile per tanti nuovi trentenni americani perché troppo costoso non è sufficiente a giustificare l’ampiezza del fenomeno. Anche perché a dirla tutta, ricorda il Wsj, i salari mediani dei lavoratori a tempo pieno di età compresa tra i 35 e i 44 anni sono aumentati del 16 per cento tra il 2000 e il 2024 (da 58.522 a 67.652 dollari, dati del dipartimento del Lavoro) e la ricchezza complessiva di questa fascia di età è aumentata del 66 per cento tra il 1989 e il 2022, da 62.000 a 103.000 dollari (stima della Federal Reserve di St. Louis).

Ma allora che cosa sta succedendo ai trentenni?

«Per molti versi, gli appartenenti a questa fascia d’età godono di una situazione finanziaria mediamente migliore rispetto a quella dei loro genitori alla stessa età. Il problema è che sembra che non lo sappiano. Secondo la Federal Reserve, l’anno scorso solo il 21 per cento dei trentenni giudicava buono o eccellente lo stato generale dell’economia, e gli economisti ritengono che i giovani adulti siano notevolmente più pessimisti delle generazioni precedenti rispetto al futuro».

Sogni infranti e pretese esagerate


Interrogata dall’autrice dell’indagine, Carol Graham, economista del Brookings Institute specializzata in “benessere”, dice che questo pessimismo deriva – come immaginabile – dal bombardamento di allarmi su cambiamento climatico, la polarizzazione politica, i pericoli derivanti dalle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale eccetera. E del resto un sondaggio commissionato nel luglio scorso dallo stesso Wall Street Journal conferma che i giovani statunitensi credono molto meno rispetto agli over 50 alla possibilità che un giorno il “sogno americano” si realizzerà davvero anche per loro.

Ma anche accontentarsi di concludere che si è infranto il sogno americano appare un po’ semplicistico, prosegue Rachel Wolfe: «Almeno in parte, a frenare la crescita di una intera generazione di giovani è piuttosto la dismisura dei sogni che coltivano riguardo alla realizzazione delle proprie vite». Conferma Melissa Kearney, ricercatrice alla University of Maryland sui temi della famiglia: «Oggi le nostre aspettative sono molto più alte. Le generazioni che ci hanno preceduto non pretendevano di avere case grandi con una camera da letto per ogni figlio e vacanze multiple».

Sempre più single e senza figli

Stando alle ricerche di Luke Pardue, analista economico dell’Aspen Economic Strategy Group, poco più della metà degli americani di età compresa fra 30 e 40 anni risultavano sposati nel 2023. Si tratta di una percentuale ben minore rispetto ai due terzi del 1990, ossia proprio quando molti dei trentenni di oggi nascevano. Non meno impressionante il dato secondo cui la percentuale di donne in questa fascia di età che hanno già messo al mondo almeno un figlio sarebbe crollata di 7 punti tra il 2012 e il 2022, precipitando da 78 a 71 per cento in soli dieci anni. Scrive Rachel Wolfe:

«“In parte si tratta di aspettative sociali, in parte di un cambiamento delle priorità e in parte di oggettive questioni economiche”, spiega Kearney della University of Maryland, che ha rilevato come la medesima dinamica sia in atto nei paesi ad alto reddito di tutto il mondo. “Ma tutti insieme questi fattori sembrano spingere nella stessa direzione, e cioè verso un aumento dei tassi di quanti restano single e senza figli”».

Spettatori della propria vita

Secondo la già citata analisi di Pardue, basata sulle rilevazioni dei censimenti ufficiali, quasi il 9 per cento delle persone della fascia di età fra 30 e 40 anni negli Stati Uniti vive ancora con i propri genitori, contro il 6 per cento del 1990. Insomma anche il solo “lasciare il nido domestico”, da sempre ritenuta irrinunciabile pietra miliare del percorso verso la maturità, tende sempre più a diventare una tappa irraggiungibile.

A dimostrazione di questo il Wall Street Journal porta una serie di storie esemplari. Come quella di Renata Leo, che a 31 anni vive ancora nella sua cameretta da adolescente, in casa con mamma e papà. Una scelta dettata da precarietà e difficoltà economiche di vario tipo, ma pur sempre una scelta. Lei stessa stessa, interpellata dal quotidiano, parla del «privilegio di poter attendere un lavoro che le piace anziché doverne accettare uno purchessia» e ammette che «più a lungo se ne sta a guardare, come se fosse spettatrice della sua stessa vita, e più sente venir meno la speranza di riuscire mai a spiccare il volo». «Mi sento ancora come una ragazzina», confessa.

