lunedì 31 dicembre 2012

Il culto divino nel cristianesimo e nelle altre religioni





Il presente articolo è uscito, parzialmente tagliato, sulla rivista “Liturgia Culmen et Fons”. Lo presentiamo qui nella sua versione integrale.


di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Sappiamo quante difficoltà e quanti equivoci esistono circa la questione del rapporto del cristianesimo con le altre religioni, venuta particolarmente alla luce a seguito degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in special modo nella “Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” (Nostra aetate).
Non era mai accaduto che il Magistero solenne della Chiesa, qual è quello che proviene da un Concilio ecumenico, si esprimesse in tono così positivo sulle religioni non-cristiane, mentre sin dalle sue origini la Chiesa ha sempre usato toni severi verso le altre religioni, non escluso l’ebraismo, del resto facendo capo agli stessi testi scritturistici, dove troviamo per esempio le seguenti parole di S.Paolo: “i sacrifici dei pagani sotto fatti a demòni” (I Cor 10,20).

Il Concilio ovviamente non smentisce le precedenti condanne o disapprovazioni e tuttavia, secondo l’impostazione generale del Concilio stesso, ci offre dei punti di contatto fra cristianesimo e religioni, soprattutto la religione ebraica, per la quale ha parole di particolare stima. “La Chiesa cattolica – si dice – nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni”, anche se ribadisce che solo in Cristo “gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa” e solo in Lui “Dio ha riconciliato a sé tutte le cose” (n.2).
Questa visione ampia e magnanima del Concilio suppone evidentemente che l’uomo come tale, a qualunque tempo o cultura o popolo appartenga, senta l’esigenza, in varie forme, magari anche difettose e superstiziose o magiche, di render culto alla divinità, anche se non ne ha ben chiaro il concetto, praticando o il politeismo o l’idolatria o culti cosmici, satanici, ctonici[1], animisti, totemistici, sciamanistici[2] o panteistici.

Esiste dunque una forma di religione, come espressione naturale seppur diversificata della coscienza umana in tutti i popoli e in tutti i tempi, e che si è convenuto di chiamare “religione naturale”[3], frutto del naturale senso del sacro e della ragion pratica la quale, sulla base della consapevolezza razionale dell’esistenza di Dio o comunque della divinità, sente il dovere di render loro culto in appositi riti o cerimonie – ecco la liturgia -, offrendo voti, doni, sacrifici e preghiere al fine di rendersi propizia la divinità, di purificarsi o di espiare le proprie colpe, di ottenere salvezza, luce, benefìci, potere, felicità, grazie, favori e misericordia.
La religione come atto umano è così una virtù, come dimostra S.Tommaso, appartenente all’ambito della “giustizia”, benchè in senso solo analogico, in quanto “giustizia” verso Dio, anche se poi in fin dei conti questa nostra giustizia non è tanto effetto delle nostre opere, quanto piuttosto della grazia di Dio. Ed ecco qui inserirsi la religione cristiana, che non è più opera dell’uomo ma opera di Dio.

Infatti il cristianesimo è sorto bensì sulla base e sul presupposto non solo della religione naturale, ma ancor più della religione dell’Antica Alleanza, la quale si pone su di un piano superiore a quello della semplice religione naturale, trattandosi di una religione rivelata da Dio stesso, nella quale cioè Egli insegna ad Israele, attraverso Abramo, Mosè e i Profeti, come vuole essere conosciuto, onorato, adorato, coltivato e pregato. Con la religione veterotestamentaria siamo già sul piano della religione rivelata o soprannaturale, da alcuni chiamata anche “positiva”, intendendo con questa espressione il fatto che essa si basa appunto su credenze, riti, usanze, norme, regole, sacri segni, simboli, statuti ed istituzioni considerati come dettati da Dio stesso.

Indubbiamente – e ciò è stato ulteriormente chiarito dal recente documento della Congregazione per la Dottrina della Fede “Dominus Iesus” – il cristianesimo è la religione più perfetta ed anzi assolutamente perfetta, priva in sè di qualunque errore, carenza, difetto o superstizione, eccellente scuola di santità, in quanto, unica tra tutte le altre, compresa quella giudaica, è stata fondata per mandato di Dio Padre nella potenza dello Spirito Santo dallo stesso Figlio di Dio, il quale, come insegna la Lettera agli Ebrei, ha finalmente offerto un sacrificio a Dio Padre effettivamente efficace e pegno di vita eterna per tutta l’umanità, perché è stato ed è – pensiamo soprattutto alla liturgia eucaristica – il sacrificio del Figlio di Dio incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo, mentre i sacrifici dell’Antica Alleanza, per quanto voluti e benedetti da Dio, erano solo simbolici e prefigurativi rispetto all’avvento dell’unico divin sacrificio di Cristo.

Sempre secondo la dottrina della Chiesa, le altre religioni, compresa quella ebraica, derivano comunque da Cristo e conducono a Cristo, anche se i loro fedeli in buona fede non lo sanno, appunto perché nel piano della salvezza Cristo è l’unico Salvatore. E quando si dice Cristo si dice anche la Chiesa Cattolica, essa pure sotto Cristo e per volontà di Cristo via necessaria di salvezza per tutti, come ha definito il Concilio di Firenze del 1442, anche se poi il Magistero moderno della Chiesa a partire dal Beato Pio IX chiarirà la possibilità di salvezza anche per coloro che in buona fede non sanno dell’esistenza della Chiesa. Tuttavia ciò non esclude la necessità di appartenere alla Chiesa. Si distinguerà allora un’appartenenza visibile e conscia da un’appartenenza invisibile ed inconscia, valida, questa, per i non-cattolici onesti e in buona fede.

Questa comune appartenenza del cristianesimo e delle altre religioni alla categoria generale di “religione”, con i suoi valori universali, è ciò che consente quel dialogo interreligioso al quale la Chiesa, sulla scorta del Concilio, oggi tiene come non mai. Tuttavia è chiaro che il punto di contatto è la religione naturale, effetto spontaneo, come ho detto, della sana ragione e del bisogno di Assoluto, e quindi in linea di principio condivisibile da tutti gli uomini in quanto esseri razionali, benchè sappiamo poi bene come di fatto tanti manchino di equilibrio o buon senso nei confronti della religione o perché ne esagerano la portata o l’importanza (bigottismo, fanatismo, fideismo, facile credulità, pietismo) o la falsificano (idolatria, magia, riti massonici, spiritismo, satanismo, superstizione) o perché all’estremo opposto la disprezzano (atei, materialisti, bestemmiatori, empi).

Un errore in questo campo che merita speciale attenzione è la concezione del Padre Giuseppe Barzaghi circa il rapporto tra cristianesimo e religione (e quindi religioni). Egli è giustamente preoccupato di sottolineare l’immensa dignità della vita cristiana, quella che i Padri greci chiamavano “divinizzazione” dell’uomo (theosis) mediante la grazia di Cristo.

Per questo egli vede il cristianesimo non tanto come una religione quanto piuttosto come una vita divina effetto delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. “La cosa che mi infastidisce – dice Padre Barzaghi – è la confusione fra Cristianesimo e religione”[4]. Il cristianesimo, egli dice, non è conquista dell’uomo ma dono di Dio e vita divina. Sin qui tutto va bene.

Ma poi Barzaghi eccede in modo intollerabile in questo distanziamento del cristianesimo dalla religione, al punto d’affermare che “religione cristiana è una contraddizione in termini”[5]. Il cristianesimo non sarebbe una religione, ma sarebbe una “fede”, dove poi per fede in altre opere Barzaghi intende il “Pensiero puro”, o “puro atto del pensiero”, concetto desunto dalla filosofia di Giovanni Gentile. “Il Cristianesimo, secondo Barzaghi, si configura con caratteristiche diametralmente opposte a quelle della religione … Se esiste un culto cristiano – i sacramenti – , questo non consiste nella coltivazione di Dio da parte dell’uomo, quanto piuttosto nella coltivazione dell’uomo da parte di Dio”[6].

