venerdì 5 dicembre 2025

Nella chiesa sinodale il relativismo avanza così







di Aldo Maria Valli, 05 dic 2025

Il gruppo di studio numero nove, uno dei gruppi di lavoro post-assemblea del sinodo, ha pubblicato un rapporto intermedio che chiede apertamente un “cambiamento di paradigma” nel modo in cui vengono gestite le questioni dottrinali, pastorali ed etiche. Il gruppo – guidato dal cardinale Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio di Lima, con la collaborazione di vescovi, canonisti e accademici – ritiene necessaria “una trasformazione del pensiero e una trasformazione dell’azione”, insistendo sul fatto che verità e amore (intendendo con “amore” l’adattamento alle situazioni) sono interconnessi e non possono essere trattati come sfere separate. In pratica, a giudizio del gruppo di studio, il vecchio modo di pensare viene archiviato come rigido e dogmatico. Quella che occorre è la “pastoralità”, intesa come accondiscendenza.

La via proposta è quella di trattare “la dimensione pastorale come orizzonte di interpretazione”. Quindi accanto alla Parola di Dio va messa sempre la “soggettività dell’altro” e l’autorità non deve definire la verità ma ascoltare e accompagnare prestando attenzione al contesto culturale, alle emozioni e alle resistenze. Tutto ciò vorrebbe dire, secondo loro, promuovere “l’azione dello Spirito Santo”.

Risultato? No alle soluzioni universali e no alle verità oggettive. Quelli di cui c’è bisogno sono “criteri di riferimento” per il “discernimento”, specie su “temi emergenti” come omosessualità e violenza contro le donne.

Il dogma, in questo modo, non è formalmente negato, ma aggirato in nome dell’adattamento alla situazione. Di conseguenza, la verità stessa non è più un dato oggettivo. “Verità” è ciò che esiste nel concreto incontro pastorale, e misericordia non è predicare la conversione ma andare incontro alle vicende umane personali.

Nel caso delle relazioni omosessuali, sebbene il catechismo affermi ancora che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, occorre non condannare ma accogliere le “diversità sessuali” e “camminare insieme”. Allo stesso modo, l’indissolubilità del matrimonio è ancora affermata in astratto, ma divorzio e “seconde unioni” sono situazioni giustificate nel concreto.

In fondo è lo stesso metodo che viene applicato quando si continua a proclamare il Credo, ma di fronte al patriarca ecumenico si tralascia il Filioque, perché la “soggettività dell’altro” non deve mai subire la “violenza” del dogma.

Con buona pace dei conservatori che cercano di negare l’evidenza, il gruppo di studio afferma esplicitamente che il cambio di paradigma non è il frutto di una temporanea interpretazione errata di Francesco ma è in continuità con il Vaticano II e l’”Evangelii gaudium”.

Se la teologia morale preconciliare partiva da atti oggettivi, legge divina e principi perenni, e metteva la prudenza pastorale al servizio della verità, ora tutto è ribaltato: la verità va piegata alla pastoralità. Per la teologia morale sinodale non ci sono verità immutabili. Anzi, non ci sono mai state, perché esistono solo nella traduzione pastorale pratica. Il trionfo del relativismo.






giovedì 4 dicembre 2025

Le conseguenze della Nota Mater Populi Fidelis



 


di Roberto de Mattei, 3 dicembre 2025

Il 4 novembre 2025 è stata pubblicata la Nota dottrinale Mater Populi Fidelis, con cui il Dicastero per la Dottrina della Fede vuole chiarire il significato e i limiti di alcuni titoli mariani riferiti alla cooperazione di Maria all’opera di salvezza. La dichiarazione ha suscitato sgomento e costernazione tra i semplici fedeli, ma anche tra i mariologi, perché rappresenta un’oggettiva diminuzione dei privilegi riservati alla Madonna dalla Tradizione della Chiesa. C’è da chiedersi ora quali saranno le sue conseguenze sul piano pratico.

Per orientarsi nell’orizzonte di confusione creato dal documento, è giunto più che opportuno uno scambio verbale tra Diane Montagna e il cardinale Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero della Fede, che la vaticanista ha pubblicato il 27 novembre sulla sua pagina Substack. Rispondendo alla giornalista, il cardinale Fernández ha spiegato che l’affermazione contenuta nel n. 22 della nota dottrinale Mater Populi fidelis – secondo cui «è sempre inappropriato» usare il titolo “Corredentrice” per definire la cooperazione di Maria all’opera di Redenzione di Cristo riguarda esclusivamente l’uso ufficiale del titolo “Corredentrice”, vale a dire, nei testi liturgici e nei documenti della Santa Sede, ma non si estende alla devozione privata o alle discussioni teologiche tra fedeli.

Il momento centrale dell’intervista riguarda il significato dell’espressione «sempre inappropriato» riferita al titolo di Corredentrice, Diane Montagna chiede se il termine, secondo cui è «sempre inopportuno utilizzare il titolo ‘Corredentrice’ (…) si riferisce anche al passato, soprattutto considerando che questo titolo è stato usato da santi, dottori della Chiesa e dal magistero ordinario?». Il cardinale risponde: «No, no, no. Si riferisce al momento attuale (…)». La giornalista incalza: «Dunque “sempre” significa “d’ora in avanti?», il cardinale conferma: «D’ora in avanti, senza dubbio». La giornalista, non soddisfatta, chiede nuovamente un chiarimento sul valore della parola «sempre». Fernández ribadisce che non si riferisce al passato, ma unicamente al presente, limitatamente ai documenti ufficiali.

Bisogna prendere atto di questa importante precisazione. Nella Nota dottrinale l’avverbio “sempre” non ha lo stesso senso che ha nel linguaggio comune. Qualsiasi persona ragionevole sa che l’avverbio “sempre” indica un periodo di tempo ininterrotto, senza eccezioni, comprendente il passato e il futuro. La legge divina e naturale, ad esempio, è valida sempre, in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni situazione. Nella risposta del cardinale, invece, il termine “sempre” viene ridefinito come vincolato soltanto al presente e, ipoteticamente al futuro: «d’ora in avanti». Ma se, come afferma il prefetto, «sempre» significa soltanto «a partire da adesso», la conseguenza è che come c’è stato un cambiamento dal passato al presente, potrebbe esserci un cambiamento dal presente al futuro. Ciò significa che la Mater fidelis, pur presentandosi come una nota dottrinale, fonda le sue ragioni su misure di ordine pastorale, soggette a condizioni di natura storica. La valutazione che il documento esprime dei titoli mariani nel documento non è assoluta e permanente, ma momentanea e contingente.

Il cardinale conferma il carattere provvisorio della Nota con le parole seguenti: «Questa espressione (Corredentrice) non sarà usata né nella liturgia, cioè nei testi liturgici, né nei documenti ufficiali della Santa Sede» ma, «se voi, insieme al vostro gruppo di amici, ritenete di comprendere bene il vero significato di questa espressione, avete letto il documento e vedete che anche i suoi aspetti positivi sono lì affermati, e desiderate esprimere proprio questo all’interno del vostro gruppo di preghiera o tra amici, potete usare il titolo, ma non sarà usato ufficialmente, cioè né nei testi liturgici né nei documenti ufficiali».

Il termine che non è appropriato usare «né nei testi liturgici né nei documenti ufficiali», può essere lecitamente utilizzato in tutto ciò che si situa al di fuori di questaridotta estensione. La proibizione riguarda solo l’ambito «ufficiale». Se infatti un gruppo di fedeli «capisce bene il vero significato dell’espressione» (ossia la cooperazione subordinata di Maria a Cristo), «ha letto il documento e ne condivide il senso», allora può usare liberamente il titolo di Corredentrice.La conclusione è che i fedeli restano liberi di credere e promuovere la verità secondo cui Maria è sempre stata Corredentrice e Mediatrice di tutte le Grazie, lavorando affinché tali verità siano proclamate dogma di fede. Se l’uso del titolo di Corredentrice non era inappropriato nel passato, potrebbe non esserlo domani. La verità della Corredenzione di Maria, pur non essendo mai stata proclamata come dogma, appartiene al patrimonio dottrinale della Chiesa. La Nota del Dicastero della fede lo ammette, circoscrivendo i limiti del suo uso al presente e in determinate circostanze. Ma, proprio per tale ragione, questo titolo mariano, pur non essendo annoverato come dogma ufficiale della Chiesa, potrebbe divenirlo in futuro. E questo la Nota del dicastero della Fede non lo esclude e non può escluderlo.

