martedì 31 gennaio 2017

FRANCESCANE IMMACOLATA. NUOVO DECRETO DI COMMISSARIAMENTO? ROMA VORREBBE CHIUDERE IL CASO DEI FFI ENTRO L’ANNO…





Marco Tosatti

Il calvario dei Frati Francescani dell’Immacolata, e del ramo femminile dello stesso nome starebbe per arricchirsi di nuovi capitoli. Secondo indiscrezioni di buona fonte, la Congregazione per i Religiosi, e in particolare il prefetto, il brasiliano Braz de Aviz, insieme al Segretario, lo spagnolo francescano Carballo, avrebbero intenzione di chiudere lo spinoso e mai realmente spiegato capitolo del commissariamento entro quest’ anno.

E’ opportuno ricordare che del commissariamento di quello che era uno degli ordini più fiorenti e ricchi di vocazioni nel panorama cattolico degli ultimi decenni non è mai stata fornita una motivazione chiara. Si è cercato di supplire a questa mancanza di trasparenza con una campagna mediatica almeno discutibile, in cui si è accusato il fondatore, padre Stefano Manelli, di pratiche e comportamenti scorretti. Il tutto ha provocato una denuncia per associazione a delinquere, diffamazione e calunnia contro i responsabili di un sito, giudicato da Manelli e altri, responsabile della campagna, presso il tribunale di Avellino.

Secondo quello che si apprende oltre le Mura, in questi giorni dovrebbero essere di nuovo commissariate le Francescane dell’Immacolata, il ramo femminile dell’ordine. Le suore hanno già una “commissaria”, suor Noris Adriana Calzavara, una religiosa friulana delle Suore del Rosario. Ma l’anno scorso alcune di esse avevano presentato un ricorso contro il Commissariamento presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. La Segnatura, da cui il Pontefice aveva estromesso senza spiegazioni il canonista card. Raymond Leo Burke, è ora diretta dal cardinale Dominique Mamberti, già “Ministro degli Esteri” della Santa Sede.

Una delle possibili spiegazioni dell’allontanamento di Burke era il timore che potesse prendere decisioni che contrastassero la posizione pontificia in casi delicati, come appunto quello dei Francescani dell’Immacolata. Il ricorso delle Francescane però avrebbe buone possibilità di essere accolto. Per questo motivo sarebbe pronto un nuovo decreto di commissariamento, questa volta firmato dal Pontefice in persona; elemento che esclude la possibilità di un appello alla Segnatura, e lascia la via aperta solo ad una supplica. Ma sapendo da chi è consigliato il Papa su questo tema, non sembra che possa essere accolta.

Nel frattempo i commissari del ramo maschile – il salesiano don Sabino Ardito, il cappuccino padre Carlo Calloni e il gesuita padre Gianfranco Ghirlanda, che appare come l’uomo di tutti i commissariamenti di papa Bergoglio (è membro della Commissione per l’Ordine di Malta) starebbero lavorando alle nuove Costituzioni dell’Ordine, che potrebbero essere rese note nei prossimi mesi: addirittura prima di Pasqua. E’ molto probabile che contengano se non l’abolizione del voto di Consacrazione illimitata all’Immacolata, almeno la sua facoltatività. Il che costituirebbe una mossa molto forte contro la principale caratteristica identitaria e l’ispirazione di padre Kolbe all’istituto.

L’idea della Congregazione per i Religiosi è di arrivare a un nuovo capitolo dei frati a settembre, anche per mettere fine a una situazione che appare singolare, per non dire altro. Il decreto di commissariamento è stato firmato il 13 luglio 2013. Quasi quattro anni fa. E, come abbiamo scritto, le ragioni del provvedimento non sono mai state esplicitate. Potete leggere qui una cronologia della vicenda.

E qui e qui alcuni aggiornamenti di un sito vicino ai religiosi.





http://www.marcotosatti.com/2017/01/31


Inferno, preghiera e conversione: quel messaggio politicamente scorretto, ma evangelico di Fatima





di Vittorio Messori (31-01-2017)

Esce in questi giorni da Mondadori il libro di Vincenzo Sansonetti Inchiesta su Fatima. Un mistero che dura da cento anni. Pubblichiamo ampi stralci della prefazione di Vittorio Messori.


Ogni apparizione sembra assomigliare a ogni altra, avendo sempre al centro un appello alla preghiera e alla penitenza e, al contempo, è diversa da ogni altra per l’accentuazione di un aspetto particolare della fede. L’aura che circonda Lourdes è pacata, tanto che è stato notato che in nessun’altra occasione Maria ha tanto sorriso, giungendo sino al punto di avere addirittura riso in tre occasioni. Disse Bernadette: «Rideva come una bambina». E non sapeva, quella piccola santa, che proprio questo avrebbe indotto gli austeri inquisitori della commissione che ne giudicava l’attendibilità a diventare ancora più sospettosi. «Nostra Signora che ride! Suvvia, un po’ di rispetto per la Regina del Cielo!». Alla fine dovettero farsene una ragione: era proprio così. Certo, non si dimentichi che Colei che nella grotta dirà di essere l’Immacolata Concezione assumerà anche un aspetto assai serio, ripetendo gli appelli alla penitenza e alla preghiera per se stessi e per i peccatori. Ma c’è un’aria di serenità, la mancanza di minacce di un castigo, che è forse uno tra gli aspetti che più attirano nei Pirenei le folle che sappiamo.

Misericordia e giustizia

L’atmosfera di Fatima, invece, appare soprattutto escatologica, apocalittica. Anche se con un finale che conforta e rasserena. È evidente che la ragione principale dell’apparizione portoghese è richiamare gli uomini alla tremenda serietà di una vita terrena che altro non è che una breve preparazione alla vita vera, a un’eternità che può essere di gioia ma anche di tragedia. È un richiamo alla misericordia e, al contempo, alla giustizia di Dio.

L’insistenza unilaterale di oggi sulla sola misericordia dimentica l’et-et che presiede al cattolicesimo e che, qui, scorge in Dio il Padre amoroso che ci attende a braccia spalancate e, al contempo, il giudice che peserà sulla sua infallibile bilancia il bene e il male. Ci attende sì un paradiso, ma che occorre guadagnarsi, spendendo al meglio i talenti piccoli o grandi che ci sono stati affidati. Il Dio cattolico non è di certo quello sadico del calvinismo che, a suo insondabile piacimento, divide in due l’umanità: coloro che nascono predestinati al paradiso e coloro che ab aeterno sono attesi dall’inferno. […]  È così, afferma Calvino, che Egli manifesta la gloria della sua potenza. No, il Dio cattolico non ha nulla a che fare con simili deformazioni. Ma non è neppure il bonario permissivista, lo zio tollerante che tutto accetta e tutti egualmente accoglie, il Dio di cui parla soprattutto il lassismo dei teologi gesuiti (che furono condannati dalla Chiesa) e contro i quali Blaise Pascal lanciò le sue indignate Lettres provinciales.