La conseguenza logica di queste false premesse è ovviamente altrettanto falsa, perché viene a negar senso all’apologetica che si propone di dimostrare qual è la vera religione[7] evidentemente sulla base di valori religiosi comunemente ammessi, nonché al dialogo interreligioso promosso dal Concilio ed infine toglie fondamento anche al diritto alla libertà religiosa, sul quale oggi tanto insiste la Chiesa, ed è accolto anche dagli Stati moderni, inquantoché ciò presuppone evidentemente una comune nozione di religione (propria della legislazione civile sia per quanto riguarda il cristianesimo che per quanto riguarda le altre religioni).
Dice infatti Barzaghi: “Cristianesimo e religione sono due realtà assolutamente disomogenee e dunque imparagonabili … nel senso che si tolga di mezzo l’idea del cimento o confronto bellicoso tra religione cristiana e altre religioni: qual è la vera religione? Dico che il cimento o confronto viene tolto perché, se il Cristianesimo non è religione nel senso cultuale del termine, non ha senso paragonarlo con ciò che appartiene a questo ordine di cose. … Non ha senso il paragone tra Cristianesimo e le altre religioni, perché il Cristianesimo non è religione, nel senso precisato di virtù cultuale”[8].

Osservo che si può e si deve parlare di un’analogia tra religione naturale e culto cristiano, ma non assolutamente di “imparagonabilità” o addirittura “opposizione”, il che porta a togliere dal culto cristiano il suo elemento naturale, umano ed esterno, che invece gli è assolutamente essenziale, come presupposto all’aspetto soprannaturale fondato sulla Rivelazione e sulla fede.
Quello che è erroneo in modo speciale nella visione di Barzaghi, col suo intollerabile dualismo cristianesimo-religione, è il disprezzo nel quale getta la religione dell’Antica Alleanza, catalogata sbrigativamente tra le varie religioni del mondo alla pari di esse e senza riconoscere l’eminente ruolo preparatorio che essa ha avuto ed ha nei confronti della religione cristiana: un atteggiamento antisemitico oggi del tutto al di fuori della storia e della verità. Queste idee potevano andar bene a Giovanni Gentile durante il fascismo ma non nella Chiesa di oggi a 50 anni dal Concilio Vaticano II !

Nel culto cristiano ciò che l’uomo fa per onorare Dio si incontra e non si scontra con ciò che Dio fa per salvare e divinizzare l’uomo. Altrimenti volendo in modo così indiscreto ridurre il culto cristiano ad un “atto divino”, come esprime lo stesso Barzaghi[9], accantonando l’umano, si finisce in realtà per assorbire l’umano nel divino, umano che comunque non può essere assente e quindi si finisce per confondere l’umano col divino, cadendo in un fideismo panteista, che dimentica che la grazia suppone la natura e la fede suppone la ragione.
Così la religione cristiana suppone la religione naturale. La liturgia cristiana suppone una dimensione naturale e sociale che esprime il naturale senso del sacro ed è regolamentata dagli usi, dalle tradizioni e dalla norme della Chiesa.

Questo falso soprannaturalismo in campo liturgico che lascia l’umano in balia del relativismo e quindi dell’arbitrio, è una spiegazione molto plausibile, anche se non l’unica, dell’attuale disordine liturgico che nasce da un falso interiorismo anche di sapore protestante, per cui con la scusa dell’interiorità e magari di un appello allo Spirito Santo, ci si permette ogni atteggiamento arbitrario, anche se contrario al preciso dettato del Magistero della Chiesa, della Sacra Scrittura e della Sacra Tradizione.

Per quanto riguarda i sacramenti, essi hanno per la verità entrambi gli aspetti: sono “coltivazione dell’uomo da parte di Dio”, ma anche indissolubilmente coltivazione di Dio da parte dell’uomo, ossia hanno certo come aspetto precipuo il fatto di essere canali della grazia, ma sono questo in quanto operano servendosi di atti umani compiuti dal ministro del sacramento nel rispetto delle norme dalla liturgia e di quanto ha positivamente stabilito il Signore.
Inoltre, con le idee di Barzaghi si può cadere anche nell’indifferentismo religioso, in quanto l’elemento naturale della religione cristiana perde il suo primato tra le altre religioni, non è più il paradigma col quale distinguere in esse il vero e il falso, come invita a fare il Concilio, ma l’elemento religione nel cristianesimo, staccato dall’essenza del culto cristiano, diventa qualcosa di relativo o facoltativo, per non dire di nocivo, e comunque viene a valere altrettanto bene quanto qualunque altra religione, per cui lo stesso cristiano appare libero di assumere nel culto cristiano elementi di altre religioni senza preoccuparsi – ecco il sincretismo – se questi siano assimilabili al cristianesimo perchè si parte dal presupposto che comunque non lo sono (sono “imparagonabili”).

Da qui la libertà data a ciascuno – ecco il soggettivismo – di fare la liturgia che gli salta in mente, ed ecco abbiamo la spiegazione “teologica” del caos liturgico del quale oggi soffriamo, magari con la scusa del pluralismo e delle relatività – ecco il relativismo – delle forme umane ed esteriori del culto.
Naturalmente il confronto non deve comportare nessuna “bellicosità”, come purtroppo è avvenuto nel passato, anche se ci si dovrà difendere da certe forme integraliste come per esempio l‘islamismo, ma il timore dello scontro o dell’intolleranza non deve condurci a negare l’utilità ed anzi la doverosità di un confronto, che va fatto con le dovute regole del dialogo, oggi ben note sin dall’enciclica di Paolo VI “Ecclesiam suam”.

Il fine del cristianesimo è certamente la “divinizzazione” dell’uomo, da intendersi peraltro senza troppo calcare la mano come fa Barzaghi, rischiando il panteismo, ma tenendo presente che l’uomo non si risolve in un semplice “sguardo di Dio”, ma comporta nella sua natura ilemorfica creata da Dio anche una dimensione di limitatezza e di storicità, nonché, a causa del peccato originale, una tendenza al male ed alla ribellione a Dio, cose che non sono estrinseche o accidentali alle esigenze del culto o al quadro esistenziale nel quale esso si pone, ma sono tutti elementi dei quali il vero culto cristiano tiene saggiamente conto, proprio al fine di elevare l’uomo, mediante il Sacrificio della Croce, alla vita di figlio di Dio partecipe della natura divina.




[1] I culti ctonici sono culti i quali suppongono che le divinità siano sotterranee.
[2] E’ quella religione, di tipo terapeutico, la quale vede una forza divina negli animali.
[3] Un’ottima esposizione del valore della religione in generale nel suo confronto con la religione cristiana si trova nel saggio del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP (1950-1990), La rivelazione soprannaturale. Trattato di teologia fondamentale (Prima parte), in Fides Catholica, Rivista di Apologetica Teologica, Anno VII, 1, 2012, pp.49-86.
[4] Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Edizioni ESD, Bologna 2012, p.28.
[5] Ibid., p.29.
[6] Ibid., p.30.
[7] Ricordiamo il famosissimo e fondamentale “De vera religione” di S.Agostino.
[8] Ibid.,p.31.
[9] Ibid., p.30.


