Con la sentenza che assolve Cappato e Mina Welby per istigazione al suicidio di Davide Trentini, compare come fondamento il diritto al suicidio come diritto di libertà. Trentini non dipendeva da macchinari per vivere e questo aspetto appariva decisivo per la responsabilità penale dei due imputati. Invece la Corte di Assise di Massa ha fatto cadere il paletto messo dalla Corte Costituzionale. La strumentalizzazione sul diritto a rifiutare le terapie viene abbandonata: quello al suicidio è un diritto di libertà, non c’entrano più medici, terapie, forme di sostegno vitale. Il cerchio si chiude per tutte le battaglie sui temi fondamentali che, dagli anni ’70, hanno insanguinato l’Italia.
L’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby da parte della Corte di Assise di Massa è uno snodo decisivo per capire il futuro percorso di legalizzazione dell’eutanasia nel nostro Paese.
La vicenda: Davide Trentini, 53 anni, era affetto da sclerosi multipla dal 1993; malattia incurabile e progressiva che gli procurava dolore intenso, che egli cercava di limitare con la marijuana e l’oppio. Il 13 aprile 2017, dopo essere stato accompagnato in Svizzera da Marco Cappato e Mina Welby, che lo avevano in precedenza aiutato a svolgere le “pratiche” necessarie, era stato “suicidato” in una clinica di Basilea. Di ritorno dalla Svizzera, Cappato e la Welby si erano autodenunciati, derivandone le imputazioni di istigazione e aiuto al suicidio.
La condizione di Trentini differiva da quelle di Fabiano Antoniani e di Piergiorgio Welby per un aspetto: egli non dipendeva da macchinari per vivere. L’aspetto appariva decisivo per la responsabilità penale dei due imputati: infatti, la Corte Costituzionale, con la sentenza pronunciata nel processo contro Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio, solo in presenza di quattro condizioni: la persona aiutata a suicidarsi deve essere: a) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; b) affetta da una patologia irreversibile, che deve essere c) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili e deve essere d) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La patologia cui era affetto Trentini era sicuramente irreversibile e fonte di gravi sofferenze, ma non vi era alcun macchinario – in particolare, egli non era assistito nella respirazione – che lo tenesse in vita.
Di questa differenza i due imputati erano ben consapevoli, avendo manifestato la volontà di abbattere uno dei “paletti” che la Corte aveva piantato per delimitare l’area di non punibilità ad “una circoscritta area” (come la sentenza n. 242 si premurava di sottolineare). A dire la verità, anche altri due “paletti” sono sembrati fragili e discutibili (dobbiamo attenderci altri processi in cui saranno messi in discussione): perché la patologia deve essere irreversibile? Anche coloro che hanno patologie curabili hanno diritto a rifiutare le terapie salvavita e le forme di sostegno vitale. E poi: quanto deve essere grave questa patologia? Quanto alle sofferenze, la sentenza utilizzava un criterio soggettivo (le “sofferenze che la persona reputa intollerabili”), cosicché potrebbero giustificare il suicidio anche sofferenze oggettivamente modeste e, soprattutto, di carattere psicologico.
Torniamo al paletto che si è abbattuto in questo processo: la necessità che l’aspirante suicida sia tenuto in vita da forme di sostegno vitale.
A ben vedere, qui corre il confine tra il suicidio “medicalizzato” e il suicidio puro e semplice. Quando la Corte di assise di Milano, che giudicava Cappato per la morte di Antoniani, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale aveva richiamato l’art. 13 della Costituzione, che recita: "la libertà personale è inviolabile"; aveva parlato, quindi, della "libertà di decidere quando e come morire" e di autodeterminazione dell'individuo: il diritto al suicidio veniva presentato come estrema espressione di libertà, che prescinde dalla condizioni e dai motivi della richiesta di morire.
La Corte Costituzionale aveva rigettato questa prospettazione: aveva negato l’esistenza di un diritto al suicidio, limitandosi (nelle sue intenzioni) ad un’applicazione particolare del diritto di rifiutare le terapie, previsto dall’art. 32 della Costituzione: poiché già la legge 219 del 2017 sul consenso informato permette di rifiutare terapie salvavita e sostegno vitale, la Corte manifestava l’intenzione di regolare un caso particolare per non far soffrire troppo e far morire rapidamente quelle poche persone che, rifiutando il sostegno vitale, morirebbero ugualmente. Non a caso, la sentenza prevedeva una procedura medico-burocratica: condizioni e modalità di esecuzione dovevano essere “verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale” ed occorreva il “parere del comitato etico territorialmente competente”. La Corte richiamava le procedure previste dalla legge 219 sul colloquio tra il paziente che rifiuta le terapie e il medico e sottolineava la necessità di prestare le cure palliative.
