venerdì 29 marzo 2019

«Io, psicologo, nel mirino perché difendo la famiglia»





Aveva detto in tv che un figlio ha bisogno di un padre e una madre, ha subito un processo di oltre tre anni dall'Ordine degli psicologi, è stato assolto ma per insufficienza di prove. E intanto ha altri tre procedimenti in corso. Parla lo psicanalista Giancarlo Ricci, che denuncia il clima di intimidazione contro chi non si piega all'ideologia gender. E racconta di come un numero crescente di giovani venga convinto della propria omosessualità da una propaganda martellante e dalla potenza delle organizzazioni gay.



Riccardo Cascioli, 29/03/2019

Intervista al dott. Giancarlo Ricci 

Chi afferma che la violenta campagna d’odio in atto contro la famiglia naturale sia conseguenza del modo in cui gli organizzatori hanno concepito l’evento del Congresso mondiale delle famiglie, che inizia oggi a Verona, farebbe bene a guardare alla vicenda del dottor Giancarlo Ricci, psicoterapeuta e psicanalista di chiara fama. La scorsa settimana i media hanno riportato la notizia che è stato “assolto” dall’Ordine degli psicologi dopo 3 anni e due mesi di procedimenti per aver sostenuto in una trasmissione tv che «i figli hanno bisogno di un padre e di una madre» e aver criticato l’ideologia gender. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Mica tanto. Perché quella appena superata è una battaglia – peraltro senza una assoluzione piena – ma la guerra è più viva che mai.

Cominciamo dalla battaglia appena conclusasi, cosa c’è che non va dottor Ricci?

Ovviamente sono contento della assoluzione, anche se nella delibera si usa il termine improprio di “archiviazione”. Ma a parte questo non può sfuggire che i voti siano stati 7 contro 7 e l’assoluzione non riguarda tanto la legittimità del mio pensiero, quanto il riconoscimento del fatto che avendo avuto a disposizione nel programma incriminato appena 200 secondi su un totale di 40 minuti di trasmissione, non era possibile spiegare compiutamente certe affermazioni dal punto di vista scientifico.

Dice infatti la delibera che «pur permanendo irrinunciabili perplessità in ordine a orientamenti dottrinali e scenari metodologici a cui le affermazioni del dott. Ricci potrebbero voler fare riferimento» è però impossibile «poter affermare oltre ogni ragionevole dubbio che tale diretto collegamento vi sia».

Esatto, è un’assoluzione per insufficienza di prove, come se gli argomenti dell’avvocato e le mie dichiarazioni, sui punti contestati, non fossero servite a nulla. Dei tre capi d’accusa che mi sono stati contestati non c’è traccia nella delibera, come se fosse un tutt’uno per il quale non sono riuscito a convincere la commissione. Ma la giustizia fosse convincere, è constatare una realtà. Ecco, qui possiamo davvero vedere come funzionano le istituzioni oggi: una modalità di controllo e una modalità di gestire la libertà in un modo politico.


È quello che lei sostiene nel libro che ha scritto come riflessione sulla sua vicenda, “Il tempo della postlibertà” (SugarCo edizioni).

Sì, questo è il modo in cui oggi agiscono queste ideologie, tanto più quella più eclatante che è la visione gender che si pone in nome dei diritti dell’uomo, quindi inviolabile e intoccabile: e in nome dei diritti dell’uomo si deve avanzare per la costruzione di un nuovo concetto di sessualità, che ha delle implicazioni sociali, che ha dei tornaconti sociali ed economici, di gestione geopolitica della società. La mia vicenda microscopica in fondo rivela un fenomeno molto più ampio.

Il sottotitolo del suo libro è “Destino e responsabilità in psicoanalisi”…

Questo sottotitolo indica che tutto il dibattito che c’è attorno al destino della civiltà, del pianeta, del consumo di energie riguarda la tessitura di un destino accanto a quello dell’uomo. Noi possiamo vivere e sopravvivere se il pianeta vive, si dice, e a fianco c’è questo tema della responsabilità. Ovvero chi si assume la responsabilità di gestire alla lunga queste tematiche, in termini sociali ma anche individuali. Gli antichi parlavano del foro interno, del foro della coscienza. Vale a dire che vediamo come, facendosi illudere di essere libero, ciascuno rinuncia alla propria coscienza, alla propria soggettività e alla costruzione di un proprio percorso, spirituale, intellettuale, di pensiero autonomo.

Torniamo al suo “processo”. È curioso che nella delibera si dica che non si può risalire con esattezza a cosa intendesse con le affermazioni fatte in trasmissione. Con tutti i libri e i saggi che lei ha scritto non dovrebbe essere difficile conoscere il suo pensiero.

Chiaramente l’avvio di un procedimento disciplinare è un atto di intimidazione. Per tre anni e due mesi sono stato sotto la dicitura dell’incolpato. E questo appena concluso è soltanto un episodio di una guerra molto più vasta, c’è un vero e proprio stalkeraggio nei miei confronti da dieci anni a questa parte. Il primo esposto contro di me è del 2009, poi un secondo nel 2012. Entrambi sono stati archiviati. Poi c’è questo, iniziato nel 2016 e per due mesi, con un atto di sadismo, mi è stata tenuta segreta la sentenza. Ora ci sono altri tre esposti pendenti, presentati nel 2017, 2018, 2019. Basta che chiunque legga una frase del mio libro o un articolo e ciascuno, psicologo e non, è libero di mandare un esposto. L’Ordine può archiviare o aprire il procedimento, ma intanto sono sempre sotto pressione.


A cosa si riferiscono i tre esposti che l’Ordine deve valutare?

Due di questi sono veramente biechi; c’è un anonimo che usa lo pseudonimo “galloverde”, che mi accusa di avere messo dei like su Facebook ai post di qualcuno; in un altro si cita una mia dichiarazione di sei anni fa a Repubblica, mi sembra in occasione di un convegno. Un vero sistema poliziesco. Peraltro in quest’ultimo caso l’Ordine degli psicologi avrebbe dovuto archiviare automaticamente perché dopo 5 anni c’è comunque la prescrizione, invece mi hanno comunque mandato la notifica. Sono chiaramente dei modi di intimidazione e di controllo. Sono psicologo, vado in una trasmissione tv, c’è la pretesa che esprima le posizioni contenute nelle linee guida dell’Ordine. È questa la postlibertà.

Colpendo lei che, comunque ha una carriera importante alle spalle, intimidiscono anche gli altri psicologi, soprattutto i più giovani.

Certo, è una minaccia per tutti. Non per niente ho ricevuto decine di messaggi di congratulazioni e di ringraziamenti da parte di moltissimi psicologi, soprattutto giovani, che temono ritorsioni da parte dell’Ordine.


Da quando è iniziato il suo procedimento, tre anni fa, ad oggi mi sembra che il clima sia peggiorato, basta vedere cosa sta accadendo intorno al Congresso mondiale delle famiglie di Verona.

Rimango sbigottito riguardo al Congresso di Verona per quello che viene detto comunemente nei media, gli stessi da cui apprendiamo quotidianamente le notizie normali, più comuni. Una denigrazione gratuita, anche perché poi vi si innesta la dialettica politica: se qualcuno parla di famiglia bisogna colpire necessariamente perché sono cattolici integralisti, schierati più o meno nel centrodestra. Ecco che torna il tema del destino e della responsabilità: un atteggiamento di questo genere abolisce la responsabilità e quindi il destino è in mano a chissà chi. Non c’è nessuna linea per sostenere quelli che una volta venivano chiamati i fondamentali, i capisaldi di una società. Se non ci sono quelli tutto vacilla, nessuno sa più dove andiamo. Siamo come i ciechi di Bruegel: uno tiene il braccio sulla spalla dell’altro, ciascuno è sicuro che l’altro guidi da qualche parte ma nessuno sa dove vanno.

Peraltro tutto questo si riflette sulle persone che poi vivono una sofferenza psichica e sono anche meno libere nel raccontare il proprio disagio quando su un argomento come quello dell’omosessualità c’è una forte ideologizzazione.

Certo, oggi moltissimi giovani si sentono confusi o avvertono una tendenza omosessuale spinti dalla propaganda martellante. Ci sono soprattutto due fenomeni ricorrenti: il primo riguarda giovani, anche 30enni, che arrivano dicendo che sono andati da diversi psicologi a cui hanno esposto il loro disagio, a cui è stato offerto soltanto l’aiuto a far sì di poter convivere con questa omosessualità. Questo è nell’ordine delle cose perché non dimentichiamo che a sua volta l’Ordine degli psicologi organizza convegni sulla gestione dei disturbi di orientamento di genere dove viene dato questo indirizzo. Qui non si tratta di poter promettere di tornare a praticare l’eterosessualità, ma è importante proporre un cammino per mettere in discussione questo disagio cercando di risalire all’origine, capirne la storia, come si manifesta.

E il secondo fenomeno?

Ragazzi più giovani, massimo ventenni, che si presentano pensando di avere tendenze omosessuali, che però non sono tali. Si tratta di debolezza di virilità, una insicurezza della propria identità virile, una paura verso il mondo delle donne, molto spesso provocata dalla pornografia, che fa sentire poco virili e attratti da quei ragazzi che sono l’immagine di come si vorrebbe essere. Questa non è omosessualità, è una situazione particolare legata a un percorso di crescita. Ma se un ragazzo di questo tipo incontra un altro che lo invita e lo spinge a provare, e viene immesso in circuito molto organizzato come è quello dell’associazionismo gay, lui si convince di essere gay e quindi assumerà quei valori politici rivendicativi, e quel disagio verrà riportato a una identità artificiale. Questo ha delle conseguenze pesanti, talvolta drammatiche. È un fenomeno che nel giro di pochi anni ha visto una grande crescita.











fonte

giovedì 28 marzo 2019

L'ozio secondo San Benedetto








“L’ozio è nemico dell’anima”, afferma san Benedetto nel capitolo 48 della Regola. Allora noi, che abbiamo la grazia di amare la nostra anima, vediamo come sfuggire a questo nemico della vita spirituale.