Anche se suona sgradevole alle orecchie di un certo «buonismo» attuale, così insidioso per la vita spirituale, Cristo propone alla nostra libertà una scelta definitiva per l’eternità intera: o la salvezza o la dannazione. Quindi potrebbe attenderci anche quell’inferno che abbiamo rimosso, però al prezzo di rimuovere anche i chiari, ripetuti avvertimenti del Vangelo. In esso c’è sì il commovente invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi e io vi darò ristoro». E tante altre sono le parole e i gesti della sua tenerezza. Eppure, piaccia o no, nei Vangeli vi è anche ben altro. Vi è un Dio che è infinitamente buono e anche infinitamente giusto e ai cui occhi, dunque, un mascalzone impenitente non equivale a un credente in Lui che si è sforzato, pur con i limiti e le cadute di ogni essere umano, di prendere sul serio il Vangelo. […]

L’inferno non è un’invenzione

In quel testo fondamentale dell’insegnamento della Chiesa che è il Catechismo, quello interamente rinnovato, redatto per volontà di san Giovanni Paolo II e sotto la direzione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (un testo che ha fatto del tut- to suo lo spirito del Vaticano II) gli autori ammoniscono: «Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione». Sono proprio questi appelli (alla responsabilità e alla con- versione) che sono al centro del messaggio di Fatima e che lo rendono più che mai urgente e attuale: certamente ancor più di quando Maria apparve alla Cova da Iria.

Da decenni, ormai, dalla predicazione cattolica sono scomparsi i Novissimi, come li chiama la teologia: morte, giudizio, inferno, paradiso. Una reticenza clericale che ha rimosso, anzi, in fondo rinnegato, il vecchio, salutare adagio che ha salvato tante generazioni di credenti: l’inizio della sapienza è il timor di Dio. Nella storia dei santi, questa consapevolezza di un possibile fallimento eterno ha costituito un pungolo costante per la pratica sino in fondo delle virtù. Sapevano che l’esistenza dell’inferno non è un segno di crudeltà divina bensì di rispetto radicale: il rispetto del Creatore per la libertà concessa alle sue creature, fino al punto di permettere loro di scegliere la separazione definitiva.

Sia nella teologia che nella pastorale di oggi il doveroso annuncio della misericordia non è unito all’annuncio altrettanto doveroso della giustizia. Ma se in Dio convivono in dimensione infinita tutte le virtù, può mancare in Lui quella virtù della giustizia che la Chiesa - ispirata dallo Spirito Santo, ma seguendo anche il senso comune - ha messo tra quelle cardinali? Non mancano teologi, anche rispettati e noti, che vorrebbero amputare una parte essenziale della Scrittura, rimuovendo ciò che infastidisce coloro che si credono più generosi e buoni di Dio. Dicono, dunque: «L’inferno non esiste. Ma, se esiste, è vuoto».

Peccato che la Vergine Maria non sia di questo parere... È vero che la Chiesa ha sempre affermato la salvezza certa di alcuni suoi figli, proclamandoli beati e santi. E la stessa Chiesa non ha mai voluto proclamare la dannazione di alcuno, lasciando giustamente a Dio l’ultimo giudizio. Chi dicesse tuttavia che un inferno potrebbe anche esistere ma che sarebbe vuoto, meriterebbe la replica: «Vuoto? Ma ciò non esclude la terribile possibilità che siamo tu e io a inaugurarlo». Qualcun altro ha ipotizzato che la dannazione sia solo temporanea, non eterna: ma pure questo si scontra con le nette parole del Cristo, che parla più volte di pena senza fine. Dunque, a vari concili non è stato difficile respingere una simile possibilità, senza alcun appoggio nella Scrittura.

«Pregate, pregate molto»

[…] nell’apparizione più importante, quella del 13 luglio 1917, avvenne ciò che suor Lucia narrerà così, nel 1941, nella famosa lettera al suo vescovo:

«Il segreto affidatoci dalla Vergine consta di tre parti distinte, due delle quali sto per rivelare. La prima, dunque, fu la visione dell’inferno. La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana fluttuavano nell’incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione, che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura...». […] Giacinta, spirando tre anni dopo, ancora bambina di 10 anni e ancora sconvolta per quello che aveva visto in quei pochi istanti, dirà sul letto di morte: «Se solo potessi mostrare l’inferno ai peccatori, farebbero di tutto per evitarlo cambiando vita». […simili visioni dell’inferno non sono affatto isolate nella storia della Chiesa. Scorgere questa terribile realtà è un’esperienza che hanno vissuto molti santi e sante. E la loro credibilità anche psicologica e mentale è stata vagliata con rigore nei processi canonici. Per limitarci alle più note e venerate delle sante ecco, tra le altre, santa Teresa d’Avila, santa Veronica Giuliani, santa Faustina Kowalska. E, tra gli uomini, poteva forse mancare quel san Pio da Pietrelcina, lo stigmatizzato che visse nel soprannaturale come fosse la condizione più naturale, al punto di stupirsi che gli altri non vedessero quel che lui vedeva?

A Fatima, a conferma della centralità nel messaggio del pericolo di perdersi, sta anche il fatto che l’Apparsa insegna ai veggenti una preghiera da ripetere nel rosario dopo ogni decina di Ave Maria. Preghiera che ha avuto una straordinaria accoglienza nel mondo cattolico, tanto che è recitata ovunque si preghi con la corona mariana e che dice: «Gesù mio, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno e porta in Cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia». Parole, come si vede, tutte centrate sui Novissimi e detta- te ai bambini dalla Vergine stessa. Ciò che soprattutto il cristiano deve implorare è la salvezza dal «fuoco dell’inferno», oltre a chiedere alla misericordia divina una sorta di sconto di pena per chi soffre in purgatorio. Dirà la Madonna, «con aria assai addolorata», come annota suor Lucia: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Molte anime vanno infatti all’inferno perché non c’è nessuno che preghi e si sacrifichi per loro».