La sentenza di Massa, da quello che si comprende dal dispositivo, spazza via tutto questo. Benché medicalmente assistito (riceveva dalla ASL competente anche la marijuana a scopo terapeutico), Trentini aveva deciso di morire e per farlo ne aveva parlato con Cappato e Welby; il suo obiettivo era stato raggiunto senza lo spegnimento di nessun macchinario né, tanto meno, verifica da parte di medici o strutture sanitarie.
E allora, quando è lecito aiutare qualcuno al suicidio? Non ci facciamo confondere dalla patologia e dalla sofferenza di Trentini: chi chiede di morire è ovviamente portatore di grande sofferenza, rispetto alla quale non vede una via di uscita; ma questa sofferenza può essere anche psicologica. Non è difficile, quindi, intravedere il ragionamento per cui chi chiede di essere aiutato a morire evidentemente ha una sofferenza da lui reputata intollerabile e quindi ha diritto di essere aiutato a suicidarsi.
Ricompare – questa volta non come semplice prospettazione, ma come fondamento della sentenza di assoluzione – il diritto al suicidio come diritto di libertà, come massima espressione dell’autodeterminazione dell’individuo.
Cosa farà la Corte Costituzionale? Ovviamente nulla, perché i giudici di Massa si sono ben guardati da sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale e, semplicemente, hanno utilizzato la sentenza e hanno iniziato ad allargare le maglie, abbattendo i paletti. Pensate che i giudici della Corte si preoccuperanno? Beh, se ricordiamo che, nella sentenza 242, la Corte, per sottolineare la propria attenzione ad impedire abusi, aveva menzionato la propria sentenza n. 27 del 1975 sull’aborto, vantandosi di avere imposto al legislatore limiti severi e fingendo di non sapere che quei “paletti” hanno portato ad una liberalizzazione totale …
Insomma: il ciclo si chiude. La strumentalizzazione che, da decenni, viene fatta dell’articolo 32 della Costituzione, sul diritto a rifiutare le terapie, avendo raggiunto il suo scopo – con la legge 219 sul consenso informato e con la sentenza 242 della Corte Costituzionale – viene abbandonata: quello al suicidio è un diritto di libertà, non c’entrano più medici, terapie, forme di sostegno vitale (ricordate le discussioni infinite sul fatto che Eluana Englaro era sottoposta a terapia perché nutrita con il sondino nasogastrico?); chi soffre e chiede di essere aiutato a morire ne ha il diritto e chi lo aiuta è esente da responsabilità. La chiusura del ciclo vale anche per tutte le battaglie sui temi fondamentali che, dagli anni ’70, hanno insanguinato l’Italia: significa qualcosa il fatto che la prima proposta di legge sulla legalizzazione dell’eutanasia fu firmata da Loris Fortuna, padre della legge sul divorzio?
Verrebbe da osservare: perché preoccuparsi tanto? Trentini, come Antoniani, soffriva tanto e, con l’aiuto al suicidio, per lui sono cessate le sofferenze. Per usare un argomento già conosciuto: nessuno ti costringe a suicidarti, che male c’è se questo avviene per chi lo chiede (secondo Mina Welby ci sono 900 persone in attesa)?
Le osservazioni ad una posizione come questa possono essere molteplici: penso ad una riflessione sulla società che, di fronte alla sofferenza, ormai non sa dare risposte di speranza ma preferisce indicare la via di uscita; penso ai giudici (non solo quelli professionali: una Corte di assise è composta in maggioranza da giudici popolari, cittadini normali), che sembrano non comprendere l’esito inevitabile di questa corsa alla scoperta di nuovi diritti.
Propongo una riflessione diversa: la pillola della morte proposta in altri Paesi per i settantenni. Nel processo di Massa, Cappato e Welby sono stati assolti dall’imputazione di istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste: quindi essi non avevano indotto Trentini a chiedere il suicidio, egli era libero nella sua decisione; è il quarto “paletto” piantato dalla Corte Costituzionale per ritenere lecito l’aiuto al suicidio (la persona deve essere “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”); lo stesso è avvenuto nel processo per la morte di Antoniani. Anche la legge 219 prevede che il rifiuto alle terapie salvavita debba provenire da soggetto libero e consapevole. Il problema è che questa “libertà” (già è contraddittorio parlare di “libertà di morire”) è diventata un presupposto, un dato che non viene accertato.
Eppure, il rischio della legalizzazione dell’aiuto al suicidio sta proprio qui, come la stessa Corte Costituzionale aveva ribadito: “Il divieto di aiuto al suicidio conserva una evidente ragion d’essere nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine […] occorre scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere […] il rischio è che il suicidio avvenga senza alcun controllo sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti".