Occorre anzitutto ricordare che il tempo che ci è dato da Dio ha un prezzo e un valore immensi. È quindi troppo prezioso per essere sprecato, e al contrario in ogni tempo “bisogna dunque servirsi delle grazie che [Dio] ci concede” (Prologo della Regola). Certo, bisogna anche sapersi riposare, ricreare. Ma un sano rilassamento differisce radicalmente dalla sterile inoperosità.
È perciò cosa buona sapere che se nella vita spirituale l’ozio è frequente, può essere legato all’accidia, ovvero a un certo disgusto delle cose di Dio. Lo stesso san Benedetto opera questa analogia quando evoca la figura di quel “monaco indolente che, invece di dedicarsi allo studio, perda tempo oziando o chiacchierando” (capitolo 48).
Concretamente, san Benedetto ci propone due grandi aiuti contro l’ozio. Il primo, più pratico, consiste nel pianificare la nostra giornata, per essere certi che l’essenziale sia veramente prioritario. A tal proposito, notate che nella clausura le attività del monaco (preghiera, lavoro, lettura, pasto, sonno) non sono mai lasciati alla spontaneità di alcuno, ma sono debitamente regolate. Lezione preziosa da custodire! Il secondo consiste nel coltivare fedelmente la nostra unione con Dio. Giacché più la nostra presenza a Dio s’intensificherà, più saremo desiderosi di fare fruttificare secondo il suo cuore il tempo che ci concede.
Infine, diffidiamo di un ozio di nuovo genere: quelle ore passate su internet, senza un fine preciso, a lasciarsi trascinare di collegamento in collegamento, di articolo in articolo, di notizia in notizia… Per cosa, alla fine? Una perdita di tempo e di energie considerevoli a discapito dell’essenziale, la vita di coppia, della famiglia, della preghiera. Siete voi stessi a dircelo!
La prossima volta, P come preghiera.


[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, del Monastero Sainte-Marie de la Garde, n. 31, 6 marzo 2019, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]














mercoledì 27 marzo 2019

UNA REALTÀ ATROCE. L’aborto, le fiabe e la metafora del cannibalismo





Hansel e Gretel e Pollicino raccontano il cannibalismo. I bambini sono stati mangiati. Allo stesso tempo queste due meravigliose e terribili fiabe diventano anche la metafora dell’aborto. I genitori che non hanno la volontà di tenere i loro figli, li abbandonano in un luogo di morte, il bosco cupo delle fiabe, la sala operatoria della clinica.




di Silvana De Mari, 27-03-2019
Come spiega Kafka, le fiabe sono il luogo dove teniamo i mostri. Quando qualcosa è troppo atroce per raccontarlo apertamente, lo nascondiamo nelle volute d’oro e d’argento della letteratura fantastica. Hansel e Gretel e Pollicino parlano di situazioni di miseria talmente atroce che i genitori compiono la scelta atroce di abbandonare i loro bimbi in boschi dove qualcuno li mangerà.

La parola atroce è stata scritta tre volte in poche righe
, e non è un caso, non è un errore, non è una disattenzione. Non esiste nessun altro sinonimo che abbia uguale potenza e quindi è giusto che questa parola risuoni come rintocchi di una campana a morte.

Il figlio è la prima cosa che dovremmo proteggere
. È la nostra proiezione dell’eternità. È la nostra maniera di incidere nella storia. Quando il bambino diventa sacrificabile, quando la sua vita non è più un bene supremo, allora vuol dire che una società ha perso la decenza minima, è scesa sotto il minimo consentito. Le fiabe raccontano la verità. Hansel e Gretel e Pollicino raccontano il cannibalismo. I bambini sono stati mangiati. Durante le terrificanti carestie, durante la Guerra dei Trent’anni in Germania e anche in epoca più recente nell’Ucraina martoriata da Stalin, prima di morire di fame si mangiano i cadaveri. E i bambini muoiono prima, o è più facile acchiapparli. Durante la carestia in Ucraina, un paio di valorosi giornalisti riuscì a raggiungere quelle lande disperate e, tornato in Occidente, raccontò che in quei luoghi di gente scheletrica che si accasciava lungo le strade troneggiavano, appesi ai muri, manifesti dove lo Stato Sovietico ricordava che era vietato mangiare i cadaveri, pena la fucilazione.

I vari partiti comunisti si scatenarono a spiegare che era una fake news
, che si andava ad aggiungere alle altre fake news, i gulag, la Siberia, la Kolyma, le fucilazioni, i lavori forzati in condizioni disumane: tutte fake news. Un folto gruppo di giornalisti amici fu condotto a visitare un paio di fattorie modello con i bimbi tutti carini che cantavano in coro. Stesso discorso avvenne in Germania quando le informazioni sui campi terribili dove gli ebrei venivano uccisi riuscirono ad affiorare. Funzionari della Croce Rossa e giornalisti furono condotti al campo di concentramento modello di Terezin dove bimbi carini, ben vestiti e ben nutriti cantavano in coro.

E torniamo ad Hansel e Gretel e Pollicino
: queste due meravigliose e terribili fiabe diventano anche la metafora dell’aborto. I genitori che non hanno la volontà di mantenere i loro figli, li abbandonano in un luogo di morte, il bosco cupo delle fiabe, la sala operatoria della clinica. Sono luoghi di morte, il luogo dove il corpo dei bambini sarà smantellato, distrutto, smembrato. La strega e l’orco diventano la metafora del bidone dei rifiuti che “mangia” il corpo del bambino, diventano una metafora della morte.

Quando una donna scopre di essere incinta, scopre di essere diventata madre
. Spesso si ritiene l’aborto una specie di macchina del tempo che possa riportare la situazione a prima: prima che la donna diventasse madre. Purtroppo questo non è possibile. La donna incinta non ha più la scelta se diventare madre o no. È già madre. Ha la scelta se diventare madre di un bambino vivo o la madre di un bambino morto, e se fa la seconda scelta entra sotto le ali della morte. Il nostro inconscio registra la perdita terribile, registra la violazione del più potente, ancestrale degli istinti, l’istinto materno, alloggiato in tutte le aree del cervello. Cominciano depressione, stanchezza, cefalea, malattie allergiche, oppure una sottilissima forma di auto aggressione, una specie di tendenza a buttare via la propria vita, a scegliere sempre gli uomini sbagliati, o i lavori sbagliati o i luoghi sbagliati o la maniera di guidare sbagliata.

Il parallelo tra aborto e cannibalismo è metaforico
: il corpo del bambino non amato non ha valore, può essere smembrato dall’aspiratore o dalle pinze chirurgiche o dalle fauci della creatura cannibale di turno. Cannibalismo metaforico è lo smembramento del corpo dell’altro e lo sfruttamento del corpo dell’altro. Possiamo considerare cannibalismo metaforico il fatto che la Planned Parenthood venda le parti dei feti abortiti: hanno grande valore sul mercato dell’industria farmacologica. Possiamo sicuramente considerare cannibalismo le situazioni dove parte dei corpi abortiti finiscono in corpi di altri esseri umani anche se non attraverso il sistema classico della digestione ma attraverso un intervento di iniezione diretta? Per produrre vaccini contro morbillo, parotite, rosolia, varicella ed epatite A si usano linee cellulari ottenute da due aborti volontari del 1962 e 1966, dai cui polmoni sono stati estratti fibroblasti (cellule del tessuto connettivo) che hanno composto le linee cellulari WI-38 e MRC-5, tuttora utilizzate.

Nel febbraio del 2004, il neurologo cinese Huang Hongyun
si presentò al congresso sulle lesioni spinali a Vancouver, in Canada, con impressionanti video di recupero di funzioni da parte di persone con sclerosi laterale amiotrofica, malattia che conosco bene, dato che ne era affetta mia madre. I risultati del neurologo cinese sono spettacolari, ma temporanei, e si ottengono prelevando da feti di 16 settimane i bulbi olfattivi: da lì vengono prese le cellule da iniettare nel paziente. Come si fa a ottenere il feto di 16 settimane? Quando il paziente occidentale prenota l’intervento costa circa 20.000 dollari e la prenotazione viene perfezionata in genere dopo 16 settimane. Quindi è sospettabile che il feto venga messo in cantiere non appena c’è la trattativa. Si dà per scontato che sicuramente ci sarà un qualche feto di 16 settimane abortito proprio al momento “buono”, oppure ci sono donne che vengono messe incinte in previsione dell’intervento? Così si avrebbe la certezza che il feto sia pronto alla datazione giusta; l’aborto deve precedere immediatamente l’intervento sul paziente occidentale.

Chi sono queste donne? Sono volontarie o no?
Vengono messe incinte apposta, o semplicemente si chiede a una donna che vuole abortire al secondo mese di avere la cortesia di aspettare il quarto? La Cina pullula di edificanti campi di concentramento per gli oppositori politici. È un Paese dove molti arbitri son possibili. Cosa prova una donna a portare un feto condannato a morte? Nel momento in cui il paziente è arrivato in Cina ed è ricoverato in clinica si procede all’aborto di un feto di 16 settimane, con i fasci spino-talamo-corticali già formati, quindi in grado di percepire il dolore.