Sotto il suo mantello

Ma torniamo alle ultime righe del resoconto della testimone Lucia, dopo la visione della sorte terribile dei peccatori impenitenti: «Alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: “Avete visto l’inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarli, Dio vuole istituire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno”». Ecco, dunque, il consolante tocco tutto cristiano, anzi cattolico […]. La verità impone di ricordare che corrono un grave rischio gli uomini immemori della serietà del Vangelo. Ma la misericordia del Cielo è subito pronta a proporre un rimedio: rifugiarsi sotto il mantello di lei, Maria, confidare nel suo Cuore Immacolato, aperto a chiunque chieda la sua materna intercessione. […]

Il peso crescente del peccato è grave, ma sono indicati i rimedi e, soprattutto, l’Apparsa ha in serbo un happy end, con le parole giustamente famose e giustamente fonte di speranza per i credenti. Infatti, dopo avere profetizzato le molte tribolazioni del futuro, Maria annuncia, a nome del Figlio: «Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà». Perciò la salvezza personale è possibile - ed è sorretta dal Cielo stesso - pur nel dilagare dell’iniquità. Ma possiamo anche sperare nella conversione del mondo, in un futuro imprecisato e che Dio solo conosce, confidando nel cuore della Madre di Cristo, potente avvocata della causa dell’umanità.

A che «servono» le apparizioni? […] Fatima è tra le risposte maggiori, per un mondo che sempre più dimenticava, e oggi ancor più dimentica, il significato vero della vita sulla terra e la sua continuazione nell’eternità. Fatima è un messaggio «duro» che, nel linguaggio odierno, diremmo «politicamente scorretto»: proprio per questo è evangelico, nella sua rivelazione della verità e nel suo rifiuto di ipocrisie, eufemismi, rimozioni. Ma, come sempre in ciò che è davvero cattolico, dove tutti gli opposti convivono in una sintesi vitale, la «durezza» convive con la tenerezza, la giustizia con la misericordia, la minaccia con la speranza. Così, l’avviso che ci è giunto dal Portogallo è, al contempo, inquietante e consolante.





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lunedì 30 gennaio 2017

Confessione ambrosiana






di   (29-01-2017)


[Interno giorno.
Un confessionale ambrosiano, in una chiesa ambrosiana.
Un fedele si accosta alla grata.
Il prete fa scorrere la grata.
Attraverso i buchi proviene una luce fioca].

Padre, vorrei confessare i miei peccati…
Dimmi figliolo, apri il tuo cuore…

Ecco, io… non so se riesco a trovare le parole…
Non temere, io sono qui per accoglierti.

Bene, grazie. È che non è facile…
Niente paura figliolo. Io ti accompagno.

Bene, dunque. Io sono cattolico…
Continua figliolo.

Cattolico ambrosiano.
Sì…

Battezzato.
Ho capito, non temere.

E sono.. ecco… sono sposato.
Capisco. Continua figliolo.

Con la stessa donna.
Uhm… Sì, continua.

Da trentadue anni. Anzi, ehm, ormai quasi trentatré…
Continua, non temere.

Abbiamo anche dei figli.
Quante volte figliolo? Ops, scusa, volevo dire: quanti figli?

Sei. Cinque femmine e un maschio. E siamo pure nonni.
Uhm… Continua figliolo, io non sono qui per giudicare.

Ecco, padre, non è facile. È che mia moglie ed io abbiamo… ecco sì… abbiamo  festeggiato il nostro ultimo anniversario. E proprio nella Festa delle famiglie!
Oh! E come? Dove?

In parrocchia. Con una messa. Oh padre! Sapevamo, sapevamo bene che nel vademecum realizzato dalla Chiesa di Milano è raccomandato di «evitare il clima di festa» in quel giorno, per non farlo prevalere… come dice il vademecum? Aspetti l’ho qui in tasca… ecco, per non farlo prevalere «sul fine riflessivo, di coscientizzazione e di educazione» eccetera. E tuttavia… 
Continua figliolo.

Tuttavia, come le dicevo, è stata celebrata quella messa, proprio per noi, davanti a tutti! Proprio nel giorno della Festa delle famiglie! E tra i fedeli c’erano… c’erano  anche dei divorziati, anche persone che, proprio come dice il vademecum,  «vivono la solitudine, la vedovanza, l’abbandono da parte del coniuge, i figli divisi tra papà e mamma».  Eppure  noi… Noi tutti… Ecco sì, noi tutti… siamo stati contenti di festeggiare!
Capisco figliolo…

Molto contenti…
Eh, va bene, ma non temere, io sono qui per accompagnarti.

Grazie padre. È proprio per questo che…
Che cosa c’è? Figliolo, hai altro da confessare?

In effetti non ho finito, padre. Devo dire che durante la messa…
Sì, non avere paura di aprire il tuo cuore.

Noi abbiamo, ecco sì, abbiamo  anche rinnovato le promesse matrimoniali!
Uhm… Capisco. E poi?

E poi c’è stato, beh, ecco… C’è stato un applauso…
Uhm… E com’è stato? L’applauso, voglio dire…

Forte, un forte applauso. Bello, convinto. Ci hanno anche gridato «evviva gli sposi!».
Uhm… E poi?

E poi… poi… ci siamo riuniti nel salone,  con un po’ di parrocchiani, e tra loro anche qualche divorziato, qualche single, qualche vedova. Niente di speciale: sa,  una crostata di mirtilli  fatta da mia moglie, un bicchiere di spumate… Nei bicchieri di plastica… Però indubbiamente  noi, noi che siamo  cattolici ambrosiani, abbiamo… abbiamo… ebbene sì:  abbiamo festeggiato!
Capisco… capisco. Hai altro da confessare?

Sì padre.
Dimmi, non temere. Io non ti giudico…

Ecco, il fatto è che io questa donna, mia moglie voglio dire, la amo ancora.
Trentadue, anzi trentatré anni dopo?

Sì padre.
Ma andiamo… Cioè, volevo dire: e dunque?

E dunque è per questo che abbiamo festeggiato. Davanti a tutti, divorziati compresi, nel giorno della famiglia! E c’erano i nostri figli, i nipoti…
Figliolo, è scritto: «È inevitabile che gli scandali avvengano».

Lo so, lo so… E tuttavia…
Tuttavia?

Non riesco a pentirmi fino in fondo. Anche se ci sto pregando sopra…
Beh… Direi che occorre discernere.

Sì?
Discernere. Con paziente realismo. Sai… Le periferie…

Eh già… Ma noi veramente abitiamo in centro…
Le periferie esistenziali, intendo. Si tratta di integrare la fragilità. Nel discernimento, naturalmente.

Ma ecco io… io…non credo di capire…
Forse ora non capisci, ma capirai… La Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi…

Di che?
La Chiesa, come saprai, considera le situazioni particolari… Noi non coltiviamo pregiudizi… Quell’epoca è finita.

Meno male, padre.
Accogliere! Accompagnare… Ecco ciò che conta.

Questo l’ho capito, padre, ma io…
Affrontare queste situazioni in maniera costruttiva. Non c’è altra via.

Certo…
Con pazienza, delicatezza! Tenerezza!

Eh già…
Dobbiamo trovare il modo di far partecipare tutti alla comunità.