Quanto sono liberi quegli anziani cui, dopo lo scoccare dei 70 anni, viene proposta la pillola della morte? E gli anziani malati lasciati soli nelle case di riposo o negli ospedali?
Davvero siamo di fronte ad un nuovo passo nel riconoscimento dei diritti delle persone?
Giacomo Rocchi
La vicenda: Davide Trentini, 53 anni, era affetto da sclerosi multipla dal 1993; malattia incurabile e progressiva che gli procurava dolore intenso, che egli cercava di limitare con la marijuana e l’oppio. Il 13 aprile 2017, dopo essere stato accompagnato in Svizzera da Marco Cappato e Mina Welby, che lo avevano in precedenza aiutato a svolgere le “pratiche” necessarie, era stato “suicidato” in una clinica di Basilea. Di ritorno dalla Svizzera, Cappato e la Welby si erano autodenunciati, derivandone le imputazioni di istigazione e aiuto al suicidio.
La condizione di Trentini differiva da quelle di Fabiano Antoniani e di Piergiorgio Welby per un aspetto: egli non dipendeva da macchinari per vivere. L’aspetto appariva decisivo per la responsabilità penale dei due imputati: infatti, la Corte Costituzionale, con la sentenza pronunciata nel processo contro Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio, solo in presenza di quattro condizioni: la persona aiutata a suicidarsi deve essere: a) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; b) affetta da una patologia irreversibile, che deve essere c) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili e deve essere d) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La patologia cui era affetto Trentini era sicuramente irreversibile e fonte di gravi sofferenze, ma non vi era alcun macchinario – in particolare, egli non era assistito nella respirazione – che lo tenesse in vita.
Di questa differenza i due imputati erano ben consapevoli, avendo manifestato la volontà di abbattere uno dei “paletti” che la Corte aveva piantato per delimitare l’area di non punibilità ad “una circoscritta area” (come la sentenza n. 242 si premurava di sottolineare). A dire la verità, anche altri due “paletti” sono sembrati fragili e discutibili (dobbiamo attenderci altri processi in cui saranno messi in discussione): perché la patologia deve essere irreversibile? Anche coloro che hanno patologie curabili hanno diritto a rifiutare le terapie salvavita e le forme di sostegno vitale. E poi: quanto deve essere grave questa patologia? Quanto alle sofferenze, la sentenza utilizzava un criterio soggettivo (le “sofferenze che la persona reputa intollerabili”), cosicché potrebbero giustificare il suicidio anche sofferenze oggettivamente modeste e, soprattutto, di carattere psicologico.
Torniamo al paletto che si è abbattuto in questo processo: la necessità che l’aspirante suicida sia tenuto in vita da forme di sostegno vitale.
A ben vedere, qui corre il confine tra il suicidio “medicalizzato” e il suicidio puro e semplice. Quando la Corte di assise di Milano, che giudicava Cappato per la morte di Antoniani, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale aveva richiamato l’art. 13 della Costituzione, che recita: "la libertà personale è inviolabile"; aveva parlato, quindi, della "libertà di decidere quando e come morire" e di autodeterminazione dell'individuo: il diritto al suicidio veniva presentato come estrema espressione di libertà, che prescinde dalla condizioni e dai motivi della richiesta di morire.
La Corte Costituzionale aveva rigettato questa prospettazione: aveva negato l’esistenza di un diritto al suicidio, limitandosi (nelle sue intenzioni) ad un’applicazione particolare del diritto di rifiutare le terapie, previsto dall’art. 32 della Costituzione: poiché già la legge 219 del 2017 sul consenso informato permette di rifiutare terapie salvavita e sostegno vitale, la Corte manifestava l’intenzione di regolare un caso particolare per non far soffrire troppo e far morire rapidamente quelle poche persone che, rifiutando il sostegno vitale, morirebbero ugualmente. Non a caso, la sentenza prevedeva una procedura medico-burocratica: condizioni e modalità di esecuzione dovevano essere “verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale” ed occorreva il “parere del comitato etico territorialmente competente”. La Corte richiamava le procedure previste dalla legge 219 sul colloquio tra il paziente che rifiuta le terapie e il medico e sottolineava la necessità di prestare le cure palliative.
La sentenza di Massa, da quello che si comprende dal dispositivo, spazza via tutto questo. Benché medicalmente assistito (riceveva dalla ASL competente anche la marijuana a scopo terapeutico), Trentini aveva deciso di morire e per farlo ne aveva parlato con Cappato e Welby; il suo obiettivo era stato raggiunto senza lo spegnimento di nessun macchinario né, tanto meno, verifica da parte di medici o strutture sanitarie.