Hansel e Gretel e Pollicino sono sempre dispersi nel loro bosco.
















martedì 26 marzo 2019

Politically correct, “è colpa nostra” come catechismo




Il politically correct è come un “catechismo civile”, una somma di “precetti”, di divieti, di censure in cui si compendia la retorica di un’ideologia ben precisa: quello che possiamo chiamare neo-progressismo, ideologia dell’Altro. È entrato nelle nostre vite “con una martellante opera di propaganda, di estensione e profondità ‘orwelliane’, che pretende di eliminare dai prodotti culturali, dalla dialettica politica, dai comportamenti pubblici e privati, dai luoghi della formazione, ogni termine o concetto che possano essere considerati ‘discriminatori’, ‘offensivi’, per imporre un’idea di ‘rispetto’ che in effetti coincide con un totale indifferentismo, nel quale la ‘verità’ politica è decisa volta a volta dalle élite che ‘dettano la linea’ alle società”. 
Intervista a Capozzi, autore del libro “Politicamente corretto. Storia di un’ideologia”.



di Aurelio Porfiri

Uno degli strumenti del potere per non vedere le cose come sono è senz’altro il politically correct. C’è un libro di Eugenio Capozzi che si chiama Politicamente corretto. Storia di un’ideologia (Marsilio 2018) che vale veramente la pena leggere. Un libro che ci conduce all’interno dei meccanismi di questa ideologia, che è poi una gnosi, con grande erudizione e capacità di analisi. Eugenio Capozzi è professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli “Sant’Orsola Benincasa”. La Nuova BQ l’ha intervistato.


Professore, come si è avvicinato al tema del politically correct?
E’ stata la consapevolezza che la rivoluzione culturale prodotta dai movimenti giovanili degli anni Sessanta ha rappresentato forse la cesura più decisiva nella storia politica del Novecento. Se si guarda alle categorie, alla terminologia, ai luoghi comuni, al conformismo di pensiero che connotano attualmente le classi dirigenti delle democrazie industrializzate ci si accorge che tutti questi elementi sono comprensibili soltanto riportandoli a quel grande cambiamento di mezzo secolo fa. Quella somma di censure, delegittimazioni, edulcorazioni linguistiche che oggi chiamiamo “politically correct”.


Come definirebbe il politically correct?
Come un “catechismo civile”, una somma di “precetti”, di divieti, di censure in cui si compendia la retorica di un’ideologia ben precisa: quello che possiamo chiamare neo-progressismo, ideologia dell’Altro, “utopia diversitaria” (per dirla con Mathieu Bock-Coté). Ossia l’ideologia che condanna in blocco come imperialista e discriminatoria la cultura euro-occidentale, e progetta di cambiare la mentalità dell’umanità per sostituirla con un radicale relativismo culturale ed etico. E’ una retorica che è diventata il tratto distintivo delle élites politiche, intellettuali, istituzionali, mediatiche, e dell’intrattenimento di massa in Occidente tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, conquistando un sostanziale monopolio sul linguaggio e sull’etica pubblica, in assenza di “narrazioni” contrapposte dotate di pari rappresentatività.


Ci fa alcuni esempi di come il politically correct è entrato nelle nostre vite?
Con una martellante opera di propaganda, di estensione e profondità “orwelliane”, che pretende di eliminare dai prodotti culturali, dalla dialettica politica, dai comportamenti pubblici e privati, dai luoghi della formazione, ogni termine o concetto che possano essere considerati “discriminatori”, “offensivi”, espressioni di una concezione gerarchica e di valori “forti”, per imporre un’idea di “rispetto” che in effetti coincide con un totale indifferentismo, nel quale la “verità” politica è decisa volta a volta dalle élite che “dettano la linea” alle società. La tesi principale è quella secondo cui il tramonto delle grandi ideologie europee otto-novecentesche apre la strada ad una potente svolta delle classi dirigenti occidentali in senso relativistico-nichilistico, soggettivistico, edonistico, antiumanistico.


Lei chiama il politically correct una ideologia, una ideologia dell’Altro. Perché?
Nel senso che il nuovo progressismo impostosi con la ribellione dei giovani baby boomers occidentali non rivendica più l’instaurazione della libertà, dell’uguaglianza o della giustizia attraverso misure economiche o provvedimenti politici, ma pretende invece di estirpare le radici del dominio e delle discriminazioni presenti, a suo dire, nella storia culturale occidentale attraverso un radicale processo di modificazione del modo di pensare, dei concetti, del linguaggio. Un obiettivo che in realtà rappresenta un vero e proprio azzeramento, un “parricidio” delle radici culturali occidentali. Se l’uomo occidentale storicamente ha incarnato la violenza, la repressione, l’imperialismo, egli deve essere “rieducato” accogliendo tutti i modelli culturali, tutte le condizioni esistenziali, tutte le componenti minoritarie che ha soggiogato in passato per rinnovarsi e rigenerarsi. L'"altro", ridotto ad un concetto astratto, diventa il salvatore, il redentore di una storia sbagliata, e la radice di una nuova civiltà più gentile, tollerante, in cui i conflitti, una volta eliminato il “peccato originale” del dominio, della gerarchia, del “pensiero forte”, dovrebbero sparire.


Afferma nel suo libro che le ideologie sono eredi di una tendenza gnostica della cultura moderna. Quindi il politically correct è fenomeno di tipo gnostico?
Assolutamente sì. Esso rappresenta appunto l’ultima e più radicale forma di gnosticismo moderno. Il male da eliminare dal mondo non è più la dominazione straniera, la disuguaglianza civile e politica, il capitalismo, o altri fattori economici e politici del genere, ma la storia di una civiltà tout court, con la mentalità che essa ha prodotto. E’ quella la radice del male, quindi la salvezza non può che venire dalla “de-occidentalizzazione” del mondo e dello stesso Occidente. Se i colpevoli dei mali del mondo siamo “noi”, dobbiamo espiare i nostri peccati rinunciando alla nostra identità, per dissolverci nel grande magma di un mondo dalle identità fluide, precarie, affidate totalmente volta a volta all’autodeterminazione dei soggetti.


Come ci si libera dal politically correct?
Pensare che il politically correct possa essere abolito per decreto o in un colpo solo sarebbe un’idea altrettanto ideologica di quella coltivata da chi pensa che il progressismo diversitario e la sua retorica rappresentino una realtà inevitabile e salvifica. Quello che noi possiamo fare è mostrare come esso abbia avuto una precisa origine e dunque non sia né eterno né inevitabile. Non a caso, il monolitico dominio della “narrazione” politicalcorrettista ha cominciato a mostrare le prime, serie crepe quando, a partire dalla grande crisi economico-finanziaria del 2008, quelle classi dominanti sono entrate in crisi, e hanno cominciato ad essere sfidate dai “perdenti della globalizzazione”, con la crescita dei movimenti sovranisti, identitari, neo-nazionalisti.


Fonte: La nuova Bussola Quotidiana










sabato 23 marzo 2019

Quel sentimentalismo che infiacchisce lo spirito e non porta a Dio




di Aldo Maria Valli 23/03/2019

Liturgia, musica sacra, livello culturale nella Chiesa. Il maestro Aurelio Porfiri prosegue nella sua riflessione e punta l’attenzione su quel sentimentalismo zuccheroso che anche attraverso la musica sacra è entrato nella vita della Chiesa deformando la spiritualità cattolica. Perché questa situazione? Solo la conseguenza di una serie di errori o il frutto di una precisa strategia?

A.M.V.


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Nei precedenti interventi ci siamo occupati del basso livello culturale che caratterizza anche la vita della Chiesa. Ora, specialmente nei paesi dell’Occidente, non possiamo negare che il livello culturale medio delle persone si è grandemente alzato. Rispetto al passato, molte più persone possiedono elevati titoli di studio e hanno modo di conoscere e informarsi. Accanto a questo abbiamo però un imbarbarimento dell’offerta culturale, quasi del tutto dominata dalle logiche commerciali. Quindi se da un lato le persone sono in grado si sapere di più e meglio, dall’altro sono esposte al rischio della manipolazione da parte dei mass media e dell’industria culturale, un mondo che dispone di mezzi economici enormi e sa come controllare e manovrare la narrativa. Chi controlla la cultura (Antonio Gramsci docet) ha il controllo della gente.

Anche i buoni cattolici che anzora vanno a Messa sono inevitabilmente il frutto di questa società in gran parte dominata da una narrativa imposta per fini commerciali e ideologici. Quindi, tranne rare e lodevoli eccezioni, le persone che vanno a Messa, come tutte, sono (de)formate da impulsi potentissimi. Proprio per questo sarebbe stato necessario uno sforzo grande, dopo la riforma liturgica, per mantenere alto il livello delle celebrazioni, disporre di musicisti capaci e professionali ed evitare le derive alle quali oggi assistiamo. Ma non è stato così.

La cosa strana è che se devi parlare di teologia, chiami un teologo; se devi parlare di medicina, chiami un medico; se devi parlare di filosofia, chiami un filosofo; invece quando si tratta della musica sacra ecco che ci può mettere mano chiunque. Non ne faccio questione di diplomi, ma di preparazione professionale.

Nel momento di valutare un musicista bisognerebbe porre domande precise. Conosce adeguatamente il repertorio tradizionale della Chiesa? È in grado di valutare il livello qualitativo di una composizione? Conosce bene la liturgia e le sue scansioni rituali? Possiede un livello tecnico adeguato per suonare, dirigere, cantare? Ha una preparazione musicale di base adeguata?