Già….
L’approccio pastorale esige coscientizzazione…

Non l’abbiamo già detto, padre?
Occorre insistere. La Chiesa riconosce i seri motivi che impediscono ai coniugi …

Ma padre… Non capisco…
Forse noi, come Chiesa, abbiamo presentato un ideale troppo astratto…

Ma padre…
Ti assicuro che potete comunque vivere e maturare come membra vive della Chiesa…

Meno male…
Tenendo conto delle circostanze attenuanti…

Quali circostanze, padre?
È meschino concentrarsi su una norma generale…

Ma quale norma?
Alle situazioni «irregolari» non possiamo applicare leggi morali.

Padre, anche se con fatica, avverto tanta saggezza nelle sue parole. Ma io sono così immaturo, così debole… Non riesco a sentirmi irregolare…  
Non tutto è bianco o nero…

Già!
Noi diciamo no alla morale fredda!

Bene, le sue parole mi rincuorano!
L’importante è avviare un processo di coscientizzazzione.

D’accordo. E…?
In un contesto di discernimento pastorale, sarete accolti comunque.

Lei mi dà consolazione, padre….
Ora vai in pace figliolo, e non peccare… Scusa, volevo dire: non festeggiare più!

Grazie padre. E la penitenza?
Beh, ecco… Fai tu. Devi guardarti dentro. Sai… la coscientizzazione…

Grazie padre.
Prego. Ora vai, vai…

[All’interno del confessionale la luce si spegne.
Il fedele ambrosiano se ne va.
Sembra piuttosto meditabondo].












domenica 29 gennaio 2017

Milano e la Chiesa dei “diversamente” cristiani


Rahner, gesuita come papa Francesco.
Karl Rahner, gesuita 


Il caso degli anniversari di nozze cancellati per rispetto dei divorziati è il sintomo di una nuova “Chiesa”. In cui la teologia rahneriana del “diversamente” implica che il cattolico non abbia più nulla da dire al mondo a partire dalla propria fede, perché sarebbe un indebito atto di accusa verso altri.




La nuova chiesa di Karl Rahner progressivamente avanza, ora in forma sonora ora in modo più mellifluo. Il tentativo degli uffici pastorali della diocesi di Milano di non disturbare i conviventi e i divorziati celebrando gli anniversari dei matrimoni in chiesa, di cui abbiamo riferito ieri, è un ulteriore esempio di questa “nuova Chiesa. Dopo i “diversamente credenti” ora abbiamo i “diversamente conviventi” o i “diversamente sposati”. 

Questi concetti sono in pieno di origine rahneriana: tutti siamo credenti, perché il rapporto con Dio avviene dentro la nostra storia ed è costitutivo della nostra esperienza (è “trascendentale”, diceva il teologo tedesco). Tutti credono di credere. Questa è la trascendenza, che è quindi data a tutti. Le altre religioni, l’ateismo stesso, le religioni cristiane e la fede in Gesù Cristo sono espressioni di questa fede anonima originaria dentro la quale stanno tutti gli uomini. Tutti sono credenti anonimi e, quindi, cristiani anonimi. Ecco perché siamo “diversamente credenti”. In gergo sociologico ci sono i “diversamente abili”: non è che uno sia abile e l’altro no, tutti lo sono, anche se diversamente. Così, in materia di religione e di fede, non è che uno sia stato catturato dalla religione vera ed unica mentre l’altro no, tutti sono già salvati, anche se diversamente.

Lo stesso si può dire della famiglia e del matrimonio, siamo tutti “diversamente sposati”, perché siamo tutti in cammino e nella nostra diversità si fa strada la grazia di Dio, che è presente da dentro la storia e non da fuori, come fosse un Legislatore assoluto. Dio si rivela nell’esperienza e ci accompagna a partire dalla nostra situazione (ci ama “così come siamo”, come ormai si sente spesso dire nelle omelie della nuova chiesa rahneriana), quindi in tutte le nostre situazioni è presente la sua grazia. Come hanno detto più volte i cardinali Kasper e Schoenborn, non ci sono più situazioni regolari e irregolari.

Siamo tutti diversamente in cammino e dobbiamo rispettarci così, nelle nostre situazioni, senza giudicarle, senza discriminarle, senza mancare di rispetto, senza ostentare una qualche “superiorità” secondo il piano di Dio di una situazione su un’altra. Dichiarare in pubblico la propria fede può allora diventare offesa a chi è di fede diversa o a chi è ateo. Celebrare un anniversario di matrimonio può diventare offesa a chi è separato, divorziato o divorziato-risposato.

È certo che di questo passo non solo il dichiarare questo o quello verrà concepito come discriminante, ma anche il dichiarare in quanto tale. Il semplice professare la fede, confessarla, pubblicamente proclamarla potrà essere considerato come mancanza di rispetto a tutti gli altri. Perfino il semplice fatto di essere visibili come cattolici potrà essere considerato un’offesa agli altri. È per questo che, nella dottrina di origine rahneriana dell’essere “diversamente credenti” e “diversamente sposati” – che altro non è se non l’applicazione dell’idea di essere già “diversamente salvati” – si esprime il destino di essere invisibili.

Non già per ritirarsi dal mondo ma, al contrario, per diventare completamente mondo, accogliendone tutte le situazioni e tutte le diversità. La teologia del “diversamente” implica infatti che il cattolico non abbia più nulla da dire al mondo a partire dalla propria fede, perché sarebbe un indebito atto di accusa verso altri. Se gli sposi di una comunità cristiana non possono più celebrare davanti all’altare l’anniversario del matrimonio che proprio lì, su quell’altare, è nato, per non mancare di rispetto agli altri, allora quella comunità non potrà più dire niente in proprio, ossia di derivante dalla propria fede. La nuova “Chiesa” di Karl Rahner è una Chiesa afasica, che non si dichiara, che non interviene, che non indica né proclama. Una Chiesa che si defila e si mimetizza.

“Diversamente credenti” e “diversamente sposati” esprimono la presa d’atto che il mondo è originariamente e giustamente plurale, e così deve rimanere. Il “diversamente” è una ricchezza e non una povertà. Pretendere di evangelizzare rendendo tutto “cristiano” è anticristiano. Come non bisogna convertire chi è di altra religione così non bisogna far sposare chi è convivente o separato. Il “diversamente” non è una situazione passeggera che va superata, ma la situazione normale della vita cristiana, dato che Dio si manifesta proprio nelle pieghe di questo “diversamente”.