Libertà e Persona    30 dicembre 2012



domenica 30 dicembre 2012

La garanzia dell'Incarnazione


All'inizio dell'anno la solennità della Madre di Dio



di Salvatore M. Perrella

Il primo giorno di ogni anno la Chiesa celebra la solennità liturgica di Maria “madre di Dio-Theotókos”; siamo ancora pervasi dalla gioia del Natale per la commemorazione della nascita a Betlemme di Giudea dell'Emmanuele Dio-con-noi. Infatti, il Vangelo del giorno racconta la visita dei pastori nel luogo loro indicato dove «trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Luca, 2, 16). Il Natale non è un racconto fiabesco, non è un mito senza storia; è evento di salvezza a cui il credente aderisce con fede e con grande riconoscenza e tenerezza per l'inedita via con cui il Figlio eterno di Dio si è rivestito della nostra carne mostrandosi ai pastori nella bellezza e fragilità di un bambino concepito, gestito e partorito dalla Vergine.


A tal riguardo, Benedetto XVI, nel suo recente volume L'infanzia di Gesù, afferma: «Gesù non è nato e comparso in pubblico nell'imprecisato “una volta” del mito. Egli appartiene ad un tempo esattamente databile e ad un ambiente geografico esattamente indicato: l'universale e il concreto si toccano a vicenda. In Lui, il Logos, la Ragione creatrice di tutte le cose, è entrato nel mondo, il Logos eterno si è fatto uomo, e di questo fa parte il contesto di luogo e tempo. La fede è legata a questa realtà concreta, anche se poi, in virtù della Risurrezione, lo spazio temporale e geografico viene superato e il “precedere in Galilea” (cfr. Matteo, 28, 7) da parte del Signore introduce nella vastità aperta dell'intera umanità (…). La storia dell'elezione fatta da Dio, fino ad allora limitata ad Israele, entra nella vastità del mondo, della storia universale. Dio, che è il Dio di Israele e di tutti i popoli, si dimostra come la vera guida di tutta la storia» (p. 77-78).


Maria, la «madre di nostro Signore» (cfr. Luca, 1, 43), a motivo di questo allargamento di interesse e di orizzonte trinitario determinato dall'ingresso del Logos eterno nel tempo, nello spazio e nella storia, è parte indispensabile e nobile di questa “storia dell'elezione fatta da Dio”. Per cui il titolo “Theotókos-Genitrice di Dio” contestato dal patriarca Nestorio, difeso e proclamato al concilio di Efeso nel 431, è logica e teologica conseguenza di questo irradiamento cristologico e salvifico voluto dall'eterno Padre, accettato sin dagli inizi dal Verbo (cfr. Ebrei, 10, 5-10), realizzato nella «pienezza del tempo» (Gàlati, 4, 4-6) dallo Spirito Santo e reso possibile nel fiat consenziente della Vergine nazaretana (cfr. Luca, 1, 38). La conseguenza della decisione del concilio di Efeso è ancora oggi evidente e valida: Maria può essere detta “madre di Dio”, non perché ha generato un dio, ma perché ha partorito come vero uomo un Figlio che era anche vero Dio. In questa prospettiva si salvaguardava perfettamente la salvezza apportataci da Cristo, figlio di Dio e figlio di Maria; non è un caso che dopo Efeso ebbero nuovo impulso il culto, la pietà e la devozione mariana nella Chiesa.


Molti secoli dopo la decisione conciliare efesina, esattamente l'11 ottobre 2010, Benedetto XVI, durante la prima congregazione generale dell'assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi, parlando “a braccio”, non ha temuto di ricordare come Theotókos sia un «titolo audace», osservando fra l'altro: «In questa grande parola Dei Genitrix, Theotókos, il concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione (…). Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell'Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo, siamo tutte creature? Perciò si capisce che c'era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di Christotókos, sì, ma di Theotókos no: Theós, Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia. Ma il concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l'avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito totalmente, così radicalmente con quest'uomo, Gesù, che quest'uomo Gesù è Dio, e se parliamo di Lui, possiamo sempre anche parlare di Dio. Non è nato un solo uomo che aveva a che fare con Dio, ma in Lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario: Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell'intimo, nell'intimità di Dio stesso». 


Questo grande e incommensurabile avvenimento declina, quindi, il senso, la portata e il servizio a Dio, all'umanità, alla Chiesa, al tempo e allo stesso cosmo finalmente redenti e riconciliati, vissuti e resi da Maria, da una di noi, vera Madre di Dio secondo la carne. Ciò che ha influito sullo sviluppo del dogma mariano nella Chiesa antica è stata soprattutto la volontà di difendere la verità cristologica dall'attacco delle eresie, e il bisogno di professarla nella sua integrità. Il pensiero di fede nel suo movimento di comprensione dell'“evento-Cristo” coinvolge sempre la persona, il ruolo e il significato di Maria per la Chiesa. 

 Il dogma mariano è dunque ben integrato nella cristologia; la difesa della fede cristologica diventa al tempo stesso attestazione della verità intorno alla Madre del Signore. Anche nella teologia contemporanea tale rapporto è indagato e approfondito, sia sul versante della diaconia materna, che su quello della significanza ecclesiale, tipologica, ecumenica e simbolica di questa Donna di Nazaret. La maternità messianica, vissuta dalla Vergine con singolare ed esemplare fede e carità, è stata arricchita dal Signore stesso, come ha insegnato Giovanni Paolo II nell'enciclica Redemptoris Mater (25 marzo 1987), dalla diaconia salvifica ed ecclesiale; servizio che esprime bene l'asserita iconicità di Maria in ordine alla maternità e al servizio apostolico della Chiesa e del singolo credente a Cristo, per opera dello stesso Spirito, al suo Regno e a ciascun redento. La maternità di Maria è stata ed è quindi vera, reale, umana, cristica, ecclesiale, verginale, femminile, psicologica, teologale, appassionata, globalizzante; maternità singolare che l'ha posta come protagonista nell'evento trinitario e insieme antropologico dell'Incarnazione. Per cui la riflessione di fede sulla Madre di Gesù è tutta relazionale: non si può parlare di lei senza scrutare i suoi rapporti col Padre, con la persona e l'opera del Figlio, con la persona e l'azione dello Spirito e perciò della Trinità nella persona umana, nella Chiesa dei discepoli, nella storia e nell'escatologia.

Infine, in questo 1° gennaio la maternità universale e interrelazionale della Madre del Signore, suggerisce alla Chiesa di invocarla e di additarla come vera Regina pacis, in quanto, come scrive Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2013, «ogni anno nuovo porta con sé l'attesa di un mondo migliore. In tale prospettiva, prego Dio, Padre dell'umanità, di concederci la concordia e la pace, perché possano compiersi per tutti le aspirazioni di una vita felice e prospera»; una esistenza segnata dalla comune vocazione e impegno alla pace integrale e fraterna.

(©L'Osservatore Romano 30 dicembre 2012)


Te Deum, Luigi Negri: Per il gigante Benedetto XVI





Come ogni anno, l’ultimo numero del settimanale Tempi raccoglie una serie di “Te Deum” di personalità significative all’interno del panorama sociale italiano. Nel numero che trovate in edicola a partire da giovedì 27 dicembre troverete i contributi di Angelo Scola, Luigi Negri, Alberto Caccaro, Aldo Trento, Luigi Amicone, Antonio Simone, Roberto Formigoni, Renato Farina, Mattia Feltri, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Costanza Miriano, Davide Rondoni, Giampiero Beltotto, Maria Rita O., Antonio Gurrado, Cecilia Carrettini, Gian Micalessin, Lorella Beretta, Andrea Mariani, Berlicche e molti altri.
Pubblichiamo di seguito il Te Deum del vescovo Luigi Negri



Il Te Deum per un anno trascorso è come un dialogo profondo tra il cuore nostro e quello di Dio. È guardando a Lui che vengono a galla le linee portanti delle sue grandezze, di nuove strade aperte e di nuovi cammini. Il primo grazie a Dio è per la presenza di Benedetto XVI, questo gigante mite e fortissimo che sostiene il cammino della Chiesa infondendole luce ed energia e quella novità che rende il cristiano un uomo “grande”. Abbiamo imparato tutti i giorni dalla grandezza del Papa. Ho avuto la straordinaria opportunità di stare al suo fianco durante il recente Sinodo in cui la sua presenza, testimonianza e insegnamento ci hanno garantito l’azione dello Spirito Santo in quei giorni. Questa sua gigantesca testimonianza diviene offerta per l’Anno della Fede in cui sarà ancora possibile, seguendo il Papa, ritornare alla fede nella sua esperienza originale: incontro con Gesù Cristo, Figlio di Dio, che ci viene incontro nel mistero della sua Chiesa e che ci coinvolge in un cammino di sequela di Lui che ci conduce più vicino al cambiamento totale della vita: «Quello stupore di una vita rinnovata», di cui il beato Giovanni Paolo II continua ad essere immagine per il cristianesimo di ogni tempo e quindi anche del nostro.

