Martirio di Santo Stefano, Paolo Uccello, 1435 circa, Duomo di Prato
Non c’è parto senza dolore; non c’è nascita senza sangue; non c’è crescita della Chiesa che non avvenga senza la testimonianza del sangue dei suoi martiri.
Santo Stefano 2024
(At 6, 8-10.12; 7, 54-60; Mt, 10, 17-22)
di don Ambrogio Clavadei
Ieri abbiamo festeggiato ancora una volta il Natale di Cristo, e lo abbiamo festeggiato non solo con il cuore lieto e con canti e parole esultanti, ma lo abbiamo festeggiato soprattutto celebrando l’Eucaristia, che ogni volta è la Pasqua che si rinnova, così che le nostre parole, il nostro canto e il nostro sentimento non fossero solo l’eco di un lontano passato, o una passeggera commozione, ma la memoria viva di un Accaduto che continuamente è presente tra noi.
Così noi per festeggiare il giorno della nascita di Cristo, abbiamo dovuto celebrare la memoria della sua morte. Questo ci ricorda che il sorriso di quel bambino con cui Dio appare nel mondo, segno e presagio della felicità che è venuto a portarci, per giungere a noi, per cambiare il nostro volto e il volto del mondo e renderlo più adeguatamente umano, si è dovuto inevitabilmente trasformare nella piega amara dell’agonia del Getsemani e nella bocca sbarrata della morte in Croce. Noi non possiamo disgiungere questo sorriso infantile di Cristo dalla piega amara della sua bocca di uomo adulto; lo scopo è il sorriso, la felicità, ma la condizione poco o tanto inevitabile del loro avveramento, così come Dio dispone, è il sacrificio, la Croce, il martirio.
Allora possiamo comprendere perché il giorno successivo al Natale la Chiesa ci chiede di festeggiare santo Stefano, il primo martire della Chiesa. Non c’è parto senza dolore; non c’è nascita senza sangue; non c’è crescita della Chiesa che non avvenga senza la testimonianza del sangue dei suoi martiri che prolunga nella storia il mistero della morte vittoriosa di Cristo. Ma questo è perché fiorisca il sorriso di Dio sulle nostre labbra e su quelle del mondo cambiato.
Il martirio non è però solo quello cruento, come segno supremo della santità cristiana. C’è infatti anche il martirio quotidiano del cuore, più o meno nascosto, ma sempre visibile agli occhi di Dio. C’è quella ferita costantemente riaperta dal nostro peccato in noi stessi e negli altri, e dagli altri in noi stessi, che sollecita la nostra fede all’invocazione del perdono richiesto e dato. Martirio è innanzitutto affermare quotidianamente l’abbraccio di una misericordia che solo Dio può dare a me, ma anche al mio nemico: “Signore, non imputare loro questo peccato” (At, 7, 60). Il nostro peccato ci lapida e col nostro peccato ci lapidiamo gli uni gli altri, non con le pietre, ma con la spigolosità dei nostri pensieri, con l’asprezza delle nostre parole, con la pesantezza dei nostri gesti, concretizzazione della petrosità del nostro cuore.
Ma questa inevitabile durezza che riapre continuamente ferite, è anche possibilità sempre riaperta, in chi la subisce nella fede – come ci testimonia santo Stefano -, di una visione diversa della vita, una visione più alta e più profonda, uno sguardo più vero sulla realtà presente perché essa ci appare anche, proprio nello squarcio, come un’apertura sul Mistero già ora presente tra noi, come un rivelarsi della gloria di colui che è il nostro destino, e che fa e sostiene tutte le cose: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At, 7, 56).
Noi desideriamo certamente di nascere e rinascere ogni giorno ad una vita nuova, noi mendichiamo a Dio un rinnovato “Natale”, ma troppo facilmente, quasi inavvertitamente, ne anticipiamo le possibili strade di realizzazione. Dio invece nasce secondo modalità che superano il nostro povero o presuntuoso intendimento: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna?” (Dante, Paradiso, XIX). Ed anche quando è atteso, la sua continua venuta dentro le circostanze della vita supera sempre ogni possibile attesa. Che egli venga, che il suo sorriso venga ultimamente attraverso la ferita del dolore e del peccato, noi – almeno normalmente – non riusciamo mai a comprenderlo a fondo e ad accettarlo nell’esperienza, anche se teoricamente lo sappiamo. Che egli possa venire e possa nascere nel luogo del nostro male è una ben strana greppia, eppure là dove la ferita diventa contrizione e perdono ciò accade, perché contrizione e perdono sono il gesto più elementare del martirio cristiano, cioè della testimonianza del fatto che Dio è nato per salvarci per mezzo del suo sangue sparso in libagione per noi, per mezzo del suo sangue che diventa in noi vita nel grido di supplica che sale dalla ferita.
Se invece la ferita rimane muta, diventa infetta e purulenta, il sangue nostro si fa amaro, risale al cuore e ne provoca, o ne conferma, la durezza e poi, risalendo al volto dell’esistenza, lo rende livido d’ira: “All’udirlo fremevano in cuor loro e digrignavano i denti … turandosi gli orecchi … si scagliarono tutti insieme contro di lui” (At 7, 54).
Dio ci scampi da questa durezza priva di dolore, anche se piena di sdegno, che si fa posizione che nulla riesce a scalfire, esistenza lentamente pietrificata dallo schema, dal formalismo, dal ruolo, dal pregiudizio, dalla incomunicabilità e dalla terribile indifferenza.
Se invece il sangue di Cristo scorre vivo dalla ferita, così come vivo si è sparso attraverso il corpo del primo martire, raggiunge l’altro con una capacità di comunicazione che rende possibile il miracolo del cambiamento. Come è singolare che il sangue di Cristo, versato attraverso il corpo di Stefano e scorrendo ai piedi di un giovane chiamato Saulo, che era testimone della sua uccisione, lo abbia trasformato a suo tempo in Paolo, uno dei più grandi apostoli e martiri di tutta la Chiesa!
È l’imprevisto di un nuovo “Natale” che accade: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Che questo amore non venga meno in noi, così che la pietra del nostro male e di quello altrui non diventi occasione di inciampo e di scandalo ma, paradossalmente, secondo la sapiente permissione di Dio, fondamento di rinnovata costruzione sulla Pietra angolare di Cristo (cfr. Mt 21, 42-43).
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