«Voglio crescere»

E se da un lato c’è ovviamente chi rivendica con convinzione la decisione di non mettere su famiglia e di vivere ancora come ai tempi del college in appartamenti condivisi con vari coinquilini («I figli diventano inevitabilmente la priorità principale, mentre io sto ancora cercando di capire qual è la mia priorità», racconta Semira Fuller, manager 39enne di Los Angeles che incassa 100 mila dollari l’anno di stipendio e vive ancora con una “roommate”), dall’altro lato c’è chi invece in situazioni simili ci si sente come condannato. Il Wsj racconta il caso di Cody Harding, 38 anni, coinquilino di un appartamento a Brooklyn con altri tre giovani adulti come lui.

«Harding spera ancora di sposarsi e di avere dei figli, ma ha smesso di farsi illusioni davanti a una mentalità comune che a lui sembra privilegiare le avventure a breve termine rispetto agli impegni a lungo termine. Preferisce inoltre restare single che compromettersi con la persona sbagliata. La maggior parte dei suoi amici si trova nella stessa condizione di adolescenza sospesa, dice, il che a volte dà la sensazione che il tempo si sia fermato. “Ve bene cercare di reinventare come dovrebbe essere una vita moderna, ma sono un po’ amareggiato da tutto ciò che in essa manca”, spiega Harding. “Sono stufo di andare alle feste. L’ho già fatto. Voglio crescere”».





lunedì 6 gennaio 2025

La Stella Cometa è realmente esistita?






Corrado Gnerre

Spesso si sente questa 0biezione: è possibile credere alla Stella Cometa? Forse non fu altro che una delle tante comete che ciclicamente si rendevano e si rendono visibili. 

In realtà un’obiezione di questo tipo non regge se si parte da un dato di fede. Infatti, se Dio si è fatto uomo, perché non potrebbe essere stato possibile una stella straordinaria? E’ più straordinario una Stella che accompagnava prodigiosamente chi si recava a Betlemme oppure un Dio che diventa veramente uomo? Inoltre chiediamoci: Dio è Dio o no? Se Dio è Dio, allora Dio ha potenza su tutto, anche sul firmamento. San Tommaso d’Aquino lo afferma chiaramente nella Summa (I, questione XXV).

Sempre san Tommaso afferma che la nascita di Gesù era conveniente che si manifestasse con prodigi (Summa, I, questione XXXVI). Il Prodigio di tutti i prodigi, infatti, doveva essere accompagnato da altri fenomeni prodigiosi. Certo, non è una certezza, ma è una “convenienza” teologica, ovvero un qualcosa che trova fondamento nella logica e nella coerenza del dato rivelato.

Non può essere stato un fenomeno astronomico comune. Sempre san Tommaso nella Summa (III, q.XXXVI a.7), dopo aver esposto le opinioni positive e le obiezioni, conclude affermando l’eccezionalità della natura dell’Astro e la sua non classificabilità tra le stelle create. 

Scrive: “Rispondo: che quella stella, secondo l’autorità del Crisostomo, non fosse un astro del firmamento, è chiaro per diversi motivi. 
Primo, perché nessun’altra stella segue quella stessa direzione. Quella infatti andava da nord a sud: è questa la posizione della Giudea nei confronti della Persia, da cui provenivano i Magi. 
Secondo, ciò è evidente dal tempo dell’apparizione. Poiché non appariva soltanto di notte, ma in pieno giorno. Il che non succede alle stelle, e neppure alla luna. 
Terzo, perché a momenti spariva. Quando infatti i Magi entrarono a Gerusalemme la stella sparì; e riapparve quando essi si allontanarono da Erode. 
Quarto, perché non aveva un movimento continuo, ma si muoveva quando i Magi dovevano camminare e quando invece dovevano fermarsi, si fermava; proprio come avveniva della colonna di nubi nel deserto. Quinto, perché indicò il parto della Vergine, non stando in alto, ma scendendo in basso. Infatti nel Vangelo si legge che “la stella vista da essi in oriente, li precedeva, finché giunta sul luogo dove era il fanciullo, si fermò.” 
Da ciò risulta che le parole dei Magi ‘Vedemmo la sua stella in oriente’ non vanno intese nel senso che dall’oriente avessero visto la stella che si trovava in Giudea; ma che la videro in oriente e che li accompagnò fino alla Giudea.” 