La grandezza testimoniata dal Papa incontra una Chiesa che in più occasioni ha dimostrato una debolezza che non è innanzitutto di carattere morale (debolezza che pure esiste, e di cui parlano e sparlano i mezzi di comunicazione sociale). La debolezza fondamentale della Chiesa nasce dal rifiuto, più o meno consapevole, di ragionare e vivere secondo la cultura che nasce dalla fede. Jacques Maritain aveva detto dopo il Concilio Vaticano II che il pericolo della Chiesa era di inginocchiarsi di fronte al mondo. Siamo deboli perché il fondamento del nostro agire e conoscere non è più la fede, ma il criterio del mondo. Questa mancanza di una cultura cristiana umile e certa è anche la ragione della mancanza di quel coraggio che ci è stato testimoniato dai martiri cristiani che in Asia, Africa e Medio Oriente hanno potuto dire, come Asia Bibi: «Se tu mi condanni perché sono cristiana sono contenta». Bisogna pregare molto perché la fede diventi cultura e concezione di vita e realtà che diventa impeto di comunicazione e missione ai nostri fratelli uomini. La debolezza della Chiesa incontra quella situazione di inconsistenza che caratterizza la vita della società: l’individualismo consumista, il disprezzo di sé e dell’altro se non riducibile a un nostro possesso, la tendenza ad ottenere sempre il massimo benessere possibile. Tutto ciò fa della società un campo di violenza a cui ci stiamo abituando senza accorgerci. La violenza che va dal disgregamento della famiglia a quello della società, dai suicidi e gli omicidi come soluzione ai problemi, alla manipolazione della vita fin dal concepimento. Questo mondo, in cui la Chiesa di Dio è chiamata ad essere presente con quella carica di umanità nuova, sta vivendo una tragedia di proporzioni cosmiche, le cui vicende socio-politiche fanno solo da contrappunto alla vastità del dramma in cui il nostro popolo è chiamato a vivere.

E qui il Te Deum si fa preghiera sommessa e certa che Dio ci conceda la sua protezione e renda in nostri fratelli uomini leali con loro stessi e capaci di una rinnovata responsabilità umana.


Tempi.it   29 dicembre 2012

Caffarra: I figli non sono qualcosa che si vuole, ma qualcuno che viene



Omelia del cardinale di Bologna sul pericoloso narcisismo ed egoismo moderno che vede i figli non come dono ma come scelta






Una cultura “in cui l’origine di una nuova persona umana non è più compresa nel suo significato più profondo, non dono di Dio ma frutto casuale di leggi biologiche sempre più sottoposte al dominio tecnico dell’uomo”: è quella che disegna il cardinale Carlo Caffarra nell’omelia della Messa celebrata in occasione della Festa della Sacra Famiglia a Bologna.

“E’ convinzione di molti – commenta l’arcivescovo – che il figlio non può essere semplicemente ‘aspettato’, ma deve essere ‘voluto’. Certamente dietro a questo cambiamento di prospettiva ci può essere quell’attitudine che anche la Chiesa raccomanda quando parla di procreazione responsabile. Ma normalmente ormai non è di questo che si tratta. E il rapporto del genitore col figlio ‘voluto’ è profondamente diverso dal rapporto col figlio ‘venuto’. La diversità consiste nel fatto che il figlio ‘voluto’ rischia di essere considerato non come qualcuno, ma come qualcosa di cui ormai ho bisogno per il mio benessere psicologico. Il passaggio poi alla visione coerente del figlio come proprietà è, in questa logica, un rischio assai reale. Esattamente il contrario di quanto ci dice la parola di Dio”.

“La conseguenza più grave di questo profondo cambiamento culturale nel rapporto genitori-figlio – sottolinea Caffarra – è che la coppia si attribuisce l’autorità di dare un giudizio sul diritto o non all’esistenza del figlio concepito, ma non voluto. Si è così legittimata anche la soppressione del medesimo, sulla base dell’ideologia ‘a favore della scelta’ (pro-choice). Ma nello stesso tempo – e si tratta solo di una contraddizione apparente con ciò che ho appena detto – se il rapporto giusto è solo col figlio ‘voluto’; se egli diventa qualcosa di necessario per la propria felicità, viene logicamente legittimata ogni tecnica che possa produrre il figlio voluto. E il prodotto è a disposizione del produttore”.


Tempi.it        30 dicembre 2012


sabato 29 dicembre 2012

Lutto nella Diocesi di Pistoia






 “Dolore e sgomento, abbattimento e preghiera, attesa che sia fatta luce sulla vicenda”. Questa la reazione del vescovo di Pistoia, mons. Mansueto Bianchi, davanti alla morte di don Mario Del Becaro, il sacerdote, 63 anni, trovato morto la scorsa notte nella sua canonica di Tizzana (Quarrata). Don Mario, nato il 10 luglio 1949 a San Benedetto del Tronto e ordinato sacerdote dal 29 giugno 1980, è stato trovato privo di vita, verosimilmente vittima di una aggressione. Mons. Bianchi ha saputo che al sacerdote, trovato legato, era stata scassinata la cassaforte e gli era stata rubata la macchina. Don Mario, proveniente da Genova, era arrivato in diocesi di Pistoia, dalla limitrofa diocesi di Prato, ai tempi del vescovo precedente, mons. Simone Scatizzi. Da molti anni curava la comunità parrocchiale, nel territorio comunale di Quarrata, di Tizzana con la chiesa di San Bartolomeo e con l’antica Pieve di San Michele in frazione La Catena. In tutto circa 1.900 persone. Nell’ottobre dello scorso anno, la comunità parrocchiale lo aveva festeggiato per la sua venticinquennale presenza come parroco.


 Agenzia SIR

La tragicomica laicità

 

di don Antonio Ucciardo

 

Pochi giorni fa gli italiani hanno scoperto che, insieme con il cielo di Dio, esiste anche un cielo degli uomini. E’ stato Roberto Benigni a rivelare la sorpendente verità, nel corso dello spettacolo dedicato alla Costituzione. Il riferimento non si arresta soltanto a questa considerazione. Il comico, infatti, ha pensato bene di contrapporre la Carta fondamentale della Repubblica ai Comandamenti divini. Questi sarebbero un insieme di divieti; quella rappresenta invece un messaggio attuale di propositività. La repressione e lo slancio, insomma.