La definizione dogmatica dell’Immacolata risale al 1854 e quella dell’Assunzione al 1950. Dal momento di quelle date, ogni cattolico che rifiuta queste verità cade nell’eresia, ma la Madonna è “sempre” stata Immacolata ed Assunta. Allo stesso modo siamo liberi non solo di credere che la Madonna è sempre stata Corredentrice e Mediatrice di tutte le Grazie, ma anche di operare con tutte le nostre forze, affinché queste verità siano proclamate al più presto come dogma di fede, in modo che ogni cattolico sia obbligato a credere per sempre, ciò che al presente viene valutato inappropriato, ma che sempre è stato vero.

All’ultima domanda posta dalla vaticanista: «Voi (cioè il Dicastero per la dottrina della fede) avete consultato qualche mariologo per la nota dottrinale Mater Populi fidelis?» il Prefetto della Dottrina per la Fede risponde: «Sì, molti, molti, così come teologi specializzati in cristologia».

Tuttavia, padre Maurizio Gronchi, consultore del Dicastero della Dottrina della Fede, che ha presentato il documento con il cardinale Fernández, ha dichiarato ad ACI Prensa il 19 novembre che«non è stato possibile trovare mariologi disposti a collaborare», osservando che né i membri della Pontificia Facoltà teologica Marianum, né quelli della Pontificia Accademia mariana internazionale hanno partecipato alla presentazione presso la Curia dei Gesuiti, un «silenzio» che, a suo avviso, «può essere interpretato come dissenso» (https://www.aciprensa.com/noticias/119297/es-supersticion-pensar-que-la-virgen-frena-la-ira-de-dios-dice-experto-vaticano-sobre-titulo-de-corredentora).

Una indiretta conferma dell’esistenza di questo dissenso è venuta da un noto mariologo, padre Salvatore Maria Perrella, OSM, il quale ha dichiarato che Mater Populi Fidelis «avrebbe dovuto essere preparato da persone competenti in materia», come a dire che il documento è stato redatto da persone prive di competenza mariologica e, si potrebbe rispettosamente aggiungere, anche poco adeguate nel buon uso della logica…

Ma poiché ora sappiamo che l’intento della Mater Populi Fidelis non è imporre limiti arbitrari alla devozione mariana o negare la partecipazione di Maria all’opera redentrice di Cristo e che il “divieto” riguarda solo l’uso ufficiale del titolo “Corredentrice” nei testi liturgici e negli atti del Magistero, senza estendersi alla devozione privata né ai dibattiti teologici, quale occasione migliore, per scendere nell’agone?

Ribadiamo quanto abbiamo scritto all’indomani della pubblicazione del documento: «Noi siamo convinti che oggi esiste nel mondo un manipolo di sacerdoti e di laici, di animo nobile e coraggioso, pronti ad impugnare la spada a due tagli della Verità per proclamare tutti i privilegi di Maria e gridare, ai piedi del suo trono: “Quis ut Virgo?”. Su di loro scenderanno le grazie necessarie alla lotta in questi tempi tempestosi. E forse, come accade sempre nella storia quando si tenta di oscurare la luce, il documento del Dicastero della fede che vuole minimizzare la Beatissima Vergine Maria, ne confermerà, senza volerlo, l’immensa grandezza» (https://www.corrispondenzaromana.it/quis-ut-virgo/).





mercoledì 3 dicembre 2025

Il presepe fantasma, monumento all’Europa che si vergogna di avere un volto



Per colpa degli ignavi, la sottomissione completa è prossima. In Belgistan e nell'ex Danimarca è quasi completata.



Giulio Meotti,  2 dicembre 2025

Che metafora perfetta: il vuoto è il nuovo pieno. E il mondo inclusivo lavora al Gesù profugo climatico siriano con tre mogli e trasformerà la capanna in una kaaba. Hanno vinto senza sparare un colpo.

Che capolavoro!

Ecco il monumento più sincero che l’Europa abbia mai eretto a se stessa. Un monumento alla nostra viltà.

A Bruxelles è arrivato il presepe nella Grand Place e le tradizionali figure della Natività sono sostituite da manichini realizzati con stracci riciclati. I volti di Maria, Giuseppe, Gesù bambino e i Re Magi sono cancellati a favore di tessuto beige e marrone. Un mix inclusivo di “tutti i colori della pelle” è stato scelto “affinché tutti possano vedersi rappresentati”.

“Un cristianesimo compatibile con la sharia”, ha ironizzato l’antropologa Florence Bergeaud-Blackler. “La violenza simbolica di questo presepe, che si erge nella Grand-Place di Bruxelles, senza volto, letteralmente sfigurato in nome di un’inclusività salafita, cancella la specificità iconografica del mondo cristiano e, più in generale, della cultura occidentale”, sostiene la filosofa Valérie Kokoszka.

Tradotto per i profani: il cristianesimo reso compatibile con la sharia, quella legge coranica che vieta le raffigurazioni umane per non idolatrare l’uomo al posto di Allah. Brava Florence, hai centrato il bersaglio. Non è un caso che in Arabia Saudita o in Iran le statue vengano decapitate o fatte esplodere, e ora eccoci qui, a Bruxelles, a fare lo stesso per “inclusività”.

Se domani un gruppo di cattolici andasse in Arabia Saudita a pretendere un presepe in piazza a Riad, li farebbero a pezzi in dieci minuti netti.

Immaginate se facessimo lo stesso con l’Eid in Europa: niente mezzelune, niente dolci, solo pupazzi neutri per non offendere i cristiani. Risate inclusive? No, urla di razzismo dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu.

A Holsbeek, Bruxelles, non era stato allestito il presepe per “non offendere i musulmani”. Nella Grand Place della capitale europea avevano già installato un albero di Natale scristianizzato.

Ma chi è questo “altro” che si offende se Gesù ha un volto? La risposta è ovvia, anche se nessuno osa dirla ad alta voce nei corridoi del potere europeo: la legge islamica salafita e wahhabita, che considera haram (proibita) qualsiasi raffigurazione realistica di esseri umani, soprattutto profeti e figure sacre.

Che fare allora? Un presepe islamicamente corretto che sembra uscito da un campo di concentramento dell’arte contemporanea: pupazzi senza identità, senza anima, senza storia.

Niente facce, niente croci, niente che ricordi che il presepe è roba cristiana, non un buffet halal per anime sensibili.

Facce cancellate, come se fossero testimoni protetti in un processo contro la mafia salafita. Bruxelles non ha più un presepe. Ha un sudario. E noi europei ci stiamo avvolgendo dentro, tranquilli, sorridenti, inclusivi, mentre il mondo ride di noi.

Nel cuore della capitale d’Europa, davanti al Palazzo del Berlaymont, è comparso il presepe più onesto che il Vecchio Continente potesse partorire: un presepe senza Gesù, senza Madonna, senza Giuseppe, senza pastori, senza angeli. Niente facce. Letteralmente. È la resa definitiva. Il modo migliore per non offendere nessuno è non essere nessuno.

Il sindaco socialista Philippe Close, maestro nel parlare senza dire nulla, ha liquidato la polemica con la solita litania progressista: “Progetto ecosostenibile e inclusivo”. Inclusivo di chi, esattamente? Dei cattolici che vedono la loro festa più importante ridotta a un’installazione neutra da centro commerciale scandinavo? Degli atei che se ne fregano? O dei salafiti che, guarda caso, ottengono esattamente ciò che la loro dottrina esige: niente volti, niente immagini, niente che ricordi che questa terra è stata cristiana per duemila anni?

C’era una volta il paese dell’Adorazione dell’agnello di Van Eyck, della Madonna di Bruges di Michelangelo, dei quadri di Bruegel, della cattedrale di Anversa, del cane di Sant’Uberto e dell’Università di Lovanio (fondata da Papa Martino V).