Possedere un curriculum all’altezza del compito richiede studio, tempo, preparazione, approfondimento. Ecco perché senza un investimento in questa direzione ci si consegna al dilettantismo volontaristico che non porta a nulla, se non all’assoggettamento alla narrativa imposta dall’alto. Una narrativa che viene dalla società ma, purtroppo, anche dalla Chiesa.

Ci sono infatti ampi settori della Chiesa che cercano di imporre una certa visione del cattolicesimo, in contrasto con la tradizione della Chiesa stessa. Questa visione, segnata dalla demagogia, dall’enfasi posta sul “popolo” e dalla richiesta di abbassare il livello della proposta per aiutare la “partecipazione”, è ormai trionfante nelle nostre liturgie. E così eccoci al paradosso: mentre le persone hanno mezzi culturali potenzialmente più elevati, si ritiene un bene tenerle nella mediocrità culturale. Una mediocrità che poi inevitabilmente si riflette in una pochezza spirituale.

Ma è vero che le persone non apprezzano più la tradizione musicale della Chiesa? Che non apprezzano le belle forme nella musica, come chiedeva san Pio X? Che fuggono di fronte al bello musicale?

Certamente non è vero. È vero che sono diseducate, ma quando vengono adeguatamente istruite e rese consapevoli dell’effetto spirituale della vera musica sacra, l’apprezzano moltissimo.

Ecco il punto: l’adeguata preparazione. Non è stato proprio il Vaticano II a richiamare l’importanza della formazione liturgica dei fedeli? Invece abbiamo avuto la desertificazione culturale e liturgica.

A mio giudizio dietro c’è una strategia. L’idea è sradicare la vera musica sacra dalla liturgia per sostituirla con una musica in linea con la narrativa dominante, fatta di misericordia senza giustizia. Ecco così la musica dolciastra e sentimentale che domina nelle nostre liturgie, buona per infiacchire ancora di più le già prostrate anime dei fedeli. Chi ha potuto abbeverarsi ad una fonte più pura, sente repulsione per i repertori che vanno per la maggiore nelle nostre parrocchie. Chi conosce la vera musica sacra rifiuta il sentimentalismo zuccheroso della musica attuale.

Il sentimentalismo è la corruzione del sentimento. Mentre quest’ultimo, quando si volge alla religione, può portarci a Dio, il sentimentalismo è un’autocelebrazione. Il sentimentalismo non aiuta a raggiungere Dio ma si autocompiace della propria fragile emozionalità. Una liturgia ripiena di canti all’insegna del sentimentalismo si autodistrugge dall’interno.

Questo sentimentalismo di tono effemminato si sposa con un clima culturale generale di sdilinquimento. E così eccoci in preda a una certa svenevolezza che nulla ha a che fare con la spiritualità cattolica.

Mi chiedo: se ogni chiesa disponesse di un musicista capace e professionalmente formato, sarebbe ancora possibile per questi orribili repertori diffondersi come succede adesso? Forse i problemi non sarebbero eliminati, ma certamente il sentimentalismo incontrerebbe qualche ostacolo, perché un musicista che sappia il fatto suo è in grado di distinguere la vera musica sacra da quella falsa.

Torno a chiedermi: non sarà che questa mediocrità, che si nutre anche dell’estromissione dei bravi musicisti dalla Chiesa, fa il gioco di una certa narrativa che si è imposta a vari livelli? Non sarà che questa mediocrità è uno strumento utile per veicolare messaggi che non potrebbero passare con altrettanta facilità se nei fedeli ci fosse una maggior consapevolezza circa il bello e il sacro?

Aurelio Porfiri













giovedì 21 marzo 2019

I vescovi luterani norvegesi, l’aborto e la “lungimiranza” di certo cattolicesimo



di Aldo Maria Valli, 21/03/2019

Anni fa, a Oslo, durante una cena conobbi un pastore luterano norvegese. Incominciammo a chiacchierare e scoprii che era sposato. Non solo. Era sposato, divorziato e risposato. Con una pastora. A sua volta divorziata e risposata, se non ricordo male.

Temo che l’espressione del mio volto tradì una certa sorpresa, perché il pastore disse: “Lo, so, per voi cattolici romani è difficile capire”. Lo disse con quel tono di condiscendenza che a volte i nordici assumono nei confronti di noi meridionali, e la mia impressione fu che stesse pensando: “Ma prima o poi ci arriverete anche voi”.

All’epoca il papa era Giovanni Paolo II e il sottoscritto pensò: “Questi luterani si credono tanto progrediti ma non hanno capito che, semplicemente, hanno ceduto alle logiche del mondo e tradito i comandamenti divini”. Da povero ingenuo quale sono, ringraziai in cuor mio il buon Dio per avermi fatto nascere cattolico e mi sentii al riparo da certe derive. Ma oggi, tanti anni dopo, e dopo tanto ecumenismo à la page, non sarei più così sicuro.

L’episodio mi è tornato alla mente quando ho letto che i vescovi luterani norvegesi hanno sottoscritto una dichiarazione sull’aborto nella quale dicono che “la Chiesa, come istituzione, nel corso della storia ha mostrato una mancanza di coinvolgimento per la liberazione e i diritti delle donne”.

Mancanza di coinvolgimento per la liberazione e i diritti delle donne?

Vado avanti e leggo: “Una società con accesso legale all’aborto è una società migliore di una società senza tale accesso. Previene l’aborto illegale e promuove la salute e la sicurezza delle donne”.

Sembra la dichiarazione di un partito politico filoabortista. Tanto più che i “pastori”, a scanso di equivoci, si premurano di sottolineare: “Non vogliamo mettere in discussione la legge sull’aborto”.

E potevano mancare le scuse? Certo che no. “Siamo spiacenti. Come Chiesa dobbiamo cambiare il nostro modo di parlare dell’aborto e di prenderci cura delle persone colpite”.

E poteva mancare l’ambiguità? Certo che no. L’obiettivo della Chiesa, scrivono infatti i vescovi, non è tanto mettere in discussione la legislazione (in Norvegia l’aborto è legale fino alla dodicesima settimana di gestazione), e nemmeno mettere in discussione il fatto che il feto sia una vita “che ha valore e chiede protezione”, quanto “promuovere una comunione inclusiva”.

Comunione inclusiva? E che vuol dire?

E poteva mancare l’ambivalenza? Certo che no. E infatti i vescovi, pur lasciando intendere che il feto, tutto sommato, è una persona, alla fin fine difendono la legge che fa dell’aborto un diritto, alla faccia del diritto di quella persona che non ha voce per rivendicare il suo diritto alla vita.

E poteva mancare l’appello al dialogo? Certo che no. Infatti i vescovi luterani dicono, e di nuovo si scusano, che essersi opposti alla liberalizzazione dell’aborto ha peggiorato il dialogo con la società e con le donne.

Mea culpa, ambiguità, ambivalenza, trasformazione del dialogo in nuovo dogma: dove ho già sentito questo repertorio?

E il bello (naturalmente si fa per dire) è che queste prese di posizione dei vescovi luterani arrivano proprio mentre la politica ripensa certe questioni sotto una nuova luce, come dimostra il fatto, per restare alla Norvegia, che il premier Erna Solberg, del partito conservatore, ha parlato di possibile modifica in senso restrittivo della legge sull’aborto per quanto riguarda gli aborti selettivi, e la suprema corte ha riconosciuto il diritto dei medici di non procedere con trattamenti sanitari quando questi siano avvertiti come contrari alla loro coscienza.

Quindi mentre politica e società, perfino in un paese ultra-secolarizzato come la Norvegia, per la prima volta vanno in una direzione meno relativista, ecco che un bell’assist alla mentalità relativista arriva dalla Chiesa luterana. Che certi cattolici corteggiano perché Lutero “ha fatto una medicina per la Chiesa” e noi saremmo indietro di qualche secolo.

Complimenti vivissimi per la lungimiranza.

Aldo Maria Valli



















mercoledì 20 marzo 2019

Gary Cooper e John Wayne, quando le star vincono davvero (dicendo sì a Cristo)





Il Timone, 23-2-19, Ermes Dovico

Sono tra le più grandi star della storia del cinema
e in una classifica pubblicata nel 1999 dall’American Film Institute figurano uno all’11° e l’altro al 13° posto tra gli attori maschili: parliamo dello statunitense Gary Cooper (1901-1961) e del connazionale John Wayne (1907-1979), due icone del western ma capaci di spaziare in diversi altri generi cinematografici. Famosissimi per le loro interpretazioni davanti alla cinepresa, sono invece molto meno note le rispettive storie di successo che vanno oltre gli applausi del mondo e hanno un nome dal gusto eterno: conversione.


GARY COOPER, DALLA PROPRIA VOLONTA’ A QUELLA DI DIO


Partiamo da Gary (Frank James alla nascita) Cooper,
nato nel Montana da genitori britannici e divenuto attore quasi per caso, «per sbarcare il lunario, dopo aver fallito come disegnatore e caricaturista politico», come raccontò alla giornalista Hedda Hopper. Il 15 dicembre 1933 sposò la cattolica Veronica Balfe, attrice appassionata di sport e chiamata dagli amici “Rocky”, che quattro anni più tardi partorì l’unica figlia, Maria. Gary tradì la moglie più volte avendo flirt con alcune delle più belle dive di Hollywood, fino a perdere la testa nel 1948 – sul set del film La fonte meravigliosa – per Patricia Neal, di 25 anni più giovane di lui: la relazione adulterina si spinse al punto che nel ’51 Cooper lasciò la famiglia con l’intenzione di divorziare da Veronica e accasarsi con l’amante, ma qualche tempo dopo tornò sui suoi passi comprendendo il vuoto della sua vita.