Sant’Agostino d’Ippona scrive nel suo Contra Faustum (lib.II, cap.5) a proposito della Stella: “Non era una di quelle stelle che dall’inizio della creazione seguono il loro corso secondo la legge del Creatore, ma con il nuovo parto della Vergine apparve una nuova stella.”





domenica 5 gennaio 2025

Contro la Rivoluzione, chiamare le cose con il loro nome e combattere il linguaggio falso e ingannatore







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by Aldo Maria Valli


Omelia nell’Ottava del Santissimo Natale

Monsignor Carlo Maria Viganò

Il primo gennaio coincide con l’Ottava di Natale, la cui liturgia è incentrata sulla Circoncisione del Signore e sulla divina Maternità di Maria Santissima, proclamata dal Concilio di Efeso nel 431 Deipara, in greco Theotokos, ossia Madre di Dio. Anticamente in questo giorno venivano celebrate due Messe, una dell’Ottava e una in onore della Vergine Madre. In seguito il ricordo della celebrazione mariana è rimasto nel postcommunio e nella stazione a Santa Maria in Trastevere.

Nell’Incarnazione il Verbo di Dio si è fatto carne, rendendo feconda la Verginità intemerata della Santa Madre del Redentore. La Parola prende corpo – Verbum caro factum est – generando l’Emmanuele nel seno della Vergine, per opera dello Spirito Santo. E verrà chiamato – dice la Scrittura nella profezia d’Isaia – Consigliere ammirabile, Dio forte, Principe della pace, Padre del secolo venturo, Angelo del gran consiglio (Is 9, 6). Anche l’Arcangelo, nel portare l’annuncio a Maria, Le dice: Ecco concepirai e partorirai un figlio, e gli darai nome Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine (Lc 1, 31-33). Con la Circoncisione Gli viene imposto il Suo Nome: Gesù, Dio salva.



Dare il nome significa definire la persona o la cosa nella sua essenza. E questa è prerogativa della Santissima Trinità, del Dio Uno e Trino che Si manifesta rivelando il Suo Nome. Nell’atto creatore, il nome designa la creazione stessa: Sia la luce. E la luce fu (Gen 1, 3). E chiamò la luce giorno e le tenebre notte (Gen 1, 5); chiamò il firmamento cielo; chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare (Gen 1, 10). Avendo Dio decretato che l’uomo fosse a Sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26) e che dominasse la terra, permette ad Adamo di partecipare in qualche modo all’atto creativo consentendogli di attribuire un nome agli animali: Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome (Gen 2, 19). Il nome esprime la realtà e la definisce: per questo la Parola è Santa, e per questo il nome di Dio è Santo e terribile (Sal 111, 10) – come recita il Salmo –perché è Parola di Verità. Per questo i Sacramenti hanno materia, intenzione e forma, ossia la parola sacramentale: Io ti battezzo, Io ti assolvo, Io ti confermo sono parole che realizzano ciò che esse dicono e significano.

Tra pochi giorni celebreremo la festa del Santissimo Nome di Gesù: perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sotto terra; ed ogni lingua proclami – anche qui, la parola proclamata, pronunciata – che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Fil 2, 10-11). Nel Nome di Gesù viene scacciato il demonio: perché il Nome rende presente colui che lo porta, e la Verità rende palese la menzogna come la Luce dissipa le tenebre. Creatore e creatura sono in qualche modo accomunati dalla parola: Ecce, venio dice la Sapienza nell’eternità del tempo. Fiat mihi secundum verbum tuum, risponde la Sede della Sapienza, Maria Santissima. E quel corpo benedetto che per obbedienza la Seconda Persona della Santissima Trinità assume nell’unione ipostatica inizia il Suo cammino verso la Passione sin dalla culla, affrontando i rigori dell’inverno in una grotta; e di lì a poco, sempre per obbedienza, il Santo Bambino verserà le prime stille di sangue nel rito della Circoncisione, nel quale essa è prefigurata.