E quel che è peggio è che la diocesi cattolica ha approvato il presepe islamizzato.

Dunque fare un vero presepe si aggiunge alla lista delle cose che non potete più fare in una capitale europea caduta all’Islam, come portare la kippah o presentare un libro controverso in una libreria.

Ecco una schifezza di pupazzi di stoffa riciclata che sembrano i fantasmi di Guantanamo in versione soft. Gesù è un sacco informe che potrebbe essere un neonato, un cuscino o un pacco di kebab avanzato. Maria sembra un burqa. Un orrore che fa paura ai bambini e fa ridere i salafiti.
Non è una installazione natalizia. È una lapidazione simbolica.

È dhimmitudine in diretta, è il tributo che i vigliacchi pagano ai prepotenti. È il jihad più economico della storia: zero martiri, zero spese, solo qualche lacrima di coccodrillo inclusivo e Gesù finisce senza testa.

Pensateci: i musulmani non sono “ancora” maggioranza a Bruxelles, ma è la minoranza a dettare legge. Perché? Paura. Paura di fatwe, di no-go zone, di coltelli che volano per una vignetta. E i progressisti, quei campioni dell’uguaglianza, applaudono: “Bravi, inclusivi!”. Inclusivi un cavolo: è supremazia culturale camuffata da virtù. Il salafismo non è “diversità”, è regresso: donne velate, omosessuali lapidati, apostati impiccati. Ma guai a dirlo, sei islamofobo. Meglio decapitare Gesù che ammettere che l’Islam non è compatibile con la laicità che tanto decantiamo.

Caroline Sägesser, ricercatrice del Crisp belga, dice a L’Echo: “Bruxelles era in prima linea nella secolarizzazione prima di confrontarsi con una minoranza musulmana attiva. La prima religione a Bruxelles oggi è l’Islam. Questo ha ripercussioni nel dibattito politico, è logico”.

Non è più questione di “laicità”. È la cancellazione volontaria dell’identità. L’Europa che per duemila anni ha raccontato se stessa partendo da quella grotta di Betlemme, che oggi è venerata in Occidente meno di un tunnel di Hamas, tira giù la saracinesca e chiede scusa per essere esistita.

L’Occidente, terrorizzato dalla propria ombra, si autocensura per non urtare la “sensibilità” di chi, invece, non ha alcun problema a imporre la propria.

E il bello è che lo fanno con il sorriso ipocrita dell’inclusività. “Non è censura, è rispetto!”, strillano i benpensanti. Rispetto per chi? Per una minoranza che cresce demograficamente a ritmi vertiginosi e che, in molti casi, non ha la minima intenzione di integrarsi, ma solo di sostituire?

La scena è da antologia del ridicolo.

Ci mancava soltanto un cartello che lampeggia: “Questo spazio è vuoto perché voi non meritate di avere una storia”.

Una capanna di compensato riciclato (certificato C02-neutral) con dentro: niente. Proprio niente. Legno recuperato dai barconi di Lampedusa? Sarebbe riciclaggio etico almeno, due piccioni con una fava: ecologia e senso di colpa incorporato. La capanna sembra uscita da un Ikea posseduto da Greta Thunberg.

Nemmeno il bue e l’asinello, perché gli animali potrebbero offendere i vegani e chi soffre di zoofobia.

Ecco il presepe più coraggioso della storia. Finalmente abbiamo sconfitto l’odio natalizio.

Le uniche figure presenti sono sagome di cartone ritagliate a forma di blob informe, colore beige inclusivo (“beige di Bruxelles”, quello che usano anche per le divise dei burocrati).

Un passante sussurra: “Ma allora è una moschea travestita da presepe?”. Gli rispondono in coro: “No, è un presepe travestito da Europa”.

Il Bambino? Scomparso. Troppo cristiano, troppo bianco, troppo maschio, troppo… tutto.

La Madre? Eliminata. Una donna vergine che partorisce? Messaggio patriarcale tossico.

Giuseppe? Cancellato. Un uomo anziano che accetta di crescere il figlio di un altro? Modello familiare non abbastanza woke per il 2025.

I Re Magi? Impresentabili: tre uomini che portano oro, incenso e mirra. Roba da colonialisti.

È la metafora perfetta dell’Europa attuale: una culla senza bambino. Denatalità ai massimi, dice anche Mattarella.

Gesù: rimosso per “privilegio cis-maschio-bianco”. L’hanno mandato a Calais su un gommone. Tanto lì c’è ancora posto per i minori non accompagnati. Purché non si chiamino Gesù.

Maria: qualcuno propone di metterle un burqa con la scritta “My body, my choice, my sharia” in glitter.

Giuseppe: radiato per “toxic masculinity” da falegname e per “greenwashing”.

Pastori: licenziati per rappresentazione classista del proletariato rurale.

Pecore: accusate di islamofobia (troppo simili al montone del kebab).

I Re Magi: condannati per reati di appropriazione culturale (oro africano, incenso arabo, mirra yemenita, tutto portato da uomini barbuti privilegiati).

Il bue e l’asinello: denunciati dalla Lega antivivisezione e da Hamas per “sfruttamento animale” e per “simbolismo ebraico troppo evidente”.

Una civiltà che ha deciso di non riprodursi più – né biologicamente né culturalmente – e che, per non sentire il rimorso, rimuove anche il ricordo di quando era capace di generare qualcosa di grande. Guardatelo bene, quel presepe senza volto: è il ritratto dell’uomo europeo del 2025.

Senza radici, senza sesso, senza storia, senza futuro.

A Molenbeek brindano con il tè alla menta: “Ancora dieci presepi così e ci ridanno pure la Spagna e la Sicilia”.

Standing ovation. Qualcuno singhiozza. È il commissario al Bilancio che ha appena scoperto quanto è costato il nulla.

Mi immagino quel bambino di cinque anni, portato lì dalla maestra per l’ora di educazione alla decristianizzazione, con la maglietta “Free Palestine From The River To The Kindergarten”, indica la capanna vuota e chiede: “Ma dove è Gesù?”. La maestra risponde: “Gesù è un costrutto sociale, tesoro. Oggi può essere chiunque. Qui adesso c’è il vuoto, che è molto più inclusivo di un ebreo. E Gesù può esserlo anche un profugo climatico siriano con tre mogli e un bonus bebè belga”.

I giornalisti di regime applaudono in piedi. Solo un cronista freelance osa fare la domanda sbagliata: “Ma non è un po’… vuoto?”.
Risposta corale delle autorità: “Esattamente! Il vuoto è il nuovo pieno”.

Un manichino ben vestito che chiede permesso prima di esistere, che si scusa per il solo fatto di essere nato qui e non altrove. Natale è diventato “festa delle luci”. Presto sarà “festa del nulla”.

E quando anche le luci si spegneranno – perché consumano troppa CO₂ e offendono i talebani del clima – resterà solo la capanna vuota.

Benvenuti nell’Europa inclusiva. Dove tutti sono benvenuti, tranne noi. E fra vent’anni la Grand Place avrà una kaaba in miniatura.

Le Vif-L’Express (la principale testata giornalistica in lingua francese) ha pubblicato una prima pagina provocatoria intitolata “Bruxelles musulmana nel 2030”.

Nei centri culturali finanziati dal Qatar brindano con il succo d’arancia. Hanno vinto senza sparare un colpo: basta fare la faccia offesa per cinque minuti e l’Occidente si genuflette da solo. Siamo il continente che si scava la fossa e poi paga l’impresa funebre perché sia “eco-friendly”.

E mentre cala la sera, le luci a led della capanna si accendono di verde smeraldo. È l’ora della preghiera. I tappetini sono già pronti sotto il pavimento rimovibile. Il presepe vuoto diventa una moschea piena. Perché a Bruxelles il Natale dura cinque minuti, la preghiera cinque volte al giorno.

I pochi turisti cristiani vengono gentilmente invitati a togliersi le scarpe. Uno osa protestare. Gli agenti della Polizia del Pensiero gli spiegano: “Signore, qui vige la sharia light: o ti converti o paghi la tassa sul Natale”.