Il nostro intento esula dal commento sulla bontà delle norme costituzionali, sempre perfettibili. Non diciamo nulla neppure sull’ idolatrazione della Carta, mentre potremmo dire, per ragioni anagrafiche, di non ricordare che in Italia si fosse tanto legati alla Costituzione. L’amor patrio della mia generazione s’arrestava sul Piave, il 24 maggio. Meglio tardi che mai, senza dubbio. Soprattutto considerando il ruolo determinante che i cattolici hanno avuto nella nascita e nello sviluppo della Repubblica. Non è un male amare la Patria. Tutt’altro! Non è un male riscoprirne la legge fondamentale e proporla anche nel modo pensato da Benigni. Purché sia chiaro che si parla di una carta e non dell’assoluto. Il confine è assai labile, ed è facile passare dalle norme allo Stato che da esse prende forma. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di uno Stato che si concepisca come l’assoluto, vale a dire come la fonte della felicità. Mi preoccuperebbe l’idea che i padri costituenti, al di là dei tanti compromessi di cui la Carta è zeppa, abbiano voluto regalarci il cielo. Forse perché penso ai molti tentativi nella storia di poter donare il cielo attraverso l’attuazione della felicità sulla terra. Milioni di morti, e non solo nel nostro Occidente, per donare ai sopravvissuti un sogno di felicità mediante il dono di uno Stato assoluto. C’è da rabbrividire soltanto all’idea che uno Stato possa proporsi ancora come il cielo sulla terra. E mi viene il sospetto che qualche nipotino di quei fabbricanti di felicità terrena possa considerare la Costituzione come il vascello su cui veleggiare verso nuovi lidi di progresso. Non mi spiegherei, altrimenti, quel riferimento alla propositività della legge terrena nei confronti della legge divina.

C’è una singolare contraddizione in questo enunciato di libertà. Il settimo comandamento, per esempio, impone (usiamo un verbo adatto!) di non rubare. Ora, non sembra che la Costituzione consenta di farlo. Questo vale per per tutte le norme sancite dalla Carta della Repubblica. Un italiano non può rubare, non può uccidere, non può testimoniare il falso. Non c’è nulla di religioso nella Costituzione, nemmeno il nome di Dio o il richiamo alle origini della nostra civiltà; eppure c’è molto di vincolante, ed anche di religioso, almeno nel senso generico di un riconoscimento di qualcosa che precede le leggi che gli uomini si danno e fissano sulla carta. Insomma, persino la legge degli uomini recepisce una legge ancora più grande, che è dentro i loro cuori. Riconoscere che il cielo degli uomini riflette il cielo di Dio, non è umiliante. E’ semmai autenticamente liberante. Da questo punta di vista non vi è contraddizione di sorta tra il progresso autentico e la dipendenza da una legge. Si può affermare, quindi, che Benigni si è contraddetto, così come cade inevitabilmente nella contraddizione chiunque voglia liberare il cielo degli uomini al riferimento a quell’altro cielo. Oggi bisogna capire, però, se questa contraddizione abbia ancora una sua validità ai fini della comprensione dell’uomo e della sua società. Perché la dipendenza indiretta da una legge che precede, è stata spesso ribaltata dal riconoscimento di una legge che è imposta dal piacere, dalla moda, dalla cultura, dalle idee di pochi, da quello che si chiama politicamente corretto. Con frequenza crescente questi modi di pensare e di pretendere determinano le condizioni per un loro riconoscimento anche legale, così che è lecito ritenere che si tenti, per altra via, la realizzazione di una società felice nella sua totale indipendenza da una norma superiore. Una società siffatta non sarà mai felice.

Soltanto la Chiesa è rimasta lucida davanti alla frenesia di chi, volendo costruire il cielo sulla terra, pensa di poter perseguire ed assicurare la felicità con il riconoscimento di quello che ciascuno vuole per sé. Benedetto XVI è stato, ancora una volta, al centro di critiche spietate per aver ricordato che “operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità”. Eppure, in quel Messaggio per la prossima giornata della pace, Egli ha scritto: “Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”. Lo scandalo corale per la minaccia al riconoscimento delle coppie gay ha finito per emarginare le forti parole che il Papa ha riservato a questi tempi di crisi e al bene comune. Come dire che della crisi economica, in fin dei conti, non sembra importare granchè ai fautori del nuovo cielo sulla terra. Come non sembra importare neppure della ragione.

Un poliziotto riprende due donne che si baciano in pubblico, e subito qualcuno prospetta, nel cielo che verrà, corsi di formazione delle forze dell’ordine (da non confondere con la rieducazione forzata di altri cieli passati…). Nulla di nuovo sotto il sole. Abbiamo già visto quale sia la propositività del poter fare quando si mandano in soffitta i presunti divieti dei Comandamenti. Alla fine ne perdiamo anche in razionalità.

Nel tragicomico spettacolo della laicità, posta sull’altare come la dea Ragione di due secoli fa, a questa nostra società serve soltanto un barlume del cielo vero. Forse vale la pena di invitare a vivere come se Dio ci fosse, secondo la proposta intelligente di Benedetto XVI, vincendo la ritrosia che da più parti del nostro cattolicesimo si avverte. E visto che uno Stato che non fosse retto secondo giustizia, si ridurrebbe a una grande banda di ladri – tanto per fare nostra una citazione di Agostino riproposta dal Papa- , adoperiamoci affinché nessuno ci rubi il cielo. A cominciare da quanti dovranno rappresentarci in quel santuario laico che rischia di inchinarsi davanti ad un pezzo di carta per non doversi inchinare davanti a Dio.

 

venerdì 28 dicembre 2012

Rivisitiamo il Filioque




di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Alcuni ascoltatori di Radio Maria mi hanno recentemente posta la domanda sul famoso “Filioque”, tema che tuttora divide, dopo quasi dieci secoli, la fede della Chiesa Cattolica Romana dalla Chiesa di Costantinopoli, che raccoglie attorno a sé quei fratelli numerosissimi separati che comunemente noi cattolici chiamiamo “Ortodossi”, benché poi in fin dei conti la pienezza dell’ortodossia della fede appartenga solo alla Chiesa Cattolica Romana.
Il Filioque, come sappiamo, è la famosa aggiunta al Credo che fu introdotta nella Chiesa Latina attorno ai secc. IX-X per iniziativa dei Franchi e dei Germani e che fu poi accolta dalla Chiesa di Roma, e da questa poi imposta a tutta la Chiesa universale, tanto che ancor oggi questa espressione è presente nel Simbolo della fede. Essa significa che lo Spirito Santo non procede solo dal Padre, ma anche dal Figlio (Filioque).

Su questo punto fondamentale della fede trinitaria, dopo lo scisma del sec. XI sino a tutt’oggi esiste purtroppo una reciproca accusa di eresia tra la Chiesa Latina Cattolica) e quella Greca (ortodossa). I Latini accusano di eresia la negazione del Filioque; i Greci accusano di aggiunta eretica l’introduzione del Filioque.

Sino al secolo dello scisma, volendo porre la famosa fatidica data del 1054, i fratelli orientali erano uniti a Roma su quel punto delicatissimo della fede cristiana, ma esso non figurava nel Credo. La ribellione a Roma avvenne allorché Roma decise di introdurre la formula nel Credo. Sorsero infatti le proteste di Costantinopoli che Roma avrebbe aggiunto al Simbolo della fede una novità arbitraria. Fu certamente, questo, un fatto sorprendente, considerando che fino ad allora tutta la cristianità aveva accolto quel dato di fede.
Ma la storia ogni tanto riserva delle amare e misteriose sorprese. Nel sec. XIV il teologo dissidente Gregorio Palamas, poi canonizzato da Costantinopoli, fece addirittura un trattato contro il Filioque con una gran quantità di intricati argomenti, che favorirono l’espressione “bizantinismo” per significare le sottigliezze che finiscono per confondere anziché far chiarezza.