Sarebbe bieco proselitismo voler convertire alla nostra fede un ateo, come del resto convincere a celebrare il matrimonio una coppia convivente. Ci pensa Dio, dato che è possibile che in una coppia sposata non ci sia la grazia di Dio, che potrebbe esserci invece in una coppia convivente. Questo dice la nuova “Chiesa” rahneriana. Di passo in passo, finiremo tutti per pensarla così?







fonte: lanuovabq.it





S. Messa in rito antico per la "Candelora" nella Chiesa S. Cuore a Prato - 2 febbraio 2017










Giovedì 2 febbraio alle ore 21:00 presso la chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Gesù in Prato (Via Ofanto 9, tel. 0574 466777) sarà celebrata una S. Messa in rito romano antico in Latino in occasione della Festa della Presentazione di Gesù Bambino e della Purificazione della Beata Vergine Maria, detta popolarmente festa della "Candelora" perché i riti di quel giorno, molto suggestivi, che ricordano la presentazione al tempio di Gesù Bambino 40 giorni dopo la nascita, comprendono la benedizione delle candele e la processione con le candele accese. La S. Messa sarà celebrata dal Parroco Mons. Vittorio Aiazzi.








Si ricorda anche che il successivo sabato 4 febbraio alle ore 16:00 presso la chiesa parrocchiale di San Salvatore a Vaiano il parroco don Marco Locati celebrerà la prima Messa in rito romano antico del calendario 2017. Alle ore 15:30 è prevista la recita del S. Rosario in preparazione alla S. Messa che è una prefestiva ed è dunque valida per il precetto festivo.







Foto: Chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Prato con i rilievi del ceramista Angelo Biancini, una delle figure più rappresentative della scultura e dell’arte ceramica italiana del Novecento, le cui opere sono presenti in collezioni pubbliche e private (come il Museo Internazionale della Ceramica di Faenza e la Collezione di Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani).








Ordine di Malta. Il perché di uno scontro





 

«Distinti Membri del Sovrano Consiglio, mi premuro di informarVi che S.A.E. Fra’ Matthew Festing, Gran Maestro dell’Ordine, in data 24 gennaio 2017 ha rassegnato le Sue dimissioni nelle mani del Santo Padre Francesco, il quale le ha accettate».

Si apre così la lettera del segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, ai componenti del più alto organo di governo dell’Ordine di Malta. La lettera, datata 25 gennaio 2017, precisa che sarà ora il Gran Commendatore ad assumere la responsabilità del governo ad interim.

La lettera costituisce l’atto finale di una durissima controversia, senza precedenti, tra l’Ordine e la Santa Sede, ma anche all’interno dell’Ordine stesso. Tuttavia non rappresenta certamente la conclusione di una vicenda che mostra ancora lati oscuri.

Ricapitolando, ricordiamo che l’ormai ex Gran Maestro, Robert Matthew Festing, inglese di Northumberland, figlio di un militare britannico, discendente di un cavaliere di Malta martirizzato nel 1539, il 24 gennaio ha dato le dimissioni, dopo un confronto faccia a faccia, che immaginiamo drammatico, con Francesco.

Perché lo ha fatto?

La crisi prende il via lo scorso novembre, quando il Gran Maestro, la suprema autorità dell’Ordine, destituisce il Gran Cancelliere (ministro degli affari esteri e capo dell’esecutivo) Albrecht Freiherr von Boeselager,  giurista tedesco, figlio del barone Philipp von Boeselager, ufficiale di cavalleria coinvolto nel fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944.

I fatti contestati si riferiscono al periodo nel quale Boeselager ricoprì la carica di grande ospedaliere (responsabile delle missioni caritatevoli) e l’accusa è di non aver impedito, nell’ambito delle iniziative umanitarie e di assistenza medica finanziate dai cavalieri dell’Ordine, la distribuzione di preservativi e contraccettivi, anche abortivi, in Africa e in Asia come misura per contrastare il traffico sessuale e l’Aids, comportamento non in linea con la dottrina cattolica e quindi considerato gravemente scorretto per il responsabile di un Ordine, quello di Malta, che ha come proprio scopo non soltanto l’assistenza dei poveri e dei malati ma anche la difesa della fede.

Boeselager però respinge tutte le accuse, non accetta il provvedimento a suo carico (per due volte si rifiuta di dimettersi, anche quando l’invito diventa un ordine) e nei suoi confronti viene dunque avviato un procedimento disciplinare.

È a questo punto che nella vicenda entra in gioco la Santa Sede. Informato dei fatti, il 22 dicembre Papa Francesco crea una commissione d’inchiesta incaricata di «raccogliere elementi atti ad informare compiutamente e in tempi brevi la Santa Sede»  per fare luce su quanto sta accadendo.
I cinque membri della commissione vaticana sono l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, già osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra; il gesuita Gianfranco Ghirlanda, canonista dell’Università Gregoriana; il conte Jacques de Liedekerke, già Gran Cancelliere dell’Ordine dal 2001 al 2004, avvocato belga fondatore di studi legali internazionalisti a Bruxelles e Anversa; lo svizzero Marc Odendall, esperto di finanza, amministratore di svariate fondazioni, e il banchiere libanese Marwan Sehnaoui.

Festing, tuttavia, rifiuta decisamente l’intervento della commissione, definito «inaccettabile». La rimozione di Boeselager, argomenta, è un «atto di amministrazione interna al governo del Sovrano Ordine di Malta e di conseguenza ricade esclusivamente nelle sue competenze». Non solo. Con una successiva dichiarazione il Gran Magistero ribadisce la ferma intenzione di non collaborare con la commissione vaticana, «anche al fine di tutelare la propria sfera di sovranità rispetto a iniziative che si atteggiano quali forme volte obiettivamente (e quindi al di là delle intenzioni, che sono giuridicamente irrilevanti) a porre in discussione o comunque a limitare detta sfera».

La sovranità e l’autonomia dell’Ordine: ecco a che cosa si appella Festing. Occorre infatti ricordare che l’Ordine di Malta è regolato da una carta costituzionale, riformata nel 1997, nella quale si spiega che «l’Ordine è soggetto di diritto internazionale ed esercita le funzioni sovrane» (articolo 3, paragrafo 1), funzioni esercitate da propri organi di governo, propri organi legislativi e propri tribunali.

Per il diritto internazionale l’Ordine di Malta è uno Stato sovrano, che emette passaporti, intrattiene relazioni diplomatiche ed ha suoi rappresentanti all’Onu e all’Unione Europea. Nessuno, quindi, può mettere in discussione tale sovranità, nemmeno la Santa Sede. Di qui una nota ufficiale nella quale Festing non esita a parlare di «equivoco» in cui sarebbe caduta la Segreteria di Stato vaticana disponendo l’avvio dell’inchiesta.

La Santa Sede, da parte sua, non demorde. L’inchiesta dunque prosegue e, a quanto risulta, scopre che Boeselager non ha commesso irregolarità o, quanto meno, non nei termini presentati da Festing.