Un imam sussurra al microfono spento: “L’anno prossimo ci mettiamo direttamente il minareto, tanto la capanna già c’è”.

Si sa, in Europa c’è posto per tutti. Tranne che per chi c’era prima. Svegliamoci, prima che l’inclusività ci renda tutti senza volto.

Domani i titoli dei giornali: “Record storico: presepe con zero visitatori cristiani.
Obiettivo raggiunto”. Buon suicidio assistito, ex Europa. Firmato: i vostri padroni, che almeno loro un’identità ce l’hanno.






martedì 2 dicembre 2025

Di fronte alla crisi nella Chiesa: speranza o disfattismo?




Pubblicato 1 dicembre 2025




Julio Loredo

Di fronte alla crisi che attanaglia Santa Romana Chiesa, taluni reagiscono come si non ci fosse più niente da fare. Si dedicano, quindi, esclusivamente alla critica. È uno stile di vita spiritualmente distruttivo che mina la fiducia nelle promesse di Cristo. È anche spiritualmente sterile; non conduce anime alla conversione. Senza chiudere gli occhi ai mali dell’epoca, denunciandoli quando serve, dobbiamo avere lo sguardo fisso nel trionfo del Cuore Immacolato di Maria.

Introduzione: Navigare la Tempesta

Chiunque osservi con attenzione le recenti vicende della Chiesa Cattolica può sentirsi disorientato. È un tempo di luci e ombre, un susseguirsi di documenti, polemiche e dichiarazioni che sembrano contraddirsi a vicenda, generando un senso di confusione diffusa. Le tensioni appaiono evidenti e le fratture profonde, lasciando molti fedeli a interrogarsi sulla direzione che si sta prendendo.

Tuttavia, sotto la superficie di questi scontri, si muovono correnti più profonde e tendenze sorprendenti che, se comprese, offrono una chiave di lettura nuova e inaspettatamente carica di speranza. Un recente episodio, la controversia sul titolo mariano di “Corredentrice”, è l’esempio perfetto del tipo di conflitto dell’era “Boomer” che una nuova generazione sta silenziosamente rifiutando. Non si tratta solo di conflitti ideologici, ma di un vero e proprio scontro generazionale che sta ridisegnando il volto del cattolicesimo dal basso.

Questo articolo esplora tre delle riflessioni più significative emerse da una recente analisi del clima ecclesiale. L’obiettivo è offrire una mappa per orientarsi, per comprendere non solo le crisi del presente, ma soprattutto i segnali di una rinascita che sta già avvenendo, silenziosa ma potente.

1. La Frattura sulla “Corredentrice”: Quando la Gerarchia si Scontra con la Fede del Popolo


Uno degli episodi più emblematici del momento attuale riguarda la controversia sul titolo di “Corredentrice”. Nel documento Mater Popoli fidelis, il Cardinale Victor Manuel Fernandez ha definito “inappropriato” l’uso di questo titolo, motivando la scelta con il rischio che il termine venga “frainteso a livello pastorale” e possa irritare i protestanti. La decisione è stata presentata come frutto di ampie consultazioni.

La realtà, però, si è rivelata molto diversa. La reazione del mondo cattolico, sia a livello popolare che accademico, è stata così vasta da costringere il Cardinale a un “mezzo passo indietro”, chiarendo che i fedeli possono continuare a usare il titolo, ma non nei documenti vaticani o nei testi liturgici. Soprattutto, è emerso che nessun membro della Pontificia Accademia Mariana né della Pontificia Facoltà Teologica Marianum è stato consultato. Anzi, un consultore dello stesso dicastero del Cardinale, padre Maurizio Gronchi, ha ammesso: “non siamo riusciti a trovare nessun mariologo disposto a sostenerci”.

La critica più tagliente è arrivata da Monsignor Robert Muzzerz, vescovo ausiliare nei Paesi Bassi:
“non vedo nulla di irragionevole nell’idea che Maria in modo totalmente subordinato e per grazia abbia partecipato all’opera di Cristo… francamente se il cardinale Fernandez teme che la gente metta Maria sullo stesso piano di Cristo allora il problema non è Maria e Fernandez”
Ma come possono riempirsi la bocca de discorsi sul popolo di Dio e poi ignorare la voce del vero popolo di Dio? Come sottolineato da Luisella Scrosati, questo incidente ha messo in luce una crescente “frattura fra la fede del popolo e i documenti e la liturgia della Chiesa”. È il segnale di uno scollamento profondo.

2. Le Tre Tribù: Boomer, Doomer e Zoomer

Questo tipo di scontro è perfettamente inquadrato da un’analisi di Eric Sammons su Crisis Magazine, che propone di leggere la Chiesa di oggi attraverso tre “tribù” generazionali.

I Boomer 

Questa generazione (nati 1946-1964) occupa le attuali posizioni di leadership. È caratterizzata, secondo Sammons, da una “bramosia di abbracciare il mondo moderno al costo di annacquare la fede cattolica”. La loro è una “spiritualità orizzontale”, più attenta alle questioni sociali che alla trascendenza, che tende a rigettare ciò che esisteva prima del 1960. Papa Francesco viene indicato come “l’icona di questa mentalità”.

I Doomer 

In reazione al progressismo dei Boomer, è emerso questo gruppo. I Doomer (da doom, “condanna”) sono i disfattisti: cattolici, spesso “sede vacantiste di giure o de fatto”, così scioccati dalla crisi da credere che la Chiesa sia in un declino irreversibile. Sammons avverte che questa mentalità, pur nascendo da una preoccupazione sincera, diventa uno “stile di vita spiritualmente distruttivo” che mina la fiducia nelle promesse di Cristo ed è “spiritualmente sterile”.

Gli Zoomer 

Qui si trova la vera sorpresa. La generazione più giovane (nati 1997-2012) sta dando vita a una vera rinascita spirituale, perché “rifiutano sia il bumerismo che il dumerismo”. Non sono interessati né all’abbraccio incondizionato con la modernità né alla disperazione paralizzante. Il loro desiderio è un altro: cercano qualcosa di “solido e di sicuro, chiaro e convincente, non le ambiguità che hanno dominato la vita della Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II”.

3. La Vera Speranza: Il “Quiet Revival” della Generazione Z


È proprio nella mentalità della generazione Zoomer che si annida la vera speranza per il futuro. Lontano dalle polemiche, sta avvenendo una silenziosa ma significativa “rinascita spirituale cattolica” che rappresenta una preparazione al trionfo del cuore immacolato di Maria. Questa è la storia più importante del nostro tempo.

Questa rinascita è stata descritta con una metafora potente: è il “fuoco della vera fede” che “divampa” “sotto il ghiaccio ufficiale”. Mentre la superficie appare fredda, congelata dai conflitti interni, nelle profondità sta crescendo qualcosa di autentico, alimentato dai giovani.

Queste categorie, inoltre, sono più spirituali che anagrafiche. Come ha notato il commentatore Giulio Loredo, pur essendo anagraficamente un Boomer, si definisce un “anti-Boomer” che ha dedicato la vita a lottare per la Tradizione. E, rifiutando il disfattismo, si sente spiritualmente uno “Zoomer”, perché crede fermamente nella vittoria promessa dalla Madonna. L’analisi finale è sorprendente: il futuro non è definito né dalla leadership attuale (i Boomer), né dai suoi critici più accaniti (i Doomer). È modellato da una nuova generazione che sta aggirando i conflitti del passato per riscoprire le certezze senza tempo della fede.

Conclusione: Dove Brilla il Fuoco?

Leggere la crisi attuale attraverso la lente delle generazioni — Boomer, Doomer e Zoomer — non solo offre una straordinaria chiarezza, ma rivela anche un inatteso e profondo motivo di speranza. Ci mostra che le dinamiche più visibili e rumorose non sono necessariamente quelle che decideranno il futuro.

In un mondo ecclesiale segnato da queste correnti, la domanda non è solo a quale tribù apparteniamo, ma dove vediamo i segni di quel “grande incendio di conversione” predetto da San Luigi Maria Grignon da Monfort, che cova sotto la cenere. La vera partita si gioca lì, nel cuore di una generazione che ha smesso di guardare indietro con rabbia o nostalgia per cercare, con occhi nuovi, la Verità che non cambia.