Inutilmente i teologi romani spiegarono che Roma, del resto in conformità a un dato che era già tradizionalmente di fede, non aveva fatto altro che spiegare o esplicitare solennemente una verità già contenuta nella Rivelazione, come del resto i Concili avevano già fatto nel passato per altri articoli di fede: si pensi per esempio alla più ampia esposizione dei dati di fede contenuta nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano rispetto al precedente Simbolo degli Apostoli. In questo increscioso episodio, a tutt’oggi ancora irrisolto, si ha l’impressione che Costantinopoli cercasse un pretesto per staccarsi da Roma.

Indubbiamente al tempi del Concilio Vaticano II e dell’ecumenismo avviatosi con gli Ortodossi ci fu un effettivo avvicinamento tra le due Chiese. Sappiamo infatti come Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora si tolsero reciprocamente la scomunica e ciò fu certamente un fatto altamente positivo, ma solo sul piano delle relazioni umane, senz’alcun riferimento alla questione dottrinale. Infatti questo è un caso, per la verità eccezionale, nel quale due Chiese si sono in qualche modo rappacificate senza che ciò abbia comportato la soluzione del problema dogmatico.

Il che vuol dire che la Chiesa di Costantinopoli, benché oggi animata da sentimenti di carità verso Roma, non è oggettivamente tornata in piena comunione dottrinale con Roma e certo sorprende come ancor oggi gli Ortodossi non riconoscano la verità del Filioque, nonostante gli innumerevoli inviti provenienti da Roma e da tutti i teologi cattolici, a cominciare dal grande S.Tommaso d’Aquino, del quale si ricordò il Concilio di Firenze del 1439-1442, allorché per un vero miracolo della grazia, purtroppo durato poco, riuscì a ripristinare la comunione dei Greci con Roma. La soppressione delle reciproche scomuniche non deve pertanto portarci a minimizzare o relativizzare il persistere del contrasto dottrinale.

Come spiega bene infatti S.Tommaso nella Somma Teologica (I, q.36, a.2) il difetto dei Greci sta nel non capire che negando che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio, non è più possibile distinguere l’Uno dall’Altro secondo l’insegnamento della divina Rivelazione così come risulta dalle parole stesse di Cristo, che appunto ci ha rivelato il Mistero Trinitario.

Infatti noi non abbiamo altra possibilità di distinguere tra di loro le Persone divine che facendo riferimento alla loro origine. Anche questo è il segno che dobbiamo concepire la Persona divina in un modo molto diverso da quello con cui concepiamo la persona umana. Infatti la Persona divina non è creata come lo è la nostra persona umana – cosa che comporta diversità individuali tra persona e persona -, altrimenti non sarebbe più divina, ma emana o procede o ha origine da un’Altra nell’uguaglianza, anzi identità della natura divina, così come del Figlio nel Credo diciamo “Deum de Deo”, non nel senso di un dio che proceda da un altro dio, come nel paganesimo, ma in quanto il Figlio che procede dal Padre è Dio come lo è il Padre.

Naturalmente gli Ortodossi hanno usato anche loro un criterio per distinguere. Essi però si basano solo su elementi certamente veri ma insufficienti, perché si tratta di semplici appropriazioni ovvero attribuzioni aggiunte e derivate, non di elementi originari, pertinenti e propri. Quelle attribuzioni invece sono solo generiche e secondarie, non fondate direttamente sull’essenza delle persone, ma soltanto su qualità relative agli attributi divini generici, il che non è per nulla sufficiente a determinare la distinzione tra le Persone secondo quanto risulta dalla Rivelazione.

Infatti tutte e tre le Persone sono Dio. Se noi per distinguerle facciamo leva solo sugli attributi della divinità, è evidente che la distinzione non regge o quanto meno non è sufficiente. Sarebbe come se volessimo distinguere Socrate e Platone sulla base della distinzione tra l’intelletto e la volontà, che invece sono proprietà che essi posseggono allo stesso modo o al massimo con sfumature diverse in quanto proprietà della loro comune natura umana.

Infatti gli Ortodossi distinguono il Figlio dallo Spirito collegando rispettivamente il primo al Pensiero o alla Verità (Logos) e il secondo alla Volontà o all’Amore, visione non certo sbagliata anzi importante ed utile per la vita spirituale, ma alla quale sfugge ciò che è il vero, caratteristico ed irrinunciabile principio della distinzione tra Figlio e Spirito Santo, e si limitano a semplici attributi divini che sono propri del Dio Uno e comuni in fondo al Figlio e allo Spirito, giacché è evidente che anche il Figlio come Dio ama (“Dio è Amore”), ed è altrettanto evidente che lo Spirito come Dio è lo Spirito della Verità. Ma allora dov’è la distinzione?

Il criterio per la distinzione tra le divine Persone non può essere quello tra individui nella medesima specie come se Dio fosse una specie, sotto la quale le persone sono individui diversi tra di loro per il fatto che l’uno accentua più un carattere della specie e l’altro ne accentua un altro, come in Leopardi emerge la poesia mentre in Einstein la scienza, ma qui si tratta sempre di qualità della medesima natura umana.
Per questo nella visione ortodossa è compromessa l’unità dell’essenza divina che sembra ridursi ad un’astratta e inconcepibile essenza specifica, mentre la concretezza è riservata solo alle Persone, sicché alla fine si rischia il triteismo, un avanzo del politeismo pagano. Viceversa la Chiesa di Roma è più attenta ai concetti che sono espressi implicitamente o esplicitamente da Cristo stesso, nel rivelarci il mistero della distinzione delle divine Persone.

Innanzitutto è vero che il termine “persona” non è usato da Cristo. Ma questo non significa nulla: è evidente che quando Cristo parla di sé Come “Figlio” o parla di un Dio “Padre” o di uno “Spirito” che guida alla “verità tutta intera”, vivifica, purifica, governa, santifica e perfeziona il cristiano e la Chiesa, cose che appaiono più evidenti nella spiritualità e nell’ecclesiologia di S.Paolo, Cristo si riferisce a entità personali, assimilabili, anche se con profondissime differenze, a ciò che per noi è la persona, soggetto pensante e volente.

Una differenza notevole tra il concetto di persona umana e quello di Persona divina, è che mentre nella prima la relazione è un accidente che si aggiunge alla persona, nella Persona divina la relazione costituisce la stessa Persona, per cui la Persona divina è una relazione sussistente: in essa l’essere si identifica con l’agire. Così, per esempio, nel caso dell’uomo, noi diciamo che il tale ha una relazione, mentre per quanto riguarda la Persona divina diciamo che Essa è una relazione. L’avere esprime l’accidente, l’essere esprime la sostanza o la sussistenza.
Il fatto di essere padre, nella persona umana, si aggiunge estrinsecamente alla persona stessa, la quale era persona anche prima di essere padre e continuerà ad essere persona anche dopo che il figlio fosse eventualmente morto. Viceversa, la paternità divina non si aggiunge in Dio all’essere divino o alla Persona divina, ma Li costituisce.

Dio non è divenuto Padre, ma è Padre per essenza e dall’eternità. Il Figlio non è nato nel tempo, ma ante omnia saecula, ossia dall’eternità, appunto perché è Dio. Il mondo è sorto per creazione quando Dio esisteva già da solo dall’eternità, ma non c’è mai stato un “prima divino” nel quale Dio non fosse Padre, Figlio e Spirito Santo. Sarebbe come ipotizzare un uomo il quale diventasse animale razionale un certo tempo dopo essere stato concepito. Non ha senso, perché l’uomo è animale razionale per essenza e a priori. O c’è l’uomo, e allora c’è l’animal rationale. O non c’è l’animal rationale e allora non c’è l’uomo.