In questo nuovo anno civile, che da 2025 anni è computato a partire dalla Nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, vorrei che riflettessimo sull’importanza della parola: la Parola di Dio, nella quale è custodito il senso della nostra vita eterna; e la parola con cui comunichiamo e ci esprimiamo, che custodisce il senso della nostra quotidianità.

La Rivoluzione, matrice satanica di questo mondo ribelle e ostile al Verbo Incarnato, sa bene che cambiando le parole se ne muta anche il significato. È per questo che la menzogna dell’antico Serpente si avvale di un linguaggio falso e ingannatore. È per questo che i servi del Maligno nascondono i propri inganni dietro parole solo apparentemente innocue. È la neolingua orwelliana che chiama l’orrendo crimine dell’aborto salute riproduttiva, la mutilazione transizione di genere, il vizio e la trasgressione libertà, la distruzione del Creato green deal, lo sterminio dell’umanità net zero, la sostituzione etnica inclusione.

E se fino a qualche decennio fa Santa Madre Chiesa sapeva opporsi a questa sovversione ripetendo immutata la Parola eterna e verace di Dio e usando il linguaggio proprio alla Fede e alla Morale, oggi una Gerarchia corrotta mostra il suo tradimento nello stesso modo, manipolando il linguaggio, annullando così la parola di Dio (Mc 7, 12). Essa chiama sinodalità la distruzione della costituzione divina della Chiesa e la manipolazione del Papato, dialogo ecumenico la rinuncia all’evangelizzazione e alla conversione, presenza reale i poveri, accoglienza la legittimazione del peccato.

La Parola di Dio è parola di Verità. Essa non si limita ad echeggiare nell’eternità, ma si fa carne e cibo, si immola sulla Croce perché il Verbo proclami la gloria del Padre, ci riscatti dalla menzogna di Satana e ci preservi in questo cammino terreno dalla falsità e dagli inganni del mondo, della carne, del diavolo.



Rimanere fedeli alla Parola di Dio significa rimanere fedeli al Vangelo, alla dottrina, alla Tradizione, alla Messa di sempre in cui le parole, pronunciate nella lingua sacra della Chiesa, conservano intatto il loro significato e lo comunicano senza equivoci, come la luce risplende nelle tenebre. Rimanere fedeli alla Parola di Dio, ossia a Dio stesso, significa saper rispondere alla parola con la parola, come fece Maria Santissima accogliendo il saluto dell’Arcangelo Gabriele.

Chiamiamo dunque le cose con il loro nome: virtù la virtù, vizio il vizio; memori del monito della Sacra Scrittura: Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro (Is 5, 20). Sia dunque il vostro parlare Sì sì, no no: tutto il resto viene dal Maligno (Mt 5, 37). E così sia.

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

1 gennaio 2025

In Circumcisione Domini

Octava Nativitatis






Perché l’episodio dei Magi, a differenza di quanto si creda e si affermi, condanna il multiculturalismo?




Posted 5 Gennaio 2025

di Corrado Gnerre,

Nella Messa del giorno della Festa dell’Epifania si legge un brano di Isaia 6o dove si dice: “Le nazioni pagane cammineranno verso la tua (di Gerusalemme) luce ed i re verso il tuo splendore nascente.” Parole chiare: tutti devono andare verso Gerusalemme. Perché? Perché lì si è realizzata la Salvezza. Attenzione: lì, non altrove. In alcune zone dell’Italia qualcuno potrebbe farci obiezione dicendoci: “Avete scoperto l’acqua calda!”, per dire che abbiamo affermato una cosa del tutto scontata, lapalissiana. Da che mondo è mondo si sa che per i Cristiani la redenzione si è realizzata a Gerusalemme, allorquando Gesù (lì, proprio lì) ha patito ed morto sulla Croce. Eppure -acqua calda o meno- la cosa non sembra tanto scontata. Almeno in questi tempi.

Si ascolta sempre più frequentemente da parte dei cattolici parole di condanna del cosiddetto etnocentrismo. Cioè di condanna della convinzione che possa esistere una cultura, ovvero un giudizio ben preciso sul mondo e sulle cose, che a sua volta possa costituire riferimento fondamentale per costruire qualsivoglia civiltà. Si parla invece di multiculturalismo, policentrismo culturale ed etnico… e chi più ne ha più ne metta.