Intanto, già nel ’50, era iniziato un lento, tortuoso
ma comunque importante percorso di avvicinamento alla fede. Tre anni più tardi lui e la moglie, all’epoca ancora separati, incontrarono in udienza Pio XII, davanti al quale fece una gaffe (ricordata sull’Osservatore Romano): nell’atto di inginocchiarsi gli caddero le immaginette, le medaglie e i rosari che aveva portato con sé per farli benedire dal Santo Padre. Al di là di quel fugace imbarazzo l’incontro con papa Pacelli lo colpì molto, ma prima del superamento definitivo dei suoi mali (cadde in altri tradimenti) dovette succedere un altro fatto decisivo. Un giorno, di ritorno dalla Messa, la moglie e la figlia presero a parlare di padre Harold Ford, della sua erudizione e simpatia. Gary ne rimase intrigato: «Mi piacerebbe ascoltarlo un giorno». «Bene, vieni con noi», gli rispose Veronica. In breve Gary conobbe padre Harold, il «don Tipo Tosto» come l’aveva ribattezzato e con il quale condivideva tanti interessi. E iniziò ad andare a Messa ogni domenica.


In questo periodo lo aiutò tra l’altro a meditare uno dei Pensieri di Blaise Pascal
, il 553, riferito a Gesù: «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato». Il 9 aprile 1959, Cooper ricevette infine il Battesimo nella Chiesa cattolica. Rispondendo nello stesso anno a Barry Norman che gli chiedeva il perché avesse compiuto quel passo, l’attore, dopo aver ricordato gli anni spesi a fare quasi esclusivamente la sua propria volontà, gli disse: «Lo scorso inverno ho iniziato a soffermarmi un po’ di più su ciò che avevo in mente da tanto tempo [e ho pensato]: Coop, vecchio mio, devi qualcosa a Qualcuno per tutta la tua buona sorte». Pochi mesi più tardi Cooper scopre di avere un tumore alla prostata. Urla contro quel Dio crocifisso a cui aveva da poco detto sì? Niente affatto. La malattia progredisce, il cancro va in metastasi, ma lui è sereno. «Ciò che l’ha aiutato di più è la sua fede», dirà la moglie. «Lui non ha mai chiesto: Perché io? E mai si è lamentato». Ricevette allora molti messaggi, tra cui quelli di John Wayne e san Giovanni XXIII. «Io so che quello che sta succedendo è volontà di Dio. Non ho paura del futuro», dirà pochi giorni prima della morte. Che arriverà il 13 maggio 1961, festa della Madonna di Fatima.


JOHN WAYNE, SCOPRIRE DIO GRAZIE ALLA FEDELTA’ DELLA MOGLIE

Anche John Wayne, al secolo Marion Robert Morrison
, ebbe diverse amanti e addirittura, prima della conversione, divorziò due volte e altrettante volte si ‘risposò’ civilmente. Cresciuto in una famiglia di confessione presbiteriana, il 24 giugno 1933 sposò un’ispano-americana e cattolica devota: Josephine Alicia Saenz. Da lei avrà quattro dei suoi sette figli e a lei deve un pezzo di Paradiso. Anche dopo il divorzio voluto e ottenuto dall’attore (1945), Josephine manterrà fede al sacramento (si risposerà a 17 anni dalla morte di Wayne, già anziana) e pregherà incessantemente per la salvezza eterna del marito, consapevole di essere stata trasformata realmente in «una carne sola» con lui.


Come ha spiegato uno dei 21 nipoti della stella del western
, padre Matthew Muñoz, in un’intervista alla Cna: «Mia nonna Josephine ha avuto un’influenza meravigliosa sulla sua vita e gli ha fatto conoscere il mondo cattolico», coinvolgendolo in vari eventi della Chiesa e raccolte benefiche. Anche per John Wayne il cammino di conversione è stato lunghissimo – ostacolato da una vita non certo esemplare tra adesione alla massoneria, peccati carnali, eccessi nell’alcol e nel fumo (contrarrà un tumore ai polmoni già nel ’64) – ma il salutare influsso esercitato dalla moglie darà alla lunga i suoi frutti facendogli scoprire la bellezza del cattolicesimo.


Un anno prima di morire, già malato di tumore allo stomaco
, ricevette il Battesimo dalle mani dell’arcivescovo di Panama, Marcos McGrath. All’atto del sacramento erano presenti la mamma e lo zio di padre Muñoz, che racconta pure come il nonno si rammaricasse di non essere divenuto cattolico già prima: «Questo fu uno dei sentimenti che espresse prima di morire», lamentando «una vita indaffarata». Il nipote sacerdote ricorda anche i pensieri scritti a mano da Wayne e rivolti al Creatore: «Ha scritto belle lettere d’amore a Dio, ed esse erano preghiere. Erano scritte alla maniera di un bambino e molto semplici ma allo stesso tempo anche molto profonde». Come coloro che tornano bambini per entrare nel Regno dei Cieli.














giovedì 14 marzo 2019

FARMACO BLOCCA-PUBERTA': Triptorelina, le domande a cui Avvenire non sa rispondere




È lecito moralmente "cambiare sesso"? Cosa dicono la Scrittura e il Magistero su riassegnazione del sesso e transessualismo? Ed è lecito bloccare la pubertà senza cambiare sesso? Un lungo articolo di Avvenire sostiene che le risposte a queste domande siano ancora da trovare, ma non è così: legge naturale e magistero della Chiesa sono già chiari al proposito.




VITA E BIOETICA
Tommaso Scandroglio, 14-03-2019

Tiene ancora banco sui media la questione sull’efficacia dell’uso della triptorelina per risolvere problemi psicologici di pre-adolescenti e adolescenti che interessano la cosiddetta disforia di genere. Il farmaco verrebbe usato per bloccare la pubertà. In tal modo, si sostiene, il ragazzo avrebbe tempo per superare i suoi disturbi psicologici - non pressato da un corpo che si sviluppa sessualmente e che non percepisce come proprio - e per decidere se “cambiare sesso”. In questo caso il farmaco sarebbe di aiuto perché permetterebbe di intervenire chirurgicamente e in modo più agevole su un corpo che non ha ancora sviluppato appieno i caratteri sessuali primari e secondari.

Sul tema è intervenuto anche Luciano Moia con un interessante articolo, pubblicato ieri su Avvenire, dal titolo “Farmaco gender, servono chiarezza e misericordia”. L’articolo è interessante perché punta la lente di ingrandimento sugli aspetti nevralgici dell’intera questione triptorelina. Partiamo dalla prima domanda che si pone Moia: «Il ‘cambio di sesso’ è eticamente accettabile?». La risposta che noi diamo è negativa: il “cambio di sesso” è azione intrinsecamente malvagia.

Tentiamo di spiegare le motivazioni. Intanto per “cambio di sesso” si intende una serie di interventi chirurgici e/o di interventi attuati tramite preparati chimici sui caratteri sessuali primari (gonadi maschile e femminile) e secondari (gli organi copulatori e di conserva aspetti morfologici come la impalcatura scheletrica, la peluria, etc.) al fine di renderli differenti dal proprio sesso genetico. Dunque le espressioni “rettificazione sessuale” e “cambiamento di sesso” sono menzognere, perché, ad esempio, l’uomo transessuale si travestirà pure da donna, ma continuerà ad essere uomo dato che i suoi cromosomi rimarranno XY (da tener distinto invece l’intervento di rettificazione sessuale per finalità terapeutiche quando si presentano anomalie, ad esempio morfologiche, a danno delle gonadi o dei genitali: in questi casi l’intervento è lecito quando si tenta di armonizzare il corpo con il sesso cromosomico).

"CAMBIAMENTO DI SESSO", ATTO MALVAGIO

Perché il “cambiamento di sesso” è atto intrinsecamente disordinato? Il motivo sta nel fatto che il sesso è aspetto identitario della persona. Attenzione: non il sesso in generale, bensì il sesso maschile è elemento identitario per gli uomini e il sesso femminile è elemento identitario per le donne. Per quale motivo? La nostra identità – chi siamo noi, quell’unico e irripetibile Mario - risiede primariamente nella nostra anima razionale la quale informa il corpo e comunica a questo la sua identità. Ora il corpo umano è la materia adeguata per ricevere l’anima razionale. Potremmo dire che il corpo umano è la custodia adatta per ricevere l’anima razionale. Da ciò consegue che quella particolarissima anima di Mario – l’identità di Mario - necessita non solo di un corpo umano qualsiasi, ma solo di quel corpo umano, proprio perché quel particolarissimo corpo di Mario è l’unico adatto alla sua altrettanta particolarissima anima.

Ciò vuol dire che l’anima di Mario – il suo irripetibile modo di avere l’essere (identità) – non poteva che informare quella precisissima e irripetibile materia umana che ha avuto al momento del concepimento, con tutte le sue peculiari e uniche caratteristiche costitutive ed essenziali tra cui il sesso maschile. Se l’identità risiede nell’anima razionale e se il corpo, come orma nella sabbia, riproduce in sé dal punto di vista materiale tutte le caratteristiche di quell’unica anima, vuol dire che le sue caratteristiche essenziali riproducono l’identità della persona. E quindi la particolare consonanza dell’elemento fisico con l’anima razionale deve essere rinvenuta anche nel sesso genetico.