Il “Sillabo” del vescovo Scheider nel suo ultimo libro



Dopo la pubblicazione del libro “Credo”, il vescovo Athanasius Schneider si occupa del versante opposto, ossia delle eresie, nel nuovo libro “Fuggite le eresie. Una guida cattolica agli errori antichi e moderni” (Fede & Cultura, Verona 2025).




Di Stefano Fontana, 2 dic 2025

Il libro propone una specie di dizionario delle eresie antiche e moderne. In una prima parte elenca e spiega gli errori dottrinali in senso cronologico, dall’era cristiana all’epoca attuale. In una seconda parte presenta eresie ed errori per ambiti tematici: su Dio e la Trinità, sulla creazione, sull’incarnazione, sulla Chiesa e così via. Una parte ulteriore del libro è costituta dalla devozione a “Maria distruttrice di tutte le eresie”. Poi ci sono delle appendici: il testo del Sillabo di Pio IX (1864), il decreto Lamentabili (1907) che si può chiamare il Sillabo di Pio X, il testo del Giuramento antimodernista e la “Dichiarazione sulle verità riguardanti alcuni degli errori più comuni nella vita della Chiesa dei nostri giorni” del 31 maggio 2019, firmata dallo stesso Schneider, dai cardinali Burke e Pujats, nonché dagli arcivescovi Peta e Lenga. Si può dire che questo documento sia un piccolo Sillabo per i nostri giorni.

Anche dalle sole appendici pubblicate si può capire che l’intento del libro è di ordine dottrinale, che recupera come punto di partenza gli insegnamenti preconciliari alla luce dei quali valuta poi quelli conciliari e postconciliari, che si propone un obiettivo di ripresa della tradizione della Chiesa. Tutto questo sembra esprimere indirettamente un giudizio preoccupato per le divisioni dottrinali interne alla Chiesa di oggi e per l’incertezza in cui vengono lasciati i fedeli su questioni di non poca importanza per la fede. Va riconosciuto che il libro ha una sua coraggiosa ruvidezza nel riproporre aspetti oggi trascurati o addirittura negati.

Soffermandoci qui principalmente sulla parte del libro che presenta gli errori per argomento, troviamo l’affermazione di verità oggi ritenute scabrose. Il testo procede per domande e risposte. In relazione al Documento sulla fratellanza universale firmato da Francesco il 4 febbraio 2019, la domanda chiede se Dio voglia o meno la varietà delle religioni presenti oggi del mondo, e la riposta è “No, non lo vuole” (p. 75). Circa il principio Extra Ecclesia nulla salus, considerato oggi con fastidio, Schneider afferma che per salvarsi è necessario appartenere alla Chiesa cattolica (p. 78). Alla domanda, immediatamente collegabile dal lettore al pontificato di Francesco, se qualsiasi atto di disobbedienza a un comando del Papa sia scismatico, la risposta è No e viene citato Sant’Atanasio di fronte a Papa Liberio (p. 81). Di notevole portata la risposta ad una domanda sul Vaticano II che chiede: “Perché il Vaticano II è il più chiaro esempio di un concilio ecumenico che ha emanato insegnamenti non infallibili?”. Ed ecco la risposta: “Perché non è stato convocato per pronunciare infallibilmente nuovi dogmi o proporre insegnamenti definitivi, ma per offrire una spiegazione pastorale delle verità della fede” (p. 87). Su collegialità e sinodalità (pp. 95-96) il giudizio è chiaro: è solo collegialità burocratica quella delle Conferenze episcopali e la sinodalità “per ora non ha dato alcun frutto di zelo apostolico”. Ci si imbatte anche – e come poteva essere diversamente? – nel tema della libertà religiosa (pp. 99-103). Alla domanda “Una coscienza irrimediabilmente erronea in ambito religioso stabilisce un diritto legittimo?”, Schneider risponde “No. La coscienza irrimediabilmente erronea scusa dal peccato quando la legge divina venga violata in conseguenza di questo errore, ma non può mai stabilire un diritto a tali violazioni”.

Un aspetto meritevole di attenzione del libro è che nell’elenco cronologico degli errori vengono esaminati anche quelli filosofici. Ci sono, per esempio, le voci Marxismo, Socialismo, Positivismo, Esistenzialismo, Femminismo e anche Transumanesimo.

Il libro ha la struttura del Sillabo un po’ in tutte le sue parti, dato che è dedicato alla condanna degli errori. Viene condannato anche il Balthasarianismo, ossia l’idea di Hans Urs von Balthasar che l’inferno è vuoto e che tutti si salveranno, e il Rahnerismo.

Non c’è dubbio che l’eresia oggi sia sottovalutata nei suoi effetti perniciosi. Nella nuova concezione storica ed ermeneutica del dogma, tutto, seppure a diversi livelli, è ritenuto in evoluzione e la tradizione si riduce ad essere la sedimentazione delle interpretazioni. Siccome poi la storia sembra procedere in modo dialettico, ecco che anche le eresie diventano momenti negativi ma salutari in quanto fluidificano il processo e impediscono la sua sclerotizzazione.

Il libro di Schneider nasce da una visione dell’eresia diversa a quella principalmente diffusa oggi e fa capire che molte incomprensioni dentro la Chiesa hanno radici profonde.






Il mistero non si abbassa per noi: ci invita a salire. E Maria Corredentrice, Mediatrice, Ausiliatrice continua a indicare la strada.




Quel che si diffonde nella massa a causa di una Chiesa non più Mater et Magistra e quanto, ciò nonostante, l'autentico 'sensus fidei fidelium' custodisce e diffonde a chi ha orecchi per intendere.


1 dicembre 2025


Zarish Imelda Neno

Ieri, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, ho vissuto un momento che mi ha ferita più di quanto avrei immaginato. Una persona ha chiesto alla commessa se esistesse qualcosa sul titolo di Maria “Corredentrice”. La risposta è stata fredda, quasi difensiva: «No, la Chiesa non riconosce quel titolo». Non era tanto il contenuto a colpire, ma la leggerezza con cui un mistero custodito per secoli veniva liquidato in pochi secondi. In quel momento ho capito che il problema non è il titolo: è il cuore che non vede più.

Siamo arrivati a un punto in cui tutto ciò che non è immediato, semplice, già impacchettato, viene considerato superfluo o addirittura problematico. Se un titolo richiede fede, profondità, formazione o contemplazione, lo scartiamo. Non perché sia sbagliato, ma perché noi non siamo più pronti a portarne il peso. E questo accade paradossalmente dentro una Basilica che proclama Maria come Ausiliatrice, un titolo che da solo mostra la potenza della sua intercessione. Accettiamo questo titolo senza difficoltà, ma quando si parla di “Mediatrice” o “Corredentrice”, improvvisamente si accende la paura.

La verità è che non temiamo i titoli: temiamo la profondità. Temiamo ciò che ci supera. Abbiamo perso l’umiltà dei cristiani di un tempo, quelli che non chiudevano il mistero perché non lo comprendevano, ma pregavano per comprenderlo. Oggi, invece, quando un titolo non è dogmaticamente definito, lo trattiamo come se fosse quasi sospetto. Ma la Chiesa non è mai vissuta solo di dogmi: è vissuta di fede, di Tradizione, di quella luce che Dio continua a dare anche fuori dalle definizioni ufficiali.

I Padri della Chiesa non avevano paura di chiamare Maria “causa di salvezza”. I santi non tremavano nel riconoscere la sua partecipazione unica alla missione del Figlio. I papi – da Pio X a Benedetto XV fino a Giovanni Paolo II, che il titolo di Corredentrice lo usò pubblicamente più volte – non avevano timore di esprimere ciò che la fede del popolo cristiano ha sempre saputo: Maria non è una figura decorativa accanto alla Croce. È la Madre che, con il suo sì libero, ha aperto le porte della Redenzione.
E allora perché oggi abbiamo paura di pronunciare ciò che la Chiesa ha detto per secoli?