A questo punto è chiaro che la disputa va al di là del caso specifico, relativo al comportamento più o meno corretto di Boeselager. Quello che è in atto è un vero e proprio scontro tra Festing e il Vaticano.
Poiché Patrono dell’Ordine (ovvero rappresentante del Papa) è il cardinale Raymond Leo Burke, che Francesco ha rimosso dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ed è uno dei quattro porporati che hanno scritto a Francesco manifestando apertamente i loro dubia sull’Amoris laetitia (lettera alla quale Francesco non ha mai risposto) e poiché Burke, in tutta la diatriba con la Santa Sede, si è schierato decisamente dalla parte di Festing, la domanda è: la vicenda Boeselager non è forse il tipico casus belli che ha fatto deflagrare un conflitto la cui portata è più vasta?

Sullo sfondo ci sono gli interessi economici e finanziari che ruotano attorno all’Ordine di Malta (si parla, fra l’altro, di un tesoro di 120 milioni di franchi svizzeri lasciato in eredità in Lichtenstein da un facoltoso francese) e ci sono i contrasti interni all’Ordine, che vanno avanti da lungo tempo, sia sulla gestione dei beni sia sui ciò che l’Ordine deve essere: un organismo, com’è sempre stato, di forte impronta religiosa, legato alla retta dottrina cattolica, o qualcosa di più laico, qualcosa di più simile a una ONG svincolata da certi doveri?

Prima di tentare una risposta, è bene cercare di capire più da vicino che cos’è l’Ordine di Malta.

Può aiutare, in questo senso, lo studio più recente sull’Ordine: parliamo del libro L’Ordine di Malta. Storia, giurisprudenza e relazioni internazionali (De Luca editori d’arte, 2016), di Piero Valentini.
L’autore,  pilota militare della Guardia di finanza, è donato di devozione (uno dei ceti in cui sono suddivisi gli appartenenti all’Ordine) e, come tale, svolge attività volontaria nel Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, impegnato in compiti di protezione civile e assistenza umanitaria.
Partendo dal motto dell’Ordine (Tuitio fidei et obsequium pauperum, Difesa della fede e servizio ai poveri), Valentini ne ricostruisce le vicende storiche, ne inquadra la personalità giuridica internazionale (anche in relazione ai rapporti con la Santa Sede), spiega le origini e la natura dell’ordinamento giuridico, delinea i compiti dei responsabili e illustra quali sono le attività dei Cavalieri di Malta nel mondo contemporaneo.

Scopriamo così che l’Ordine di Malta, le cui origini risalgono all’XI secolo e sono legate alla difesa e all’assistenza dei pellegrini che visitavano la Terra Santa, non è soltanto uno dei più antichi ordini religiosi cattolici, ma è effettivamente (come Festing ha fatto presente in risposta alla commissione vaticana) un ente primario di diritto internazionale. La maggior parte dei circa 13500 membri attuali, tra cavalieri e dame, sono laici, tutti votati all’esercizio della carità cristiana, ma ci sono anche consacrati, come lo stesso Matthew Festing.

Si diventa membri dell’Ordine per cooptazione e in passato, per tradizione, i Cavalieri di Malta appartenevano alla nobiltà, ma oggi i nobili sono una minoranza. Possono essere ammesse solo persone di provata fede e pratica cristiana, in possesso di indiscussa moralità, che abbiano acquisito meriti nei confronti dell’Ordine.

Oggi l’Ordine di Malta opera soprattutto nell’ambito dell’assistenza medica e sociale e nel campo degli interventi umanitari. Più di centoventi i paesi nei quali è impegnato, anche grazie ai rapporti diplomatici allacciati con centoquattro Stati. Numerose le strutture gestite: ospedali, ambulatori, centri medici, istituti per anziani e disabili, case per i malati terminali.

Quando nel mondo avvengono calamità naturali, come terremoti e inondazioni, il Malteser International, l’agenzia di soccorso dell’Ordine di Malta, è sempre in prima linea. Attraverso il Ciomal (Comitato internazionale dell’Ordine di Malta) viene poi svolta attività di assistenza per i malati di lebbra, malattia ancora presente in diverse regioni del mondo.

Al vertice dell’Ordine c’è il Gran Maestro, eletto a vita dal Consiglio Compìto di Stato, assistito dal Sovrano Consiglio, i cui membri sono eletti dal Capitolo Generale, l’assemblea dei rappresentanti dei membri dell’Ordine, che si riunisce ogni cinque anni.

Il finanziamento delle attività avviene principalmente grazie alla generosità dei membri e a donazioni private. In alcuni paesi ci sono convenzioni con i governi locali. Per l’attività nei paesi più poveri l’Ordine dispone anche di aiuti finanziari da parte della Commissione Europea e altre organizzazioni internazionali.

Le sedi centrali (che godono di extraterritorialità) sono a Roma: nel Palazzo Magistrale, in via dei Condotti, risiede il Gran Maestro e si riuniscono gli organi di governo; nella Villa Magistrale, sull’Aventino, hanno sede il Gran Priorato di Roma, che riunisce i membri dell’Ordine nell’Italia centrale, e l’ambasciata dell’Ordine di Malta presso la Repubblica italiana.

Nel suo libro Piero Valentini affronta una questione delicata, ancor più rilevante alla luce degli ultimi avvenimenti: come possono conciliarsi le prerogative sovrane, paragonabili a quelle di un vero e proprio Stato (sia pure senza territorio) con i caratteri sacri e apostolici di un ordine religioso sottoposto all’autorità della Chiesa? Come armonizzare le esigenze del diritto internazionale e quelle del diritto canonico?

La risposta sta nella sentenza cardinalizia di papa Pio XII (24 gennaio 1953), con la quale si è stabilito in via definitiva che la Santa Sede riconosce l’Ordine di Malta come soggetto di diritto internazionale e che, di conseguenza, «le relazioni tra le due istituzioni non possono essere circoscritte nell’ambito del solo diritto canonico, ma devono necessariamente essere regolate dalle norme e dalla prassi proprie del diritto internazionale pubblico».

In pratica, la sentenza cardinalizia del 1953 sancisce che l’Ordine di Malta dipende dalla Santa Sede in quanto istituto di vita consacrata (quindi per quanto concerne le competenze religiose e spirituali dei suoi membri consacrati), mentre, in quanto ente equiparato a uno Stato sovrano, è indipendente dalla Santa Sede nell’ambito dei rapporti diplomatici.

Abbiamo dunque una doppia configurazione giuridica, all’interno della quale, come si può immaginare e come stiamo vedendo in questi giorni, ci sono margini di manovra per chi volesse far prevalere l’una o l’altra.