In questo senso il sesso maschile e quello femminile sono identitari, perché sono peculiarità di una materia umana che è specchio empirico fedele della nostra identità, quasi che la nostra anima imprimesse il suo carattere nella materia, modificandola, anche nel dato sessuale, per essere a lei adeguata. Questo non significa che l’anima abbia sesso, ma l’anima di Mario ha il suo modo di essere immutabile che, tra gli altri aspetti, è consono solo a un corpo maschile, esige quel corpo maschile: l’identità di Mario espressa dall’anima razionale non può che reclamare un corpo maschile. Ecco perché il sesso maschile e il sesso femminile sono identitari, perché riproducono autenticamente nella materia umana l’identità espressa dall’anima razionale. Mario non può che essere maschio perché solo nella mascolinità troviamo riflessa la sua identità.

Ora se il sesso maschile per l’uomo e quello femminile per la donna sono aspetti identitari tutto ciò che riguarda il sesso maschile deve concordare con tale sesso e tutto ciò che riguarda il sesso femminile deve concordare con tale sesso. E dunque dato che Mario è maschio – e a dircelo sono i cromosomi XY – anche i caratteri sessuali primari e secondari devono essere maschili, così come, nella sfera psicologica comportamentale, i pensieri, le abitudini, etc. devono essere maschili. Il “cambio di sesso” invece, ad esempio, vuole mutare i caratteri secondari non accordandoli al sesso genetico. Dunque vuole mutare tali caratteri in contraddizione con un aspetto identitario della persona (e infatti si parla di identità sessuale).

Da qui la illiceità morale della rettificazione sessuale, proprio perché si sceglie di compiere un’azione contraria alla identità personale. Si violerebbe il principio teoretico di non contraddizione che è alla base anche di tutti i principi morali: dico che Mario è maschio ma opto per un’azione che è “femmina”. Dunque il “cambiamento di sesso” è un’azione intrinsecamente malvagia perché il fine prossimo ricercato è “agire in contraddizione con l’identità della persona”.

Cambiare il colore dei capelli, degli occhi, l’altezza e il peso non contraddice l’identità della persona (semmai la può perfezionare), modificare invece una parte del corpo in distonia con il sesso genetico entra in rotta di collisione con l’identità personale. La persona perciò non può essere divisa in sé stessa altrimenti, usando un termine greco, è κρίσις, ossia scissione, separazione, strappo, lacerazione: una parte maschile (sesso genetico, struttura scheletrica, etc.) e una femminile (es. caratteri primari) nello stesso organismo. Da qui tutti i disturbi psicologici che soffrono le persone transessuali. La persona invece è unità, composta da più parti ma in armonia tra loro.

E quindi dato che il “cambiamento di sesso” è atto intrinsecamente disordinato mai si può compiere sotto il profilo morale, né per un fine ulteriore buono né in alcune circostanze particolari.

Quindi, e veniamo a due ipotesi proposte da Moia, non è lecito “cambiare sesso” né al fine di impedire un suicidio né in stato di necessità, ossia se non ci sono altre soluzioni per restituire benessere al minore. Il fatto che il “cambiamento di sesso” sia azione intrinsecamente malvagia supera in radice anche il principio di totalità richiamato da Avvenire: sacrificare una parte del corpo per il benessere totale della persona. Infatti quel sacrificio è atto di per sé malvagio foss’anche benefico sul piano delle utilità sperate.

SCRITTURA E MAGISTERO SONO CHIARI

Veniamo al profilo teologico ed ecclesiale. Moia dichiara che «il magistero – è bene dirlo subito – non ha mai definito la liceità morale della 'riassegnazione chirurgica'». Vero è che non esistono pronunciamenti specifici del Magistero sul tema, così come non esistono pronunciamenti specifici sul sequestro di persona o sulla necrofilia, ma non perché la Chiesa sia in dubbio sul giudizio morale su tale procedura, ma perché ad oggi non è apparso necessario esplicitare la condanna su simili pratiche già implicita in alcuni suoi documenti. Ciò non toglie che in futuro appaia invece necessario pronunciarsi.

In primis domandiamoci: la Bibbia ha mai condannato il transessualismo? La condanna è implicita in Genesi 1,27: Dio “li creò maschio e femmina”. Se Dio ci crea maschio e femmina appare evidente che dobbiamo rimanere maschio e femmina. In tutto. In merito al Magistero, ricordiamo il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale». Il “cambiamento di sesso” non accetta la propria identità sessuale come abbiamo appena visto. Poi rammentiamo le molteplici catechesi di Giovanni Paolo II sulla teologia del corpo che, per il tema che qui stiamo trattando, si potrebbero sintetizzare in queste parole di Benedetto XVI:

«Il sesso […] non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato. Proprio questa dualità come dato di partenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: ‘Maschio e femmina Egli li creò”’ (Gen 1,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. […] Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale di forme della persona umana che si integrano a vicenda” (Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2012).

Inoltre rammentiamo il documento del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari: “Non si può violare l'integrità fisica di una persona per la cura di un male d'origine psichica o spirituale. Qui non si danno organi malati o malfunzionanti. Così che la loro manipolazione medico-chirurgica è un'alterazione arbitraria dell'integrità fisica della persona. È per questo che non si può correttamente assumere il principio di totalità a criterio di legittimazione della sterilizzazione antiprocreativa, dell'aborto terapeutico e della medicina e chirurgia transessuale” (Carta degli operati sanitari, n°66, nota 148).

BLOCCARE LA PUBERTA' SENZA CAMBIARE SESSO

Infine veniamo ad un altro quesito, assai interessante, che è sempre presente nell’articolo di Avvenire. E’ lecito bloccare la pubertà di un ragazzo/una ragazza non al fine di “cambiare sesso”, ma al fine di aiutarlo/a a percepirsi psicologicamente come maschio se è sessualmente maschio e come femmina se è sessualmente femmina? Dunque la finalità questa volta sarebbe lecita, ma esiste un principio morale che così recita: «un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.). In breve l’atto scelto deve essere proporzionato, congruo, consono al fine buono, altrimenti risulta dannoso. Si tratta del principio di efficacia.

La triptorelina è efficace nel curare i disturbi di disforia di genere bloccando l’ingresso nella pubertà al fine di allineare armoniosamente psiche e corpo? Occorre soppesare i pro e i contra tenendo altresì in conto le probabilità che gli effetti positivi e negativi si verifichino. Da queste colonne abbiamo più volte ricordato gli effetti negativi di tale preparato: ictus, patologie cardiache, aumento degli zuccheri nel sangue, costipazione, problematiche in ambito sessuale, diarrea, capogiri, mal di testa, vampate, perdita dell’appetito, nausea, insonnia, fastidi allo stomaco, stanchezza o debolezza, vomito. Inoltre, come ricorda Avvenire, c’è la possibilità di indurre il minore in psicosi, di ridurre la sua fertilità e, aspetto forse più rilevante, di provocare un disallineamento tra mente e corpo.

Lo sviluppo fisico può aiutare il minore confuso perché diventa guida psicologica nella crescita; di contro, come rammentava il Centro di Studi Livatino, «il blocco della pubertà e – quindi – anche degli ormoni sessuali potrebbe compromettere la definizione morfologica e funzionale di quelle parti del cervello che contribuiscono alla strutturazione dell’identità sessuale insieme con i fattori ambientali ed educativi. […] Si induce quindi farmacologicamente un disallineamento fra lo sviluppo fisico e quello cognitivo». Inoltre non ci sono studi approfonditi che possano escludere ulteriori effetti negativi. Infine, se vogliamo registrare altri possibili danni, la commercializzazione di questo farmaco aumenterà esponenzialmente il fenomeno dei baby- trans. E quindi dare semaforo verde alla triptorelina solo per casi eccezionali, porterà di certo al suo uso indiscriminato. Il gioco non varrebbe la candela.

Avvenire invece mette sull’altro piatto della bilancia, non nascondendo invero alcuni effetti dannosi di questo farmaco, anche pareri favorevoli all’uso della triptorelina che provengono dai presidenti della Società italiana di endocrinologia, della Società italiana di andrologia e medicina della sessualità, della Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica e dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere. Ora ci domandiamo, e non è domanda retorica o polemica, ma sincera: queste società scientifiche sono favorevoli all’uso di tale farmaco perché favorevoli al transessualismo? Se così fosse, ovvio che la triptorelina sarebbe il farmaco ideale per “cambiare sesso” in tenera età.

Ma facciamo finta che tali società non siano favorevoli al transessualismo e che dunque il loro placet al farmaco in questione sia dettato dal fatto che esso faccia più bene che male per quel minore che desidera, lui maschio, riconoscersi serenamente come maschio. Visti i pareri discordanti, dovremmo concludere che l’efficacia della triptorelina è oggettivamente controversa. E cosa dice la morale in questi casi, ossia nei casi dubbi? Indica il principio tuzioristico: nel dubbio agisci nel modo più sicuro per il bene del minore. E il modo più sicuro di procedere è quello dell’approccio psicologico, per ipotesi adiuvato anche dai farmaci, ma non dalla triptorelina. Anche in quei casi in cui il minore è a rischio suicidio. Infatti esistono altre soluzioni, oltre alla triptorelina, che possono scongiurare il rischio suicidio e che presentano meno effetti collaterali indesiderati.

In sintesi: il “cambiamento di sesso”, alla luce della ragione, è un’azione intrinsecamente malvagia, che dunque mai può essere compiuta, perché contraddice l’identità personale. La Scrittura e il Magistero lo confermano. Inoltre, ammesso e non concesso che si usi la triptorelina perché si desidera che un ragazzo si percepisca come maschio, allo stato attuale la sua efficacia appare perlomeno controversa e dunque, nel rispetto del principio tuzioristico, è doveroso intraprendere altri percorsi di cura più sicuri.