Eppure la Bibbia parla chiaro, tutta la Rivelazione parla chiaro: la salvezza non si è realizzata contemporaneamente in tutti i luoghi della terra, ma in un luogo ben preciso e circoscritto. E verso questo luogo bisogna andare.

Quello dei Magi è stato il primo pellegrinaggio cristiano. Cosa hanno fatto questi sapienti? Sono rimasti nelle loro agiate dimore, convinti che dappertutto, anche lì, tra i libri che possedevano, nelle cose che ascoltavano da qualche loro poeta e saggio, avrebbero potuto trovare la vera risposta? No. Hanno capito che alla loro cultura mancava qualcosa; e sono partiti per andare in un luogo ben preciso. Per fare di quel luogo l’inizio della propria vita.

Non ci facciamo fuorviare. Il centro esiste eccome. Ed è proprio attraverso il centro e la sua valorizzazione che il tutto può essere adeguatamente valorizzato, anche il lontano. Ma quando si pensa di fare tutto un “centro”, allora proprio questo tutto si disperde e smarrisce ogni significato. Le cattedrali sono fatte da innumerevoli pietre. Quelle che sono verso l’abside sono lontanissime da quelle che sono verso l’entrata, eppure tutte le pietre sono unite fra loro perché c’è un centro che dà significato al loro essere in quel posto e formare la costruzione: il Centro della Presenza!






sabato 4 gennaio 2025

Le classi dirigenti negano la realtà del terrorismo jihadista



A Magdeburgo così come a New Orleans le classi dirigenti hanno un'unica preoccupazione: negare la matrice islamica jihadista del terrorismo. Ci sono almeno tre tipi di ragioni per cui lo fanno: ideologiche, politiche e partitiche. Ma l'effetto è solo la crescita di forze d'opposizione sempre più radicali.



Eugenio Capozzi, 04-01-2025

Ormai è uno schema fisso, un luogo comune, quasi un genere letterario. Davanti ai continui, sempre più frequenti e minacciosi, episodi di aggressioni violente e attentati motivati dall'integralismo islamico nei paesi occidentali, i media mainstream e gran parte della classe politica rispondono all'unisono sempre nello stesso modo: tentando di rimuovere, negare, mascherare il fatto evidente, piuttosto che affrontarlo in tutta la sua gravità.

In questi giorni abbiamo visto ancora questa dinamica all'opera ripetutamente, davanti al tragico attentato di Magdeburgo, poi davanti a quello di Capodanno a New Orleans (entrambi di ovvia matrice integralista islamica), e davanti ai continui assalti di "lupi solitari" (ma chiaramente accomunati da simili origini e moventi) con il coltello contro passanti ignari, come quelli avvenuti a Capodanno a Berlino e a Rimini.

Le modalità con cui avviene questa operazione di rimozione le conosciamo bene. Se un attentatore si getta con un'auto contro un mercatino di Natale o una strada piena di turisti i media producono titoli che recitano più o meno "Auto sulla folla", come se si trattasse di veicoli impazziti senza pilota, e non dell'atto intenzionale perpetrato da una persona.

Poi, quando non si può più negare che la strage sia volontaria, comincia sempre la stessa messa in scena, in 4 fasi: 1) si nascondono il più possibile il nome e la foto dell'assassino; 2) si premette subito che non è detto si tratti di un atto terroristico, e le forze dell'ordine stanno ancora indagando; 3) ci si affretta a comunicare che l'assassino ha la cittadinanza del paese in cui l'attentato è avvenuto, o di altra nazione occidentale, anche quando il nome e le fattezze indicano inequivocabilmente l'origine da un paese islamico; 4) si afferma con sicurezza che il responsabile "aveva problemi psichiatrici". Sono modalità che vengono riprese, in forma difensiva, da rappresentanti dei governi ed esponenti politici anche quando qualcuno evidenzia la gravità e la consistenza della minaccia rappresentata da atti del genere per la convivenza civile e la sicurezza.

Siamo di fronte ad un sistematico, colossale, corale sforzo per negare l'evidenza, per impedire che il tema della minaccia terroristica islamista costantemente incombente sulle nostre società venga percepito come tale dalla popolazione, e trattato come questione prioritaria. Un'operazione non ispirata, salvo casi particolare, da semplici convinzioni personali, bensì da una ben precisa posizione politica, che si traduce in "ispirazione" per i media legati, nella loro grande maggioranza, al "politicalcorrettismo" progressista.