È da notare comunque che nell’Annuario pontificio, dove sono elencati tutti gli organismi della Santa Sede, l’Ordine di Malta è citato non fra gli ordini religiosi, ma tra le ambasciate degli Stati accreditati presso la Santa Sede.

Lasciamo ora il libro di Piero Valentini, i cui contenuti vanno ben oltre i brevi cenni possibili qui, e torniamo alla lettera inviata dal cardinale Parolin il 25 gennaio ai membri del Sovrano consiglio.
Nella lettera il segretario di Stato annuncia: «Per aiutare l’Ordine nel processo di rinnovamento che si vede necessario, il Santo padre nominerà un Suo Delegato personale  con i poteri che definirà nello stesso atto di nomina».

Dunque, secondo il papa è necessario un «processo di rinnovamento», e tale processo sarà guidato dal pontefice attraverso un suo rappresentante. Rinnovamento verso dove? Con quali scopi? In base a quali princìpi?

Al momento non lo sappiamo, però è chiaro che il papa vuole dei cambiamenti sostanziali, vuole dirigerli direttamente e ritiene dunque di avere la potestà giuridica che gli consente di farlo, ben al di là della competenza, sul solo piano religioso e spirituale , relativa ai membri dell’Ordine che emettono i voti monastici.

Prosegue il cardinale Parolin: «Il Santo Padre, sulla base dell’evidenza emersa dalle informazioni da Lui assunte, ha determinato che tutti gli atti compiuti dal Gran Maestro dopo il 6 dicembre 2016 sono nulli e invalidi. Così anche quelli del Sovrano Consiglio, come l’elezione del Gran Cancelliere ad interim».

Il 6 dicembre 2016 è il giorno nel quale il gran maestro Matthew Festing, nel pieno possesso della sua sovranità e alla presenza del gran commendatore Ludwig Hoffmann von Rumerstein e del rappresentante del papa, cardinale Raymond Leo Burke, ha contestato al gran cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager i comportamenti scorretti e lo ha invitato alle dimissioni. Dopo di che, l’abbiamo detto, Boeselager, nonostante il voto di obbedienza, ha rifiutato, e lo ha fatto anche quando Festing s’è visto obbligato a trasformare l’invito in un ordine.

Ora è chiaro che annullare e rendere invalidi tutti gli atti compiuti da Festing e dal Sovrano Consiglio dopo quella data, compresa l’elezione del Gran Cancelliere ad interim, significa non solo sconfessare e azzerare totalmente il governo dell’Ordine ma infliggergli già, di fatto, una pesante sanzione. Il modo più netto per affermare che chi comanda è il papa.

Da notare poi che nella lettera del segretario di Stato non c’è una sola espressione di  ringraziamento, come di solito avviene in queste occasioni, nei confronti di Festing per il lavoro svolto. La lettera infatti si conclude così: «Il Santo Padre, riconoscendo i grandi meriti dell’Ordine nel realizzare tante opere per la difesa della fede e al servizio dei poveri e degli ammalati, esprime tutta la sua sollecitudine pastorale verso di esso e auspica la collaborazione di tutti in questo momento delicato e importante per il futuro. Il Santo Padre benedice tutti i membri, volontari e benefattori dell’Ordine e li sostiene con la Sua preghiera».

Su Festing, insomma, è caduta la mannaia, ma anche sull’Ordine intero il pugno del papa si fa sentire.

Prima di chiudere, sembra opportuno ricordare le parole che Benedetto XVI rivolse ai membri dell’Ordine di Malta il 9 febbraio 2013 (appena due giorni prima della sua rinuncia al pontificato), quando, con un «affettuoso pensiero» a tutti, espresse gratitudine per l’opera svolta a favore dei più bisognosi. Interessante notare, in particolare, quanto papa Ratzinger disse ricordando i primi passi dell’Ordine: «L’occasione di questo incontro è data dal nono centenario del solenne privilegio Pie postulatio voluntatis del 15 febbraio 1113, con cui Papa Pasquale II poneva la neonata “fraternità ospedaliera” di Gerusalemme, intitolata a San Giovanni Battista, sotto la tutela della Chiesa, e la rendeva sovrana, costituendola in un Ordine di diritto ecclesiale, con facoltà di eleggere liberamente i suoi superiori, senza interferenza da parte di altre autorità laiche o religiose».

Si notino le espressioni «… e la rendeva sovrana», «con facoltà di eleggere liberamente…», «senza interferenze…».

Poi, in un altro passaggio, Benedetto XVI, ricordando il motto «Tuitio fidei et obsequium pauperum», disse: «Queste parole ben sintetizzano il carisma del vostro Ordine che, come soggetto di diritto internazionale, non ambisce ad esercitare poteri ed influenze di carattere mondano, ma desidera svolgere in piena libertà la propria missione per il bene integrale dell’uomo, spirito e corpo, guardando sia ai singoli che alla comunità, soprattutto a coloro che più hanno bisogno di speranza e di amore».

Si noti: «… come soggetto di diritto internazionale», «in piena libertà».

Staremo a vedere.


Aldo Maria Valli





http://www.aldomariavalli.it/2017/01/28





venerdì 27 gennaio 2017

Terremoto: l’arcivescovo di Spoleto-Norcia indice giornata di digiuno e processione penitenziale per chiedere a Dio che si calmino le forze della natura


25 gennaio 2017

“Il terremoto continua a scuotere le nostre terre e accresce nelle persone tensione e paura, incertezza del futuro e scoraggiamento. Tutti, nelle diverse zone della nostra diocesi, abbiamo esperimentato la paura e la precarietà e tanti portano le conseguenze di questi eventi dolorosi. Per questo, sentiamo ancora di più il bisogno di elevare a Dio onnipotente una preghiera accorata e confidente perché si calmino le forze della natura e sia restituito alle nostre popolazioni un tempo di serenità e di pace”.

Lo afferma afferma l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, mons. Renato Boccardo, che per la giornata di venerdì 27 gennaio propone agli uomini e alle donne di buona volontà di unirsi a lui per una giornata di digiuno, che culminerà la sera alle 21 in una veglia di preghiera presieduta dallo stesso presule nella palestra dell’Oratorio del Sacro Cuore a Spoleto (la chiesa è inagibile a causa del sisma, ndr).

“Nella tradizione cristiana – ricorda l’arcivescovo – il digiuno ha un posto molto importante e particolare: è una privazione che si offre per rendere gradita a Dio la preghiera. Non facciamo digiuno per raccogliere soldi, ma per chiedere al Signore, creatore dell’universo, di intervenire anche sulle forze della natura. Non è Dio che manda il terremoto: ma Lui, che ha dato origine al mondo, regolato poi dalle leggi della natura che fanno il loro corso, può intervenire per il bene del creato. Con questo gesto vogliamo allora chiedere al Signore di avere misericordia di queste popolazioni e di questa terra ferite dal terremoto. Sarà anche un momento che ci aiuta a capire l’essenziale e a renderci conto che non tutto quello che facciamo è necessario”.