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giovedì 7 marzo 2019

Eutanasia in Belgio, il boom infernale: +247% in 8 anni




Dal Belgio arriva un nuovo agghiacciante report sull'eutanasia che ha registrato un'impennata spaventosa, del 247%, dal 2010 al 2018. In più, anche in Olanda la situazione della cosiddetta "dolce morte" appare fuori controllo e colpisce i più deboli, come persone affette da demenza e pazienti con problemi psichiatrici, spesso senza che nemmeno venga richiesta.



CULTURA DELLA MORTE
VITA E BIOETICA


di Giuliano Guzzo, 07-03-2019

Negli stessi giorni in cui il Parlamento italiano sta iniziando l’esame di una proposta legislativa sull’eutanasia, dal Belgio arriva un nuovo agghiacciante report sulla cosiddetta «dolce morte». Il documento, pubblicato il 28 febbraio, si riferisce all’anno 2018. A prima vista, esso attesta un aumento solo lieve dei decessi per eutanasia, cresciuti dai 2.309 del 2017 ai 2.357 dello scorso anno. Una crescita contenuta, essenzialmente dovuta, suggeriscono gli esperti, al fatto che i tribunali anche internazionali stanno iniziando finalmente a occuparsi dei casi più controversi.

Risale per esempio al gennaio di quest’anno la notizia dell’interessamento della Corte europea dei diritti umani a pronunciarsi sulla morte della signora Godelieva De Troyer, soppressa in Belgio nell’aprile 2012 con l’eutanasia all’età di 65 anni solo perché «depressa non trattabile», per di più all’insaputa dei familiari. Ma al di là dei singoli casi, uno sguardo più attento a Euthanasie - Chiffres de l’année 2018, questo il nome del rapporto belga, evidenzia comunque una situazione preoccupante. Infatti, se da un lato dal 2017 al 2018 la situazione della «dolce morte» nel Paese pare sotto controllo, dall’altro l’aumento risulta comunque esponenziale dato che, dal momento della sua legalizzazione, nel settembre del 2002, in Belgio l’eutanasia ha iniziato a crescere senza mai più fermarsi, passando dai 349 casi del 2004 ai quasi 2.400 attuali.

A colpire, in particolare, è il confronto tra le morti conteggiate nel 2010, 945, con quelle rilevate lo scorso anno, da cui si evince un’impennata spaventosa, pari al 247% in 8 anni. Numeri sconvolgenti ma che, a detta di alcuni bioeticisti, potrebbero non essere completi di tutti gli effettivi casi di morti procurate nel Paese. Al che, a questo punto, uno potrebbe pensare che il problema, qui, non sia l’eutanasia legale, ma sia il sistema sanitario belga, deficitario di assistenza e controlli. Peccato che le cose non stiano esattamente in questi termini.

Anche in Olanda, infatti, la situazione dell’eutanasia appare fuori controllo. E a certificarlo ancora una volta sono implacabili dati: i 1.882 casi di morte on demand del 2002 sono diventati 3.695 nel 2011, 5.306 nel 2014 e addirittura 6.585 nel 2017. Anche qui, numeri che descrivono un’impennata costante e che diventano ancor più allarmanti se confrontati col totale dei decessi nel Paese. Infatti, se già nel 2012, come stimato da Wesley J. Smith su National Review, i casi di eutanasia rappresentavano il 12% del totale delle morti olandesi, oggi ammontano a circa il 25%.

In pratica, una morte ogni quattro avviene per mano medica. Il mortifero dilagare dell’Olanda - dove nel 2017 si sono fra l’altro registrate oltre 80 eutanasie su persone affette da demenza e pazienti con problemi psichiatrici, nonché casi di «dolce morte» di coppia perché uno dei due partner temeva la vedovanza, senza dimenticare quelli avvenuti in assenza di qualsivoglia precedente richiesta di morte - non fa dunque che confermare come l’altrettanto drammatica esperienza del Belgio sia perfettamente in linea con quella «china scivolosa» che, ogni qualvolta viene legalizzata la morte assistita, disintegra il rapporto medico-paziente, aprendo le porte all’inferno eutanasico.

Ora, dal momento, come si diceva all’inizio, che il nostro Parlamento sarà a breve chiamato a pronunciarsi su una legge che va proprio in questa direzione - e cioè volta, a istituzionalizzare in Italia quella «dolce morte» già introdotta, di fatto, con il biotestamento -, sarebbe il caso di informare onorevoli e parlamentari di quanto accade in Olanda e, appunto, Belgio. Così che ciascuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità e nessuno possa poi dire che non sapeva.













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lunedì 4 marzo 2019

CREMONA. Fedeli umiliati: quella Messa (in latino) non s'ha da fare




Messa in latino, la sociologia la scopre, ma i vescovi la osteggiano. Come a Cremona, dove da 10 anni un gruppo di fedeli chiede di celebrare in forma straordinaria, ma riceve il no dei vescovi. Un no ingiustificato, che trasforma quelli sotto il Torrazzo in fedeli di Serie B.



Andrea Zambrano, 02-03-2019

Che la messa in latino stia vivendo una seconda giovinezza è un dato ormai anche sociologico
. Ma che questa forma straordinaria dell’unico rito romano, sia osteggiata da buona parte dei vescovi, è un fatto che le cronache spesso si devono incaricare di denunciare. Da più parti giungono input che mostrano come quella della messa in latino, rappresenti per molti vescovi italiani una vera e propria fobia da estirpare.


Quella che raccontiamo è proprio la storia di un’opposizione tanto assurda
quanto immotivata da parte di due vescovi nei confronti di questa messa, che Benedetto XVI, incoraggiandone la promozione, si augurava potesse un giorno “contaminare” anche la messa novus ordo.


Siamo a Cremona e nonostante diversi tentativi
, i fedeli non sono ancora riusciti ad ottenere una Messa in forma straordinaria anche solo tollerata dal vescovo e neppure il riconoscimento di un gruppo stabile di che adempisse al mandato del motu proprio Summorum Pontificum.


UNA MESSA DISARMONICA

I fatti, ricostruiti dalla Nuova BQ dopo aver letto le carte di una vertenza
a tratti da lettere e “carte bollate”, prendono inizio nel 2009 quando un gruppo di fedeli chiede al vescovo di allora Dante Lanfranconi l’assenso alla nascita di un gruppo stabile di fedeli. Ma la risposta del vescovo è un secco no con una motivazione che ancor oggi appare assurda: “La communio ecclesiale richiede che non si inseriscano iniziative oggettivamente disarmoniche”. Tradotto? Il vescovo argomentava che a 40 anni dall’introduzione del Messale di Paolo VI, a Cremona non c’erano mai state né resistenze né opposizioni alla nuova messa. Ergo, non si vedeva proprio il bisogno di una celebrazione di quel tipo. Motivazione assurda, dicevamo, perché la messa in forma straordinaria, così come codificato nella terminologia da Papa Ratzinger, non va affatto vista come una contrapposizione a quella ordinaria, ma piuttosto come un arricchimento di essa, portato avanti da fedeli che nutrono una particolare sensibilità che va giustamente e, sottolineava “volentieri” accolta.


Invece, con il no di Lanfranconi le attese del gruppo stabile vennero raggelate
. E a quel punto non restò loro che scrivere direttamente all’Ecclesia Dei, la quale ricevette la lettera dei fedeli il 1 febbraio 2010 e che a sua volta rispose al vescovo con alcune osservazioni relative alla metodologia, ma senza entrare nel merito della questione. Ma non si arrivò a cavare un ragno dal buco. I fedeli dovettero incassare il no e il desiderio rimase lettera morta.


NO E ANCORA NO


Fino al 2017, quando un nuovo gruppo di fedeli
scrive al vescovo di Cremona, nel frattempo cambiato. La risposta del nuovo prelato cremonese, monsignor Antonio Napolioni (in foto), non si fece attendere e il 27 marzo così scrisse: “Tali richieste erano già state avanzate al mio predecessore, il quale non ravvisando che vi fossero in diocesi le condizioni per non accogliere favorevolmente le richieste oppose un diniego, soprattutto alla luce del fatto che in oltre 40 anni l’applicazione della riforma liturgica conciliare è stata serenamente accolta in tutta la Diocesi”.


A quel punto, i fedeli hanno cercato di far notare al prelato
che in realtà esiste già un nutrito gruppo di fedeli che desidera questa forma rituale perfettamente lecita e mai abolita dalla Chiesa. Così, mesi dopo, trovarono una sponda presso il convento dei padri barnabiti di Cremona dove c’è un sacerdote che sa celebrare quella messa e volentieri ha acconsentito alla richiesta.


Una messa conventuale dunque, non direttamente sotto la giurisdizione del vescovo
, che è moderatore comunque della liturgia della diocesi. Ma anche questa volta è arrivato il no. Ma non solo: il religioso è stato anche chiamato a rapporto dal vescovo. Una volta giunto nel suo ufficio ha così dovuto sorbirsi anche lui il diniego già espresso da Napolioni ai fedeli. Il motivo? Più o meno la rottura della comunione ecclesiale. Tutto inutile. Al padre - da quanto ci ha riferito lui stesso – due settimane fa è stato sostanzialmente impedito di celebrare la messa sine populo, provvedimento abnorme dato che il Summorum Pontificum vieta espressamente di proibire le celebrazioni private che non hanno bisogno di alcun placet. Così il religioso, in imbarazzo, ha dovuto alzare le mani e il gruppo stabile si è ritrovato per la terza volta con un pugno di mosche.