Quanto al problema della distinzione tra di loro delle Persone divine, come risulta dall’insegnamento di Cristo, Esse si distinguono secondo un’opposizione non assoluta ma relativa: relations oppositio, come dice il Concilio di Firenze. L’opposizione non è assoluta nel senso che non tratta di diversità tra individui ed inoltre essa non è da intendere nel senso di contrasto ma nel senso appunto di semplice relazione o legame, che non dice alcun contrasto ma perfetta armonia e convenienza, anzi di uguaglianza nella divinità.
Tuttavia non si tratta di una relazione di affinità, di somiglianza o di reciprocità, tanto meno di diversità, come avviene tra gli individui di una specie o tra enti sostanziali diversi, ma di una relazione di origine, fondata sulle processioni divine; il Figlio procede dal Padre per generazione, lo Spirito procede per spirazione. Il Figlio è sì Immagine del Padre, ma Immagine perfettamente uguale al Modello. Noi invece in Cristo possiamo essere immagine di Cristo e del Padre semplicemente partecipata.
Siccome poi il Padre è comune origine delle altre due Persone ed esse si distinguono solo per l’origine, bisogna necessariamente ammettere che una delle due ha origine dall’altra. E ciò è appunto testimoniato dalle stesse parole di Cristo, il Quale, al momento di promettere la missione dello Spirito Santo, fa riferimento ad Esso affermando “prenderà del mio” (Gv 16,14).

Per comprendere la portata del Filioque, occorrono dunque concetti metafisici di non facile intendimento e che effettivamente non sono alla portata di tutti, per cui il comune fedele, anche se non può seguire il ragionamento che porta a mostrare la necessità del Filioque, è invitato a compiere un atto di fede nella dottrina della Chiesa.
Bisogna inoltre riconoscere che al fine di prendere a modello la SS. Trinità per la nostra vita spirituale e di comprendere il suo influsso nella nostra vita cristiana, è maggiormente utile considerare le appropriazioni (Padre come Essere-Principio, Figlio come Verità, Spirito come Amore), che non le stesse proprietà, del tutto sproporzionate alla nostra vita personale. Sbagliano pertanto coloro che vorrebbero imitare la vita trinitaria concependo la persona umana come relazione (“essere-in-relazione”) col pretesto che la Persona divina è relazione sussistente. L’unico risultato di questa ingannevole operazione è quello di negare l’essere personale a quei soggetti umani, come per esempio gli embrioni, i neonati o i malati mentali o terminali che non posso mettersi in relazione con gli altri mediante l’esercizio dell’intelletto e della volontà.
Invece la considerazione delle proprietà (relazioni di origine e quindi il Filioque) è indispensabile per una contemplazione del Mistero trinitario conforme alla retta fede. Su questo punto bisogna pertanto dire che gli Ortodossi non sono purtroppo… ortodossi.

Indubbiamente è impressionante come a causa di questa formula anche se non solo a causa di essa sia avvenuta la separazione di tante Chiese orientali da Roma e che tale separazione duri tuttora. Alcuni ritengono che questo contrasto tra Roma e Costantinopoli sia da ridurre a due semplici punti di vista differenti che non toccano la dottrina della fede. Invece purtroppo non è così: il Filioque compare nel Credo cattolico, segno che si tratta di verità di fede, per cui chi le nega è affettivamente eretico.
S.Tommaso, infatti, che è molto parco nel chiamare eretica una dottrina, qualifica come “eretica” la negazione del Filioque e non appare per nulla che Costantinopoli accetti la posizione di Roma, la quale mostra peraltro la sua liberalità consentendo a che nel Simbolo di certi riti orientali anche uniti a Roma possa mancare il Filioque. Dobbiamo infatti ricordare che i Simboli della fede non contengono necessariamente tutte le verità di fede. Il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, per esempio, non contiene la discesa di Cristo agli inferi, che pure è presente nel Simbolo degli Apostoli.

Che incidenza può avere questa questione del Filioque nel contesto generale della dogmatica e dalla morale? A tutta prima sembrerebbe una questione così astratta e teorica, da non presentare alcun influsso e diciamo pure da non comportare una speciale importanza.
Come mai tanta ostinazione dei Greci, ancora dopo quasi dieci secoli, nel non accettare il Filioque? Come è possibile che ciò avvenga in Chiese tanto antiche, tanto illustri e ricche di alti valori e di santità? E’ un grande mistero. Nessuno si può illudere che Roma su questo punto possa un giorno cedere. Chi invece dovrà accogliere la verità saranno le Chiese orientali.
L’Aquinate si basa per la sua sublime interpretazione delle parole del Signore, su Aristotele. E’ strano che i Greci, vittime qui di un personalismo esistenzialista, non sappiano valorizzare il massimo Esponente della sapienza greca.
L’ecumenismo con le Chiese orientali è comunque cosa molto preziosa e provvidenziale. Esso mette giustamente in luce tanti valori in comune. Come cattolici, dobbiamo avere fiducia che verrà un giorno, come accadde quasi per sogno al Concilio di Firenze, che i fratelli dell’Oriente comprenderanno la verità e allora con essi ci sarà in pienezza veramente “un solo ovile e un solo pastore”.

Libertà e Persona   28 dicembre 2012



Corretta ed errata idea della Libertà

 

Uno studio serio dell’uomo evidenzia inevitabilmente la dimensione della libertà. L’uomo, infatti, si manifesta chiaramente come essere libero. Ovviamente, non si può parlare di una libertà in senso assoluto, ma certamente di una libertà in senso relativo.



La definizione precisa di libertà è: esenzione dalla necessità. Infatti è libero ciò che non è vincolato dalla necessità.

Tranne alcuni comportamenti che l’uomo avverte necessitati, è l’uomo stesso ad accorgersi di come la gran parte delle sue azioni siano libere. Egli agisce in un modo, ma si rende conto che potrebbe anche fare anche altrimenti. A riguardo è importante ricordare la differenza tra atti dell’uomo e atti umani. I primi sono atti necessitati: respirare, mangiare, bere, dormire… i secondi, invece, sono quegli atti tipicamente umani, ma liberi e che attengono al comportamento morale.

L’idea di libertà nella storia della filosofia

Il concetto di libertà ha un suo itinerario filosofico che è possibile ricostruire. Ma, per una migliore sistematizzazione del discorso, ritengo sia meglio non procedere in maniera rigidamente diacronica, bensì individuando tre tipologie di concezioni della libertà.

Premettendo che le definizioni sono state pensate da chi scrive, le tipologie che a mio parere è opportuno indicare sono:

La libertà fondata sulla verità. Ovvero la libertà che muove da un fondamento metafisico.

La libertà fondata sull’uomo. Ovvero la libertà che muove da un’impostazione primariamente antropocentrica e soggettivista.

La libertà fondata sul nulla. Ovvero la libertà che muove da un’impostazione nichilista.

Libertà fondata sulla verità

Per Libertà fondata sulla verità intendo quella concezione della libertà che muove da un argomento di ordine metafisico. L’esistenza e soprattutto l’irriducibilità metafisica delle categorie del bene e del male ne costituiscono il fondamento.

Socrate (470-399 a.C.) individua il bene nel “conosci te stesso”. Per lui la libertà si realizza primariamente nel conoscere se stesso. Attenzione: questa affermazione non è una legittimazione del soggettivismo, bensì un invito a trovare in sé quei concetti universali che non erano stati riconosciuti dalla Sofistica. Socrate, infatti, è colui che scopre l’anima umana.

Platone (428-347 a.C.), soprattutto nel Critone e nel Protagora, esprime la caratterizzazione del suo concetto di libertà: essa è finalizzata alla conoscenza e al possesso del Bene. L’eudemonia (ricerca della felicità come vero fine) platonica è nel fuggire dal mondo sensibile per liberarsi dalla prigionia del corpo, e quindi elevarsi all’Iperuranio. La libertà è nell’esercizio della virtù per raggiungere un vero oggettivamente dato.