Forse non è un problema teologico. Forse è un problema spirituale. Quando la fede si indebolisce, la prima cosa che cambia è il linguaggio. Non perché il linguaggio sia sbagliato, ma perché il cuore non lo regge più.

E così iniziamo a dire: “Meglio evitare questi titoli, potrebbero creare confusione”. Ma non sono i titoli a creare confusione: è la nostra mancanza di formazione, è la povertà del nostro sguardo, è la paura di dire che Maria ha partecipato alla Redenzione non da spettatrice, ma da Madre. “Corredentrice” non è competizione con Cristo: è comunione con Cristo. È il riconoscimento che Dio non salva l’uomo senza chiedere il sì dell’uomo. E quel sì – perfetto, libero, totale – lo ha pronunciato Maria.

“Mediatrice” non significa che Maria sostituisce Cristo: significa che Cristo, nella Sua sovranità, ha scelto di far passare attraverso la Madre le grazie che Lui stesso ci ha meritato. È una verità che non toglie nulla a Cristo: lo esalta. Perché mostra che la Redenzione non è una forza impersonale, ma un Avvenimento vissuto nell’amore.

Oggi, però, il nostro limite non è intellettuale: è spirituale. Non siamo più capaci di inginocchiarci davanti a un mistero. Vogliamo che tutto sia chiaro, breve, non impegnativo.
E se qualcosa chiede contemplazione, lo eliminiamo. Ma il mistero non si elimina: o lo accogli, o si chiude davanti a te.

Ed è così che nascono le divisioni: non perché Maria divida, ma perché noi non sappiamo più dialogare con il mistero. Da una parte chi custodisce la Tradizione; dall’altra chi teme di sembrare poco moderno. E per evitare discussioni, rinunciamo a intere porzioni della nostra fede. Ma Maria non divide: unisce. È il nostro cuore a essersi frammentato.

Alla fine, ciò che più mi fa male non è il rifiuto di un titolo, ma il rifiuto dell’altezza della nostra stessa fede. Siamo diventati poveri non perché abbiamo meno dogmi, ma perché abbiamo meno stupore. Maria non chiede di essere esaltata: chiede che si riconosca la verità del ruolo che Dio Le ha affidato. Se smettiamo di chiamarla come la Chiesa l’ha sempre chiamata, non stiamo modernizzando la fede: la stiamo rendendo più piccola di noi.

E allora mi permetto di dire con cuore sincero: non è il titolo di Corredentrice a essere difficile.
Siamo noi a essere diventati troppo piccoli per accoglierlo. Il mistero non si abbassa per noi: ci invita a salire. E Maria — Corredentrice, Mediatrice, Ausiliatrice — continua a indicare la strada. La strada che porta sempre a Cristo.



lunedì 1 dicembre 2025

Il “cattolicesimo” emozionale, il modernismo e le sue radici protestanti





by Aldo Maria Valli, 30 nov 2025

L’emozione al posto del dogma, l’aggiornamento al posto della tradizione. Il modernismo colpisce così. E porta all’autodistruzione


di Radical Fidelity

“L’amore di Dio è esigente, ed è per questo che le persone non vogliono il vero amore di Dio. Vogliono il sostituto umano, il cioccolato fondente. Nuotiamo tutti nel cioccolato, finché cadremo all’Inferno”.



Vescovo Richard Williamson

Sono cresciuto nel mondo del protestantesimo pentecostale e per anni sono rimasto cieco di fronte all’evidenza: tutto – letteralmente tutto – era costruito sulle emozioni. L’intero edificio religioso non poggiava sulla dottrina, non sulla verità, non sull’intelletto mosso dalla grazia, ma sulle instabili sabbie mobili dei sentimenti. Se “sentivi” qualcosa, allora “lo Spirito si muoveva”. Se non lo sentivi, allora lo Spirito non doveva essersi manifestato. La religione era ridotta a vibrazioni interiori e sbalzi d’umore.

La musica era il motore che guidava questa esperienza. Qualche canzone veloce, con un sottofondo di batteria, scatenava la congregazione in quella che poteva essere descritta solo come una semi-frenesia: questa era la “lode”. Poi arrivava l’inevitabile brano lento, sussurrato e sentimentale, pensato per attivare i dotti lacrimali e ammorbidire le difese: questa era l'”adorazione”. Solo dopo che la temperatura emotiva si era adeguatamente elevata, il predicatore saliva sul palco. Il suo compito? Costruire un altro crescendo emotivo, manipolare lo stato psicologico della folla fino a raggiungere l’apice della pressione. E al momento giusto, una dolce musica di sottofondo ricominciava, creando l’atmosfera perfetta per la “chiamata all’altare”. E devo forse sottolineare che non c’era l’altare?

Era una formula: prevedibile, meccanica e sorprendentemente efficace nel suscitare emozioni. Molti di questi pastori e i loro fedeli erano estremamente sinceri e non si rendevano nemmeno conto di essere coinvolti nel meccanismo.

Ma la religione emotiva ha un difetto fatale: non appaga mai. I sentimenti svaniscono. Le emozioni crollano. L'”esperienza della vetta” dura solo fino al mattino dopo, a volte solo fino al termine del canto. E così la gente esige una nuova euforia ogni domenica. La squadra musicale deve innovare, il predicatore deve esagerare, la teatralità deve intensificarsi. Tutto deve aumentare d’intensità. Se l’impatto emotivo vacilla anche solo per una funzione, la gente se ne va borbottando: “Oggi lo Spirito non c’era”.

Tutto ciò colma il vuoto lasciato dall’assenza di una vera dottrina. Il protestantesimo – essendosi separato dal dogma, dalla vita sacramentale, dall’autorità magisteriale stabilita da Cristo – non ha altra scelta che fare appello alle emozioni di chi “cerca”. Senza una verità oggettiva, tutto ciò che rimane è la ricerca di un sentimento. In questo modo, il protestantesimo diventa indistinguibile dalla cultura circostante: una caccia senza fine di stimoli sotto la dittatura del piacere.

Questa malattia culturale non è casuale. Viviamo in un sistema mondo – la matrice dell’Anticristo – in cui le persone sono condizionate fin dalla nascita a credere che il piacere sia il bene supremo e che il disagio, il sacrificio, la disciplina o la sofferenza siano mali da evitare a tutti i costi. Quando questa mentalità infetta la religione, il risultato è catastrofico. L’emotività diventa non solo il sostituto della verità, ma il suo nemico.

Questo credo edonistico è particolarmente diffuso tra i giovani, sebbene non sia affatto limitato a loro. La filosofia del “fai ciò che ti fa stare bene” è diventata il fondamento marcio della civiltà moderna. Alimenta il consumismo, demolisce la moralità oggettiva, avvelena l’istruzione, corrompe le relazioni e, cosa più tragica di tutte, si è infiltrata abbondantemente nella Chiesa cattolica.

Fin dal 1962, quando gli architetti della Nuova Religione abbandonarono il dogma cattolico e la verità oggettiva in cambio di un umanesimo sentimentale e di un relativismo ottimista, la Chiesa si avviò su un cammino di autodistruzione. Sotto la bandiera del loro idolo modernista – il dio dell’esperienza, il dio dell’emozione, il dio dell’aggiornamento perpetuo – sostituirono la sostanza con la sensazione, la dottrina con l’ambiguità, il sacrificio con la celebrazione e la verità con… i sentimenti.

Oggi stiamo assistendo alla fase finale della rivoluzione in quella che è conosciuta come la Chiesa sinodale: una religione democratizzata in cui tutti sono incoraggiati a “discernere” secondo ciò che “sembra giusto”, a “camminare insieme” in una nebbia emotiva collettiva e ad “ascoltare lo Spirito”, che in qualche modo parla sempre in perfetta armonia con lo spirito del tempo.

Sto semplificando? Forse. Ma perché complicare ciò che è palesemente evidente? L’emotività è il nuovo “Cristo”, e la Chiesa sinodale modernista lo ha incoronato re.