RIPRISTINARE LA LEGALITA'


Tra le motivazioni addotte da fonte episcopale
si cita spesso la comunicazione che l’Ecclesia Dei diede al vescovo nel 2010 e che i vescovi utilizzano come “arma” per giustificare il loro no. In realtà quella comunicazione non è mai stata letta da nessuno e ancora ieri da parte della curia di Cremona non sono giunti i chiarimenti necessari.


Alle nostre richieste, sia telefoniche che via posta elettronica di ieri e giovedì
, il vicario generale don Massimo Calvi, non ha ritenuto ancora di dover spiegare quale sia stata la risposta dell’Ecclesia Dei. Che, a rigor di logica, di sicuro non doveva essere di chiusura a quella messa. La questione però rappresenta un grave vulnus proprio a quella Communio ecclesiae che si dice a parole di voler custodire.


Motu proprio alla mano infatti, il ruolo del vescovo non è quello di dire di sì o di no
alla richiesta dei fedeli, quello accadeva con la legislazione precedente attraverso il motu proprio Ecclesia Dei. Ma con l’entrata in vigore del Summorum Pontificum il problema non è più di diretta competenza del vescovo. Il SP dice che nelle parrocchie in cui esiste un gruppo stabile aderente alla precedente tradizione liturgica «il parroco accolga le loro richieste (art. 5)». Dove e quando allora entra in gioco il vescovo? Nel caso in cui ci siano problemi, se il gruppo ad esempio «non abbia ottenuto soddisfazione alle richieste da parte del parroco ne informi il vescovo che è vivamente pregato di esaudire i loro desideri (art 7)». Lo scopo del vescovo quindi è quello di dire di sì. E magari trovare la chiesa migliore o coordinare i fedeli se ci sono più gruppi o anche di trovare un prete che celebri se non si trova. Ma non è quello di dire sì o no, di approvare o respingere. L’unica obiezione che può fare il vescovo avviene semmai nel caso in cui questi fedeli non siano in comunione con la Chiesa secondo le leggi canoniche, ma non sembra proprio essere questo il caso dei fedeli di Cremona.


Anzi: semmai a dare fastidio a tanti prelati
è proprio la stragrande maggioranza di cattolici normalissimi che vi partecipano, mediamente tra i 30 e i 50 anni di età, con una maturità di fede compiuta e che non potrebbero mai accostarsi alla messa tridentina per ragioni di amarcord dato che al tempo della riforma liturgica non erano neppure nati. L'accusa della nostalgia infatti è un'arma spuntata. Per spiegare la crescita di questa sensibilità bisogna fare lo sforzo di chiedersi perché molti fedeli sentano il bisogno di tornare ad una liturgia più rigorosa, sacra, mistica e oggettiva nella sua razionalità, che non lascia spazio a emotività, ma va dritta al cuore della sua azione immediatamente comprensibile.


Quello che sta avvenendo sotto il Torrazzo ha tutta l'aria di essere un travisamento
non solo dello spirito, ma della stessa lettera del Summorum Pontificum ed è evidente che il compito del vescovo ora dovrebbe essere quello di ripristinare immediatamente la legalità e non di umiliare fedeli e sacerdoti ben disposti. Invece, in questo modo sembra che si voglia procedere arbitrariamente, delineando così la sgradevole situazione di un gruppo di fedeli di serie B, umiliato, che per quieto vivere è costretto a rinunciare a quello che è a tutti gli effetti un suo diritto: litigare con il proprio vescovo non è proprio quello che si dice un programma avvincente per un cattolico mediamente rispettoso della gerarchia e della comunione ecclesiale. Intanto, il creativismo liturgico e il relativismo pastorale domina ovunque, ma questo non sembra fare problema.
















domenica 3 marzo 2019

Pistoia mercoledì 6 marzo 2019: Rito delle Ceneri e S. Messa in Rito Romano Antico




Chiesa di S. Vitale 

via della Madonna 58 - PISTOIA 

Mercoledì 6 marzo - ore 18:00

Rito delle Ceneri e 
S. Messa in Rito Romano Antico








venerdì 1 marzo 2019

Vai alla messa in latino? Sei più fedele alla dottrina






Usa. Per la prima volta una ricerca statistica su vasta scala confronta fedeltà alla dottrina, apertura alla vita e rifiuto dei contraccetivi e dell'aborto tra i fedeli che scelgono di frequentare la messa in forma straordinaria e quelli che optano per il novus ordo. I risultati sono sorprendenti. Almeno per la sociologia. 


di Giuliano Guzzo, 01-03-2019

Sul confronto tra la messa vetus ordo, quella rigorosamente in latino per capirci, e quella novus ordo, così come ordinariamente celebrata oggi in ogni chiesa, si registra da anni, in seno al mondo cattolico, un dibattito intenso, a tratti pure assai vivace. Trattasi, per lo più, di dispute su aspetti liturgici, teologici e pastorali sui quali, per ovvi motivi, la sociologia non mai messo il becco. Fino ad oggi, s’intende. Sì, perché è stata da poco diffusa una nuova ricerca che si occupa proprio di questo, e cioè di mettere a fuoco se vi siano differenze significative negli atteggiamenti e nelle condotte dei fedeli a seconda del tipo di messa che essi sono soliti frequentare.

Nello specifico lo studio, a cura di don Donald Kloster
, sacerdote laureatosi all’università del Texas, è stato realizzato sondando pensieri e opinioni di un campione di 1.322 persone tramite sondaggi anonimi, il tutto in un arco temporale che va dal marzo al novembre 2018. Le stesse domande sono state messe on line, con il questionario che ha ottenuto 451 risposte. Alla fine, ad essere interessati dalla ricerca sono stati fedeli americani provenienti da ben 16 differenti Stati, il che le conferisce una dimensione internazionale e perciò ancora più interessante.

Le domande del questionario vertevano su ambiti diversificati quali l’approvazione o meno di contraccezione, aborto e matrimonio omosessuale, la frequenza di partecipazione alla messa settimanale e il tasso di fertilità. Ebbene, che cosa si è scoperto? Molte cose meritevoli di riflessione.

Tanto per cominciare, si è riscontrata una netta difformità
nell’adempimento agli obblighi settimanali quali, appunto, la frequenza alla messa, che è di uno sconfortante 22 per cento tra i cattolici che vanno alla messa novus ordo mentre sale addirittura del 99 tra quanti hanno come riferimento quella in latino. Stessa cosa per la confessione: il 98 per cento dei fedeli del vetus ordo si confessa almeno una volta l’anno, contro il 25 degli altri. Differenze enormi, che si rispecchiano anche nell’adesione alla morale.

Infatti i fedeli del vetus ordo risultano in piena sintonia con gli insegnamenti della Chiesa
. Basti dire che appena il 2 per cento di questi approva la contraccezione e il matrimonio tra persone dello stesso sesso e solamente l’1 per cento l’aborto. Oggettivamente, percentuali da contagocce.

Una musica ben diversa, purtroppo, fra gli altri cattolici, con l’89 per cento
che tollera la contraccezione, il 67 favorevole alle nozze gay e il 51 perfino all’aborto. Uno scenario, quest’ultimo, che sarebbe eufemistico definire preoccupante, e che testimonia la necessità di maggiori formazione e conoscenza tra i cattolici imbevuti, talvolta a loro insaputa, di cultura dominante.

Degno di nota, inoltre, è il dato demografico
, con la bilancia della natalità ancora una volta nettamente sbilanciata da una parte. Più precisamente, posto che le famiglie religiose rispetto a quelle che non lo sono risultano generalmente già più prolifiche, si è visto che le donne che frequentano la messa in forma straordinaria hanno un tasso di fertilità di 3,6 figli, contro i 2,3 delle altre. Un dato rilevante che suggerisce come, in prospettiva, quanti preferiscono la messa in latino saranno sempre di più. Altro che estinzione.

Certo, questa pur stimolante e pionieristica ricerca
lascia comunque aperto un dilemma dal sapore marzulliano ma in verità fondamentale, che è il seguente: si va alla messa "tridentina" perché si è più fedeli alla dottrina cattolica oppure si è più fedeli alla dottrina cattolica perché si frequenta la messa in latino? Probabilmente entrambe le cose, nel senso che poi parecchio, in realtà, dipende dall’esperienza individuale di ciascuno.

Quel è che certo è che quella parte di mondo cattolico
oggi così dialogante con la modernità laica e laicista di messa in latino non vuol manco sentir parlare. Ed è un peccato perché da quella messa e, soprattutto, da coloro che la frequentano ci sarebbe molto da imparare.

















Sondaggio prova: Vecchio Rito il futuro della Chiesa







Non sorprende che un sondaggio abbia rivelato che i Cattolici di Vecchio Rito siano più fedeli dei Cattolici di Nuovo Rito.

Lo studio, condotto da don Donald Kloster di Norwalk (Connecticut, USA), ha coinvolto 1322 persone ed è stato pubblicato su LiturgyGuy.com (24 febbraio).

I risultati mostrano che il 99% dei Cattolici di Vecchio Rito adempie all'obbligo della domenica (Nuovo Rito: 25%) e che il 98% si confessa almeno una volta l'anno (Nuovo Rito: 22%)

Tra i Cattolici di Vecchio rito, l'1% sostiene l'aborto (Nuovo Rito: 51%), il 2% la contraccezione (Nuovo Rito: 89%) e il 2% lo pseudo-matrimonio gay (Nuovo Rito: 67%).

Le donne di Vecchio Rito hanno un tasso di fertilità di 3,6 (Nuovo Rito: 2,3).

Foto: © Joseph Shaw, CC BY-NC-SA, #newsGbggqvasxm