Per comprendere in profondità la natura e la funzione dell’altare nella liturgia cattolica è indispensabile una adeguata indagine storica sulla sua origine e sul suo coerente sviluppo. Essa tuttavia non basterà. Infatti, si potranno capire le successive scelte storiche in ordine all’altare approfondendo la teologia sottesa, in base alla quale l’altare assunse forme e arredi consoni alla visione teologica che si voleva trasmettere.
Mensa, Ara e Croce.
E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento. Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito umanitario ed usuale. In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua. Senza quella vittima sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra. Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena pasquale. Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello. Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino. E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce.
La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore Fate questo in memoria di me. Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine - Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante del Salvatore.
A questo punto si comprende bene perché la Chiesa, avuta la libertà religiosa (IV sec.) poté procedere alla costruzione dell’altare cristiano nel modo che la storia e l’arte ci attestano. Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo. Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candida tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del Signore potè essere rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al contempo la sua Morte, la sua Risurrezione, la sua Ascensione e la sua mirabile Venuta nella gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente proprio sulla mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si attualizzava sacramentalmente.
L’altare sta in alto.
L’altare sta in alto e se non eleva perde la sua natura più vera. Si può in tal modo affermare una semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico e pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo accedere all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel tempio di Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26). Ma è soprattutto nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare, il sacrificio, che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione alquanto elevata dell’altare. Nell’offerta del sacrificio si cerca il rapporto con Dio, ci si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi verso il cielo, lì dove l’intuito religioso universale contempla il trono di Dio: il corpo sale i gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto, lo sguardo fissa le profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più spontanee che il sacerdote assume nell’azione sacrificale, ed è logico che tale spinta interiore sia tradotta visibilmente nei gesti del corpo e fissata materialmente nella posizione alta e maestosa dell’altare.