E allora, quando è lecito aiutare qualcuno al suicidio? Non ci facciamo confondere dalla patologia e dalla sofferenza di Trentini: chi chiede di morire è ovviamente portatore di grande sofferenza, rispetto alla quale non vede una via di uscita; ma questa sofferenza può essere anche psicologica. Non è difficile, quindi, intravedere il ragionamento per cui chi chiede di essere aiutato a morire evidentemente ha una sofferenza da lui reputata intollerabile e quindi ha diritto di essere aiutato a suicidarsi.
Ricompare – questa volta non come semplice prospettazione, ma come fondamento della sentenza di assoluzione – il diritto al suicidio come diritto di libertà, come massima espressione dell’autodeterminazione dell’individuo.
Cosa farà la Corte Costituzionale? Ovviamente nulla, perché i giudici di Massa si sono ben guardati da sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale e, semplicemente, hanno utilizzato la sentenza e hanno iniziato ad allargare le maglie, abbattendo i paletti. Pensate che i giudici della Corte si preoccuperanno? Beh, se ricordiamo che, nella sentenza 242, la Corte, per sottolineare la propria attenzione ad impedire abusi, aveva menzionato la propria sentenza n. 27 del 1975 sull’aborto, vantandosi di avere imposto al legislatore limiti severi e fingendo di non sapere che quei “paletti” hanno portato ad una liberalizzazione totale …
Insomma: il ciclo si chiude. La strumentalizzazione che, da decenni, viene fatta dell’articolo 32 della Costituzione, sul diritto a rifiutare le terapie, avendo raggiunto il suo scopo – con la legge 219 sul consenso informato e con la sentenza 242 della Corte Costituzionale – viene abbandonata: quello al suicidio è un diritto di libertà, non c’entrano più medici, terapie, forme di sostegno vitale (ricordate le discussioni infinite sul fatto che Eluana Englaro era sottoposta a terapia perché nutrita con il sondino nasogastrico?); chi soffre e chiede di essere aiutato a morire ne ha il diritto e chi lo aiuta è esente da responsabilità. La chiusura del ciclo vale anche per tutte le battaglie sui temi fondamentali che, dagli anni ’70, hanno insanguinato l’Italia: significa qualcosa il fatto che la prima proposta di legge sulla legalizzazione dell’eutanasia fu firmata da Loris Fortuna, padre della legge sul divorzio?
Verrebbe da osservare: perché preoccuparsi tanto? Trentini, come Antoniani, soffriva tanto e, con l’aiuto al suicidio, per lui sono cessate le sofferenze. Per usare un argomento già conosciuto: nessuno ti costringe a suicidarti, che male c’è se questo avviene per chi lo chiede (secondo Mina Welby ci sono 900 persone in attesa)?
Le osservazioni ad una posizione come questa possono essere molteplici: penso ad una riflessione sulla società che, di fronte alla sofferenza, ormai non sa dare risposte di speranza ma preferisce indicare la via di uscita; penso ai giudici (non solo quelli professionali: una Corte di assise è composta in maggioranza da giudici popolari, cittadini normali), che sembrano non comprendere l’esito inevitabile di questa corsa alla scoperta di nuovi diritti.
Propongo una riflessione diversa: la pillola della morte proposta in altri Paesi per i settantenni. Nel processo di Massa, Cappato e Welby sono stati assolti dall’imputazione di istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste: quindi essi non avevano indotto Trentini a chiedere il suicidio, egli era libero nella sua decisione; è il quarto “paletto” piantato dalla Corte Costituzionale per ritenere lecito l’aiuto al suicidio (la persona deve essere “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”); lo stesso è avvenuto nel processo per la morte di Antoniani. Anche la legge 219 prevede che il rifiuto alle terapie salvavita debba provenire da soggetto libero e consapevole. Il problema è che questa “libertà” (già è contraddittorio parlare di “libertà di morire”) è diventata un presupposto, un dato che non viene accertato.
Eppure, il rischio della legalizzazione dell’aiuto al suicidio sta proprio qui, come la stessa Corte Costituzionale aveva ribadito: “Il divieto di aiuto al suicidio conserva una evidente ragion d’essere nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine […] occorre scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere […] il rischio è che il suicidio avvenga senza alcun controllo sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti".
Quanto sono liberi quegli anziani cui, dopo lo scoccare dei 70 anni, viene proposta la pillola della morte? E gli anziani malati lasciati soli nelle case di riposo o negli ospedali?
Davvero siamo di fronte ad un nuovo passo nel riconoscimento dei diritti delle persone?
Giacomo Rocchi