Aristotele (384-322 a.C.), a differenza di Platone, indica il fine della vita dell’uomo non nel Bene universale, bensì in quello particolare. Ma anche la concezione della libertà dello Stagirita è una concezione fondata sul riconoscimento di un vero oggettivo. Aristotele afferma che la felicità è nel vivere secondo ragione. Il fine degli esseri, e quindi anche dell’uomo, è nel realizzare la propria essenza, che è oggettivamente e metafisicamente posta.

In questa tipologia della libertà dalla verità vanno ovviamente ricordati i due grandi del pensiero patristico e scolastico: sant’Agostino (354-430) e san Tommaso d’Aquino (1225-1274). Il Vescovo di Ippona, ponendo in Dio le idee che nella filosofia platonica restavano fuori di Dio (nell’Iperuranio), risolve il problema morale nel raggiungere il vero fine della vita, che è il possesso di Dio. La vera libertà è nutrirsi della Grazia (polemica antipelagiana) ed evitare il male, che è privazione di essere e quindi privazione di Bene, essendo Dio l’essere nella sua pienezza (polemica antimanichea).

In san Tommaso permane questa concezione della libertà dalla verità. Dio è causa ed è fine. La ragione conduce a Dio. Una morale secondo ragione è il raggiungimento di Dio. La libertà è il raggiungimento di Dio attraverso un comportamento correttamente razionale.

La libertà fondata sull’uomo

Vengo adesso alla seconda tipologia. Cioè alla concezione che ho chiamato dellalibertà fondata sull’uomo. Non nascondo che questa titolazione può essere ambigua, pertanto chiarisco: per libertà fondata sull’uomo intendo una libertà non mossa da un riconoscimento oggettivo e metafisico, ma da un’impostazione primariamente antropocentrica e soggettivista.

Il pensiero umanistico e quello rinascimentale esprimono una concezione della libertà in cui l’elemento metafisico passa gradatamente in secondo piano, per essere sostituito da una progressiva concezione dell’uomo come fondamento immanente del reale. Dalla concezione antropocentrica di Pico della Mirandola(1463-1494) alla concezione di Giordano Bruno (1548-1600) degli “eroici furori”, il criterio di giudizio della libertà non è più nell’adesione all’Assoluto, ma nella conoscenza delle potenzialità dell’uomo. E queste, nel caso di Bruno, divengono perfino potenzialità divine, desunte da un’impostazione monistico-panteista.

In questa tipologia va inserito anche Cartesio (1596-1650). Questi afferma che la libertà è nel perseguire un’azione eticamente buona, la quale deve essere conforme alla ragione. Sembra che non ci discosti dalle posizioni della Scolastica, invece c’è una grande differenza. La ragione in Cartesio è ormai svincolata da una prospettiva di realismo oggettivo e tutta orientata verso un razionalismo anche di tipo soggettivo. Mentre Aristotele e san Tommaso distinguevano tra volontà e libertà, ritenendo liberi soltanto le azioni guidate alla ragione, Cartesio sovverte questo rapporto: la volontà presiede alle funzioni della ragione imponendo le sue arbitrarie decisioni. Dunque, la volontà non sottostà a nessuna norma, a nessun giudizio della ragione. “Cogito ergo sum”: non è più la realtà oggettiva a garantire l’esistenza del pensiero, ma è il pensiero a garantire l’esistenza della realtà oggettiva.

Nello stesso empirismo inglese è ravvisabile una simile concezione della libertà. Quella di Hobbes (1588-1679) è di fatto una negazione della libertà, perché egli parte dalla constatazione di un determinismo e quindi da una specifica antropologia materialistica. Ma anche la concezione della libertà di Hume (1711-1776), pur essendo molto diversa da quella di Hobbes, muove da una ben precisa concezione antropologica. Hume afferma che il fondamento della morale è il sentimento. La libertà è quindi l’esercizio di questo sentimento, cioè la “simpatia” di poter capire l’altro.

Lo stesso Kant (1724-1804) rientra in una tipologia di questo tipo. La libertà si misura sull’imperativo categorico. Questo non è fondato metafisicamente, bensì ammesso per esigenze morali, proprio perché la natura dell’uomo ne ha bisogno.

La libertà fondata sul nulla

Per quanto riguarda la terza tipologia (la libertà fondata sul nulla), la concezione della libertà muove da un’impostazione nichilista, cioè di negazione di ogni ordine valoriale.

Nietzsche (1844-1900), per bocca di Zarathustra, proclama la morte di Dio. Dalla negazione del riconoscimento del bene e del male e dalla negazione della loro irriducibilità, l’uomo deve superare la propria umanità. La libertà è poter diventare legislatori di se stessi.

Ma, paradossalmente, questa volontà di potenza finisce su un lettino di analisi. La libertà diviene in Freud (1856-1939) la possibilità di riconoscere una patologia psichica da cui liberarsi. La libertà vera consisterebbe nel liberarsi dalla morale tradizionale che tende inevitabilmente a reprimere gli istinti.

L’Esistenzialismo conferma questo itinerario di una libertà che muove dalla negazione di qualsiasi vincolo per sfociare in una sorta di autodistruzione di se stessa. Sartre (1905-1980) non solo riconosce il disagio del non senso, ma esplicitamente afferma che l’uomo sarebbe “condannato ad essere libero”. La libertà come pura esplicazione della volontà, ma senza fondamento né direzione, diviene puro dinamismo che torna a vincolare, questa volta imponendo una vita senza significato. Da qui la negazione di uno statuto razionale della morale e, quindi, della stessa libertà.

Wittgenstein (1889-1951) afferma che hanno valore solo le proposizioni scientifiche e Russell (1872-1970) nega alla morale la caratteristica di vera scienza.

E così si palesa la questione della libertà nella postmodernità. Se la modernità aveva significato la sostituzione delle certezze religiose con certezze di ordine antropologico e scientifico, la postmodernità significa la negazione del concetto stesso di certezza. Di fatto Heidegger (1889-1976) nega all’uomo la possibilità di conoscersi per ciò che è universalmente, cioè nella sua natura (impossibilità da parte dell’uomo di sapere come avvenga il costituirsi dell’ente per mezzo dell’essere). Non rimane che la singola esistenza con il suo destino ineluttabile: la morte. La morte sarebbe l’unico principio di individuazione della vita dell’uomo. Pertanto, la libertà che spetta all’uomo è quella di riconoscere il suo destino ad una fine ineluttabile.

Non è un caso che in questa atmosfera di nichilismo postmoderno un Breton(1896-1966) può affermare che l’atto più surrealista – cioè più libero – è prendere una pistola e sparare tra la folla. Da qui anche la dissoluzione causata dalla cosiddetta morale della situazione.

Come si può notare, il cammino dell’uomo verso la comprensione della libertà segue un itinerario complesso: si parte nell’antichità precristiana con lo studio del problema nel rapporto fra l’uomo e la sua coscienza e fra questa e la divinità; si passa nel pensiero medievale cristiano alla comprensione piena che l’unica libertà consiste nella ricerca – e nella conquista per grazia – di Dio; si cade nella modernità nel rifiuto di Dio per cercare nell’uomo ciò che non può possedere; e si finisce nella postmodernità nella follia del nichilismo e della disperazione.

Solo la riscoperta del vero significato della libertà umana, che risiede esclusivamente in Dio, potrà salvare l’uomo di oggi.

Corrado Gnerre



Bilbiografia orientativa:

Corrado Gnerre, Studiare la filosofia per rafforzare la Fede, vol.I e vol.II, Benevento 2008.

(S.A.), I fondamenti della vita morale dell’uomo, Pessano (Mi), 1996.



http://www.ilgiudiziocattolico.com/1/97/corretta-ed-errata-idea-della-libertà.html