Il “cattolicesimo” emozionale, il modernismo e le sue radici protestanti

Una delle deformazioni spirituali più tragiche della nostra epoca è senza dubbio la trasformazione della religione in un esercizio di sentimentalismo. Il cattolicesimo, per molti, oggi ha cessato di essere una questione di rivelazione divina a cui l’intelletto si sottomette, ed è invece diventato un passatempo terapeutico caratterizzato da stimolazione emotiva, interpretazione personale e “calore” interiore. Lo si vede ovunque: la sostituzione del Crocifisso con la faccina sorridente, la sostituzione dei martiri con il “leader del culto, il prete DJ che strimpella la chitarra, la fine del dogma in cambio del sentimento soggettivo. Eccoci in una pseudo-religione emozionale che strappa la Fede dal suo fondamento soprannaturale e la trascina verso le instabilità del sentimento umano.

La Chiesa cattolica ha sempre insistito sul fatto che la fede è, prima di tutto, un atto dell’intelletto. San Tommaso d’Aquino esprime la posizione perenne della Chiesa con cristallina chiarezza quando scrive che “la fede risiede nell’intelletto” (“Summa theologiae”, II-II, q. 2, a. 9). Per Tommaso la fede è un atto intellettuale di assenso alla verità divina al comando della volontà, mossa dalla grazia di Dio. Non risiede affatto nelle emozioni, quei movimenti vacillanti e inaffidabili della natura umana decaduta che cambiano non solo di giorno in giorno, ma di ora in ora. Papa Leone XIII ha sintetizzato questa verità con ammirevole concisione quando ha scritto: “La fede non si basa sull’emozione, né su un cieco moto della volontà”. Le sue sole parole, se prese sul serio, sarebbero sufficienti a far crollare l’intero progetto modernista.

La mentalità emotiva così diffusa oggi non è un difetto spirituale di poco conto; è la radice della confusione moderna. Modernisti, appassionati di spiritualità e revisionisti teologici promuovono l’idea che la religione debba essere “vissuta” emotivamente per essere reale. Se i sentimenti scompaiono, presumono che ci sia qualcosa che non va, e non in loro stessi, ma nella dottrina, nella liturgia o nella tradizione. Procedono a rimodellare la Fede per adattarla ai loro stati d’animo, come uno che rimodella la sua casa ogni mattina perché la luce del sole cade in modo diverso.

Ma come avverte il grande dottore mistico san Giovanni della Croce, “non bisogna fidarsi dei sentimenti”. Essi, infatti, sono spesso spiritualmente pericolosi. Il diavolo può imitare le consolazioni per ingannare gli incauti. Santa Teresa d’Avila istruisce le anime a diffidare delle lacrime, della dolcezza e dell’impeto delle eccitazioni interiori, poiché la vera prova del progresso spirituale è la crescita della virtù, non la fluttuazione del sentimento. I santi capirono che la religione emotiva è una trappola, perché sposta il fondamento della fede dalla verità di Dio al proprio clima psicologico.

Anche i modernisti lo sanno, ed è proprio per questo che cercano di costruire sulle emozioni la loro nuova religione contraffatta. San Pio X, il più grande diagnostico dell’eresia nella Chiesa in età moderna, spiega nella “Pascendi” che per il modernista “la fede non è altro che un sentimento che nasce dal bisogno del divino”. Questo è il credo modernista nella sua essenza: Dio esiste perché lo sento; la Chiesa è vera perché mi sento legato a essa; la dottrina è valida perché si adatta alla mia esperienza emotiva. E quando questi sentimenti svaniscono, il modernista si limita a rivedere la dottrina, riscrivere la Scrittura, reinventare la morale, e dichiara che la Chiesa deve “aggiornarsi” in base ai suoi mutevoli bisogni emotivi.

Il dogma, per il modernista, diventa poesia simbolica, metafora del sentimento interiore, soggetto a cambiamento con l’evoluzione dei sentimenti stessi. Pio X lo denuncia con spietata chiarezza quando osserva che i modernisti considerano i dogmi meri “simboli del sentimento religioso” e quindi “mutevoli e relativi”.

Questa mentalità spiega tutto della rivoluzione modernista nella liturgia, nella catechesi, nella morale e nel governo della Chiesa. Basti considerare la trasformazione della liturgia dopo la metà del XX secolo: il canto gregoriano, concepito per calmare ed elevare l’anima, fu sostituito da ritmi pop concepiti per eccitarla; il silenzio fu sostituito da chiacchiere e applausi; la riverenza dalla teatralità. La stimolazione emotiva divenne oggetto di culto, non più un sottoprodotto accidentale della vera devozione. Una Messa concepita per santificare fu sostituita da una funzione religiosa concepita per intrattenere, perché la religione emotiva richiede stimolazione emotiva, e nulla stimola più rapidamente della musica, del rumore e dello spettacolo. In questo modo, la liturgia divenne il cavallo di Troia dei modernisti.

Non è un caso che il modernismo sia essenzialmente protestantesimo rivestito di vocabolario cattolico. Lo stesso san Pio X disse che il modernista “percorre la via del protestantesimo”, e la storia lo conferma. Il protestantesimo fu il primo grande esperimento di sostituzione dell’autorità oggettiva della Chiesa con l’autorità soggettiva del sentimento personale e dell’interpretazione privata. Il protestante dice: “Leggo la Bibbia e decido”. Il modernista dice: “Ho avuto un’esperienza religiosa e decido”. In entrambi i casi, l’arbitro finale della verità non è né la Scrittura né la Tradizione, ma il sentimento interiore dell’individuo.

Pio XI condannò l’emozionalismo protestante in “Mortalium animos”, osservando che esso riduce la fede “a un cieco impulso emotivo”. I modernisti fanno esattamente la stessa cosa, sebbene con più note a piè di pagina e meno inni. I protestanti aprirono la strada trattando la dottrina come flessibile, soggetta a reinterpretazione secondo il proprio senso interiore di ciò che sembra spiritualmente appropriato. I modernisti si limitarono a prendere quel principio e ad applicarlo alla Chiesa, corrompendo così la teologia cattolica dall’interno. Ma che arrivi dall’esterno o dall’interno, l’errore è lo stesso: la verità diventa una funzione del sentimento e la volontà di Dio diventa indistinguibile dalla volontà dell’uomo.

L’instabilità della religione emotiva non è meramente teorica; è osservabile. Una fede radicata nelle emozioni non può sopportare tentazioni, aridità, persecuzioni o persino la semplice noia. Quando la consolazione emotiva svanisce – come sempre accade – tale fede crolla. Ecco perché le confessioni protestanti si frammentano all’infinito, perché la teologia modernista cambia con le mode e perché i cattolici emotivisti passano da una moda spirituale all’altra. Al contrario, il Concilio di Trento insegna che la fede è l’accettazione della rivelazione divina “non perché appaia vera o sembri vera, ma perché Dio l’ha rivelata”. Questo tipo di fede è incrollabile. La fede emotiva non è affatto fede; è uno stato d’animo mascherato da un vocabolario religioso.

Contro tutto questo si erge l’immutabile tradizione cattolica. La Chiesa ha sempre insegnato – con chiarezza, coerenza, incrollabilità – che la verità non dipende da come la si percepisce. San Francesco di Sales distrugge l’approccio sentimentale con precisione chirurgica quando scrive che la vera devozione “non consiste in sensazioni di fremito”, e Pio XII riecheggia lo stesso principio quando nella “Humani generis” insegna che la vita cristiana “non è guidata da impulsi emotivi, ma dalla dottrina di Cristo”. Essere cattolici significa credere perché Dio ha parlato, non perché i propri sentimenti siano stati temporaneamente elevati.

I cattolici sentimentali cercano il calore. I cattolici tradizionali cercano la verità. Solo una di queste vie conduce alla salvezza.

Il vescovo Richard Williamson sull’emozionalismo nel cattolicesimo moderno

Pochi ecclesiastici contemporanei hanno parlato con tanta durezza e insistenza circa il pericolo dell’emotività nella religione come il defunto vescovo Richard Williamson (1940 – 2025). In conferenze e sermoni nel corso degli anni, questo gigante della fede è tornato più volte su quello che egli definisce l’errore centrale della coscienza cattolica moderna: la sostituzione di Dio con i sentimenti, della rivelazione con il sentimento, della fede con l’esperienza interiore.