Quello sforzo risponde alla sovrapposizione di tre moventi fondamentali.

Il primo è di natura prettamente ideologica: la convinzione, in base alla dottrina multiculturalista, che l'immigrazione nei paesi occidentali sia un fenomeno positivo in quanto tale, perché produce dialogo e rispetto reciproco; che l'accoglienza sempre e comunque dei migranti sia un dovere morale dei popoli dell'Occidente industrializzato in "risarcimento" a quelli ex colonizzati e in via di sviluppo; che l'"integrazione" degli immigrati nei paesi ospitanti sia un fenomeno naturale e ovvio; che, se essa non avviene, la colpa vada addebitata alla chiusura, al razzismo, all'intolleranza degli autoctoni.

Si tratta di petizioni di principio astratte, para-religiose, fondate su una spinta all'autoflagellazione e sulla convinzione che l'Occidente nel suo complesso debba "espiare" i suoi peccati. Esse scontano la persistente, quasi totale incapacità, da parte di una porzione consistente delle classi dirigenti occidentali, di comprendere che – come ha insegnato Samuel Huntington – le civiltà possono coesistere, ma non possono fondersi. Che, in particolare, la convivenza nello stesso territorio e sotto le stesse istituzioni tra le due civiltà nate dalle più grandi religioni monoteistiche non potrà mai produrre una "integrazione" piena, sul piano dei principi, degli appartenenti a comunità islamiche ospiti, tanto più quanto più esse sono numerose e percentualmente incidenti sulla popolazione. E che, a maggior ragione nel contesto di una persistente faglia conflittuale geopolitica tra le due come quella esistente tra Mediterraneo orientale, Maghreb e Medio Oriente, l'accoglienza sostanzialmente indiscriminata di immigrati da paesi islamici si traduce non in una diminuzione, ma in un aumento delle contrapposizioni tra esse.

Se si smettesse di essere ammaliati dalle sirene ideologiche multiculturaliste, si dovrebbe convenire razionalmente che un cambio radicale di linea sull'immigrazione è urgente in tutte le democrazie liberali europee e americane; che occorre limitare numericamente al massimo l'accoglienza, e selezionare severamente gli immigrati accettando solo quelli che, per istruzione e cultura, siano più assimilabili su un piano individuale.

Il secondo movente è più strettamente legato a un'idea di opportunità politica pratica. Le classi dirigenti occidentali tendono a minimizzare al massimo la percezione degli attacchi jihadisti perpetrati da immigrati perché, se pure fossero convinti della necessità del cambio di direzione di cui sopra, ritengono di non avere la forza per metterlo in atto senza provocare conflitti laceranti nelle loro società. Ma si tratta di un calcolo miope, di brevissimo respiro. Come recita il detto popolare, il medico pietoso fa la piaga purulenta. E ogni giorno, mese o anno di ritardo nell'affrontare una situazione sempre più drammatica e minacciosa produrrà, prima o poi (più prima che poi), effetti molto più rovinosi di quelli che si temono oggi.

Infine, il terzo movente è più direttamente legato a calcoli di politica interna e di partito. Si cerca di negare il problema del terrorismo islamista e dello "scontro di civiltà" interno ai confini degli stati occidentali per non aumentare il consenso a partiti e movimenti di destra conservatrice e sovranista, che della lotta all'immigrazione fanno uno dei loro cavalli di battaglia principali. Ma anche questo calcolo si rivela chiaramente un boomerang. Le destre sovraniste sono cresciute nei consensi nelle democrazie occidentali ovunque innanzitutto perché hanno intercettato la rabbia e la frustrazione dei cittadini davanti alla rimozione della questione da parte delle altre forze politiche. E, più si continua a cercare di "nascondere la spazzatura sotto il tappeto", più aumentano gli elettori che, per sfondare il muro dell'indifferenza e della manipolazione, passano dalla loro parte.

Anzi, quel nascondimento gonfia le vele delle forze più radicali ed estreme. E, a quel punto, la demonizzazione di esse non serve a nulla: al contrario, aumenta ulteriormente l'esasperazione dei cittadini che si sentono traditi. La realtà presenta sempre il conto, e più si tarda a pagare più il conto diventa salato.