scritto da Aldo Maria Valli
L’immagine di Benedetto XVI con una tumefazione sotto l’occhio destro suscita un’infinita tenerezza. La foto, pubblicata su Facebook dal vescovo di Passau Stefan Oster, che ha fatto visita al papa emerito qualche giorno fa, ci mostra Joseph Ratzinger in tutta la fragilità dell’attuale condizione. Benedetto, che ha compiuto novant’anni nell’aprile scorso, appare smagrito, ma ciò che colpisce di più è la sua espressione. Forse mi sbaglio, ma lo sguardo sembra un po’ sperduto e tradisce una sorta di mortificazione, tipica negli anziani in certe circostanze.
Sappiamo che da anni papa Ratzinger vede molto poco dall’occhio sinistro, a causa di una maculopatia, e che deve utilizzare un apparecchio acustico. Tutto ciò certamente non rende facili gli incontri. Tuttavia nell’ex monastero vaticano che è diventata la sua residenza riceve volentieri le visite degli amici e, con la semplicità che gli è propria, non ha rifiutato di lasciarsi fotografare dopo il piccolo incidente, offrendo così un’immagine di sé che è diventata subito cara a tutti coloro che lo pensano e pregano per lui.
In queste ultime fotografie di Benedetto XVI c’è tanta verità. E vedere papa Ratzinger così, indebolito e indifeso, avvolto in una tonaca bianca diventata troppo larga, fa tornare alla mente le parole da lui dedicate alla sofferenza nell’enciclica «Spe salvi» sulla speranza cristiana: «Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla» (n. 37).
Poi spiegava: «Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore» (n. 37).
Più avanti Benedetto, con la tipica lucidità, puntava l’attenzione sulle implicazioni sociali della sofferenza e sulla stretta connessione tra accettazione della sofferenza e verità: «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il “sì” all’amore è fonte di sofferenza, perché l’amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L’amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale» (n. 39).
L’intera enciclica andrebbe ripercorsa, tale è la sua profondità e tali sono le riflessioni che è in grado di innescare, in controtendenza rispetto al pensiero dominante. Mi limito a un punto che ci aiuta a capire ancora meglio come il novantenne Ratzinger sta vivendo quotidianamente la sua condizione di anziano: «Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter “offrire” le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c’erano senz’altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire “offrire”? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi» (n. 40).
E sentite che cosa diceva Benedetto XVI nel maggio 2010, durante la visita alla chiesa della Piccola casa della Divina Provvidenza di Torino, meglio nota come Cottolengo, nell’incontro con i malati: «Cari malati, voi svolgete un’opera importante: vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo. Offrendo il nostro dolore a Dio per mezzo di Cristo, noi possiamo collaborare alla vittoria del bene sul male, perché Dio rende feconda la nostra offerta, il nostro atto di amore. Cari fratelli e sorelle, tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte: non sentitevi estranei al destino del mondo, ma sentitevi tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo. Cristo, che è morto sulla Croce per salvarci, si è lasciato inchiodare perché da quel legno, da quel segno di morte, potesse fiorire la vita in tutto il suo splendore».
Ecco. Possiamo essere sicuri che papa Benedetto sta offrendo le sue sofferenze per il bene dell’umanità e della Chiesa. E così sta collaborando alla vittoria del bene sul male.
Uniamoci a lui.
Aldo Maria Valli