In due delle sue conferenze che ho consultato per questo saggio – schiette, vivide e spietate – egli descrive il modernismo nientemeno che come la divinizzazione delle fluttuazioni del cuore umano. Il modernista, sostiene, non afferma che Dio parla all’uomo; piuttosto, afferma che l’uomo genera Dio dal profondo di sé. Come spiega: “Dio, i miracoli e le rivelazioni non esistono al di fuori di me né provengono da fuori di me… Devono venire da dentro. È logico. Partendo da premesse folli, si arriva a conclusioni folli.”

Questo è il principio dell’immanenza vitale: la convinzione che la religione non abbia origine dall’autorivelazione di Dio, ma dalla vita immediata del soggetto umano. Poiché la religione esiste, il modernista conclude che debba scaturire dal cuore umano. I sentimenti diventano quindi non solo parte della vita religiosa, ma la sua fonte e la sua regola. “La religione” – dice Williamson in tono beffardo – nasce dai bisogni dell’uomo. Oh, quanto sono belli i sentimenti del cuore! Sentimenti! Il cattolicesimo è fatto di piccoli sentimenti”.

Il contrasto che egli delinea rispetto al vero cattolicesimo non potrebbe essere più netto. Williamson sottolinea in particolare il mistero della Croce, dove le emozioni umane di Cristo furono spinte oltre ogni consolazione naturale: “Quali erano i sentimenti di Nostro Signore sulla Croce? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Pensava davvero che il Padre lo avesse abbandonato? Se l’avesse fatto, sarebbe sceso dalla Croce. No, è rimasto, perché non si tratta di sentimenti”.

Cristo ha redento il mondo con la fedeltà, non con il sentimento; con l’obbedienza, non con la tranquillità emotiva. Se la Croce insegna qualcosa, insiste Williamson, è che i sentimenti non possono governare la religione.

Da questo errore fondamentale – il trasferimento di Dio dal cielo alle profondità della soggettività umana – scaturisce una grottesca inversione dell’intero ordine soprannaturale. Williamson lo illustra con una sorprendente, volutamente scioccante caricatura della “rivelazione” modernista, in cui il credente si confronta con il Cristo storico, si sente interiormente commosso e poi proietta all’esterno il proprio bisogno emotivo. Ecco la sua indimenticabile descrizione: “Le mie viscere vibrano… Vomito Dio. Vomito l’oggetto della mia fede… Il mio Dio è ora davanti a me, e credo nel Dio che ho appena vomitato”.

Questa descrizione ha lo scopo non semplicemente di scandalizzare, ma di svelare la logica intrinseca del modernismo: l’uomo percepisce qualcosa di inspiegabile, lo chiama “Dio” e poi adora ciò che lui stesso ha prodotto. La rivelazione diventa un evento psicologico. La fede diventa proiezione emotiva. La verità soprannaturale diventa un processo circolare che inizia e finisce nell’io. “È orribile, ma questo è il modernismo”.

Una volta che la religione è ridotta a sentimento, la dottrina non può più essere stabile. Il dogma diventa, nelle parole di Williamson, “un mero simbolo inadeguato” del sentimento interiore, qualcosa che deve evolversi ogni volta che lo fanno le emozioni. Il modernista giudica la dottrina in base alla sua risonanza con il suo stato interiore: “I miei sentimenti sono la misura del dogma, non il dogma la misura dei miei sentimenti”.

Pertanto, poiché i sentimenti cambiano costantemente, i dogmi devono evolversi costantemente. Questo, sostiene Williamson, è il motivo per cui la liturgia moderna sprofonda così spesso nella teatralità. Non è che i nuovi riti siano concepiti per onorare Dio, ma per stimolare le emozioni dei presenti. Con un misto di umorismo e tristezza, il vescovo racconta un esempio particolarmente assurdo proveniente dagli Stati Uniti: “Nella domenica delle palme il parroco sale su una moto e percorre la navata, a imitazione di Nostro Signore che entra a Gerusalemme su un asino. E la gente esclama: adesso sì che sentiamo la domenica delle palme! L’anno prossimo arriverà dondolandosi su un trapezio. Ma questa è follia”.

Il problema non è semplicemente il cattivo gusto, ma la teologia invertita: se i sentimenti sono al centro della vita religiosa, allora il culto diventa intrattenimento e il santuario diventa un palcoscenico.

Per Williamson, le conseguenze vanno ben oltre i semplici espedienti liturgici. L’emotività, avverte, porta in ultima analisi all’abolizione del soprannaturale. Se la verità religiosa non è altro che la vita emotiva del credente, allora la grazia si riduce a psicologia; i sacramenti diventano gesti simbolici di autoespressione; la Scrittura diventa un tesoro di storie che “nutrono il mio istinto religioso”; e la Chiesa diventa un’assemblea democratica di persone con sensazioni spirituali simili. In un tale sistema, nulla dall’alto vincola l’uomo; al contrario, l’uomo si lega all’idolo che ha creato. “Tutto il soprannaturale emana dalla natura… Non c’è nulla di veramente soprannaturale nella religione cattolica… È tutto solo un mio prodotto, il prodotto del mio interno.”

Questa, per il vescovo Williamson, è la massima bestemmia dell’emozionalismo moderno: nega l’oggettività di Dio, la realtà della grazia, l’autorità della dottrina e la trascendenza della rivelazione. Sostituisce il Dio vivente con l’instabilità del sentimento umano.

La vera fede cattolica, al contrario, si fonda su realtà che provengono dall’esterno della persona umana: realtà rivelate da Dio, sostenute dalla ragione, trasmesse dalla tradizione e santificate dalla grazia. I sentimenti possono accompagnare queste realtà, ma non possono sostituirle. Come riassume Williamson con la sua caratteristica schiettezza: “La realtà non si basa sui sentimenti”.

In un’epoca in cui il cristianesimo viene sempre più reinterpretato come affermazione terapeutica, scoperta emotiva di sé o elevazione psicologica, la chiamata del compianto e bravo vescovo Williamson era ed è contro-culturale e profondamente tradizionale. La fede, insisteva, non è un’eco del cuore umano, ma una sottomissione alla mente divina. E se i cattolici non recuperano questa convinzione, continueranno a scivolare in una religione confortante, espressiva e devotamente sentimentale, ma non più cristiana.

Se la Chiesa vuole riprendersi dall’infiltrazione modernista di una pseudo-religione sentimentale, i cattolici devono adottare misure concrete. La prima è reimparare la fede: una vera catechesi, fondata sulla dottrina e non sull’elevazione psicologica. La seconda è tornare alla liturgia che forma i cattolici alla riverenza e all’oggettività piuttosto che all’emotività. La terza è rifiutare il linguaggio modernista che tratta il dogma come qualcosa da reinterpretare secondo l'”esperienza”. La quarta misura è praticare l’ascetismo, la cura più sicura contro l’illusione che i sentimenti siano affidabili. Infine i cattolici devono immergersi nell’insegnamento magisteriale preconciliare.

Ogni anima deve scegliere. Cristo o l’emotività. Dottrina o sentimentalismo. La Croce o la consolazione. La Chiesa o il tempo. La religione sentimentale del modernismo non produce santi. Produce consumatori spirituali che inseguono le vette emotive e crollano al primo segno di sacrificio. Cristo non ha detto: “I miei sentimenti non passeranno”, ma “Le mie parole non passeranno”. I cattolici che basano la loro fede su queste parole – sulla verità, non sulle emozioni – rimarranno saldi quando arriveranno le tempeste. E le tempeste sono arrivate.

“Guai ai sentimentali! Mentre i polli della malvagità senza precedenti tornano a casa per appollaiarsi in questa fine del nostro secolo maledetto, gli autoconsolatori dovranno intensificare la loro cecità volontaria per tenere il passo, finché solo un miracolo potrà aprire i loro occhi, e i miracoli non saranno dovuti a nessuno di noi”.


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Le due sessioni della conferenza dottrinale sulla “Pascendi” a cui faccio riferimento si sono svolte a Cork, in Irlanda, nel 2019. Articolate in sette sessioni, possono essere consultate qui. Uno scrigno di verità. Lo consiglio vivamente.

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