
di Aldo Maria Valli, 05 dic 2025
Il gruppo di studio numero nove, uno dei gruppi di lavoro post-assemblea del sinodo, ha pubblicato un rapporto intermedio che chiede apertamente un “cambiamento di paradigma” nel modo in cui vengono gestite le questioni dottrinali, pastorali ed etiche. Il gruppo – guidato dal cardinale Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio di Lima, con la collaborazione di vescovi, canonisti e accademici – ritiene necessaria “una trasformazione del pensiero e una trasformazione dell’azione”, insistendo sul fatto che verità e amore (intendendo con “amore” l’adattamento alle situazioni) sono interconnessi e non possono essere trattati come sfere separate. In pratica, a giudizio del gruppo di studio, il vecchio modo di pensare viene archiviato come rigido e dogmatico. Quella che occorre è la “pastoralità”, intesa come accondiscendenza.
La via proposta è quella di trattare “la dimensione pastorale come orizzonte di interpretazione”. Quindi accanto alla Parola di Dio va messa sempre la “soggettività dell’altro” e l’autorità non deve definire la verità ma ascoltare e accompagnare prestando attenzione al contesto culturale, alle emozioni e alle resistenze. Tutto ciò vorrebbe dire, secondo loro, promuovere “l’azione dello Spirito Santo”.
Risultato? No alle soluzioni universali e no alle verità oggettive. Quelli di cui c’è bisogno sono “criteri di riferimento” per il “discernimento”, specie su “temi emergenti” come omosessualità e violenza contro le donne.
Il dogma, in questo modo, non è formalmente negato, ma aggirato in nome dell’adattamento alla situazione. Di conseguenza, la verità stessa non è più un dato oggettivo. “Verità” è ciò che esiste nel concreto incontro pastorale, e misericordia non è predicare la conversione ma andare incontro alle vicende umane personali.
Nel caso delle relazioni omosessuali, sebbene il catechismo affermi ancora che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, occorre non condannare ma accogliere le “diversità sessuali” e “camminare insieme”. Allo stesso modo, l’indissolubilità del matrimonio è ancora affermata in astratto, ma divorzio e “seconde unioni” sono situazioni giustificate nel concreto.
In fondo è lo stesso metodo che viene applicato quando si continua a proclamare il Credo, ma di fronte al patriarca ecumenico si tralascia il Filioque, perché la “soggettività dell’altro” non deve mai subire la “violenza” del dogma.
Con buona pace dei conservatori che cercano di negare l’evidenza, il gruppo di studio afferma esplicitamente che il cambio di paradigma non è il frutto di una temporanea interpretazione errata di Francesco ma è in continuità con il Vaticano II e l’”Evangelii gaudium”.
Se la teologia morale preconciliare partiva da atti oggettivi, legge divina e principi perenni, e metteva la prudenza pastorale al servizio della verità, ora tutto è ribaltato: la verità va piegata alla pastoralità. Per la teologia morale sinodale non ci sono verità immutabili. Anzi, non ci sono mai state, perché esistono solo nella traduzione pastorale pratica. Il trionfo del relativismo.
Il gruppo di studio numero nove, uno dei gruppi di lavoro post-assemblea del sinodo, ha pubblicato un rapporto intermedio che chiede apertamente un “cambiamento di paradigma” nel modo in cui vengono gestite le questioni dottrinali, pastorali ed etiche. Il gruppo – guidato dal cardinale Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio di Lima, con la collaborazione di vescovi, canonisti e accademici – ritiene necessaria “una trasformazione del pensiero e una trasformazione dell’azione”, insistendo sul fatto che verità e amore (intendendo con “amore” l’adattamento alle situazioni) sono interconnessi e non possono essere trattati come sfere separate. In pratica, a giudizio del gruppo di studio, il vecchio modo di pensare viene archiviato come rigido e dogmatico. Quella che occorre è la “pastoralità”, intesa come accondiscendenza.
La via proposta è quella di trattare “la dimensione pastorale come orizzonte di interpretazione”. Quindi accanto alla Parola di Dio va messa sempre la “soggettività dell’altro” e l’autorità non deve definire la verità ma ascoltare e accompagnare prestando attenzione al contesto culturale, alle emozioni e alle resistenze. Tutto ciò vorrebbe dire, secondo loro, promuovere “l’azione dello Spirito Santo”.
Risultato? No alle soluzioni universali e no alle verità oggettive. Quelli di cui c’è bisogno sono “criteri di riferimento” per il “discernimento”, specie su “temi emergenti” come omosessualità e violenza contro le donne.
Il dogma, in questo modo, non è formalmente negato, ma aggirato in nome dell’adattamento alla situazione. Di conseguenza, la verità stessa non è più un dato oggettivo. “Verità” è ciò che esiste nel concreto incontro pastorale, e misericordia non è predicare la conversione ma andare incontro alle vicende umane personali.
Nel caso delle relazioni omosessuali, sebbene il catechismo affermi ancora che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, occorre non condannare ma accogliere le “diversità sessuali” e “camminare insieme”. Allo stesso modo, l’indissolubilità del matrimonio è ancora affermata in astratto, ma divorzio e “seconde unioni” sono situazioni giustificate nel concreto.
In fondo è lo stesso metodo che viene applicato quando si continua a proclamare il Credo, ma di fronte al patriarca ecumenico si tralascia il Filioque, perché la “soggettività dell’altro” non deve mai subire la “violenza” del dogma.
Con buona pace dei conservatori che cercano di negare l’evidenza, il gruppo di studio afferma esplicitamente che il cambio di paradigma non è il frutto di una temporanea interpretazione errata di Francesco ma è in continuità con il Vaticano II e l’”Evangelii gaudium”.
Se la teologia morale preconciliare partiva da atti oggettivi, legge divina e principi perenni, e metteva la prudenza pastorale al servizio della verità, ora tutto è ribaltato: la verità va piegata alla pastoralità. Per la teologia morale sinodale non ci sono verità immutabili. Anzi, non ci sono mai state, perché esistono solo nella traduzione pastorale pratica. Il trionfo del relativismo.