Il giorno seguente, sabato 28 gennaio alle 15.30, l’arcivescovo Boccardo presiederà una processione penitenziale (momento strettamente legato al digiuno del giorno precedente) intorno alle mura di Norcia con l’immagine della Madonna Addolorata estratta dai Vigili del Fuoco dall’omonima chiesa nel centro della città di S. Benedetto crollata dopo la scossa del 30 ottobre. Questa immagine, molto venerata a Norcia e invocata anche come protettrice dai terremoti, ora è conservata al deposito del Ministero dei Beni Culturali a Santo Chiodo di Spoleto. “La riporteremo per qualche ora nella sua terra per chiederle protezione sulla gente della Valnerina e liberazione dalla persecuzione del sisma”, spiega il presule.




http://agensir.it/quotidiano/2017/1/25







giovedì 26 gennaio 2017

Il Papa "commissaria" l'Ordine di Malta, ora si aspetta la punizione per il cardinale Burke






di Riccardo Cascioli (26-01-2017)

Il duro e inusuale intervento di papa Francesco che ha forzato alle dimissioni il Gran Maestro Robert Matthew Festing per poi annunciare una sorta di commissariamento del Sovrano Militare Ordine di Malta, pare essere soltanto l’inizio di un terremoto sia nella Chiesa sia nel campo dei rapporti internazionali.

In gioco ci sono molte questioni importanti: la corrispondenza delle attività caritative alla dottrina della Chiesa e l’autonomia di un ente sovrano, anzitutto, ma appare ormai evidente che l’esasperazione dei toni ha come obiettivo la testa del cardinale Raymond L. Burke, che dell’Ordine di Malta è il cardinale patrono, una figura un po’ assistente spirituale e un po’ diplomatico vaticano presso l’Ordine. Burke, tra i cardinali che più manifestano perplessità per alcune scelte e decisioni di papa Francesco e uno dei quattro firmatari dei Dubia circa l’Amoris Laetitia, è da tempo nel mirino, tanto che già la nomina a patrono dell’Ordine di Malta nel novembre 2014 era stata una degradazione rispetto alla carica di prefetto del Tribunale della Segnatura apostolica che ricopriva allora.

Come è noto, la crisi ha inizio quando lo scorso novembre il Gran Maestro Festing destituisce il Gran Cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager, reo di aver favorito la distribuzione di contraccettivi in Africa e Asia all’interno di programmi di sviluppo finanziati dall’Ordine. Boeselager respinge le accuse, non accetta la destituzione e chiede l’intervento della Santa Sede che, in effetti nomina una commissione, presieduta dall’arcivescovo Silvano Tomasi, incaricata di appurare come si sono svolte le vicende. A nome dell’Ordine di Malta, Festing dichiara la volontà di non collaborare con la commissione vaticana, ritenuta un’indebita ingerenza nelle vicende interne di un ente sovrano. Pronta risposta della segreteria di Stato che rivendica la legittimità dell’indagine, che è solo conoscitiva, ma il braccio di ferro va avanti (per approfondire gli eventi clicca qui) fino alla svolta inaudita del 24 gennaio.

Nel tardo pomeriggio papa Francesco ha convocato Festing e gli ha chiesto le dimissioni immediate, inducendolo a scrivere alla sua presenza la lettera richiesta. Non sappiamo ovviamente tutti i contenuti del colloquio ma la pressione morale deve essere stata fortissima se Festing ha accettato di rimangiarsi il comunicato di pochi giorni prima in cui rivendicava con fierezza la sovranità dell’Ordine. E ci sono anche voci secondo cui nella lettera di dimissioni ci potrebbero essere riferimenti al ruolo attivo che il cardinale Burke avrebbe avuto nella destituzione di Boeselager.

In effetti da quando il caso è esploso, dagli ambienti vicini a papa Francesco si insiste molto sulle presunte responsabilità di Burke che avrebbe millantato un inesistente sostegno del Papa alla decisione di silurare il Gran Cancelliere. È interessante da questo punto di vista notare come su questo punto insista molto la testata Vatican Insider, il cui lavoro di cecchinaggio – come si sa - è implacabile. Invano Burke nega la circostanza e il fatto che come cardinale patrono non ha voce in capitolo in decisioni che sono frutto di procedure interne dell’Ordine. Le accuse nei suoi confronti sono un crescendo, malgrado sia chiaro che dietro lo scontro nell’ordine ci siano divisioni che si trascinano da anni tra diverse cordate nazionali arricchite recentemente da un contenzioso intorno a un lascito di 120 milioni di euro depositati in un trust in Svizzera (clicca qui).

In ogni caso ieri, 25 gennaio, la Sala Stampa della Santa Sede – con involontario umorismo - ha comunicato l’avvenuta accettazione delle dimissioni del Gran Maestro Festing. Inoltre ha annunciato la prossima nomina di un Delegato Pontificio chiamato a governare l’Ordine (affidato nell’interim al Gran Commendatore). In altre parole l’Ordine di Malta è da considerarsi “commissariato” dalla Santa Sede.

Si tratta di una decisione senza precedenti che ha provocato grosso sconcerto e non mancherà di avere ripercussioni internazionali: l’Ordine di Malta è infatti un ente sovrano, uno Stato senza territorio, che ha anche accreditato un ambasciatore presso la Santa Sede. Come ha notato il settimanale inglese The Catholic Herald, la decisione del Papa equivale a una vera e propria annessione, una palese violazione del diritto internazionale che, in prospettiva, mette a rischio anche l’indipendenza della Santa Sede. Con un precedente di questo genere, come potrebbe infatti difendersi legalmente la Santa Sede se, ad esempio, un giorno «il governo italiano scegliesse di vedere l’indipendenza della Città del Vaticano come una formalità anacronistica»?

Nel presente intanto, la decisione rischia di distruggere la millenaria attività dell’Ordine di Malta, presente in tutto il mondo con «opere di misericordia verso gli ammalati, i bisognosi e le persone prive di patria», come recita la Costituzione. La presenza dell’Ordine di Malta in oltre cento paesi è garantita dalla rappresentanza diplomatica, che oggi potrebbe essere messa in seria discussione proprio per questa perdita di sovranità.

Sarebbe un clamoroso autogol per la Chiesa, e sarebbe davvero incomprensibile se poi si confermasse che un obiettivo è la testa del cardinale Burke. L’insistenza con cui lo si accusa di essersi fatto scudo del Papa per silurare un personaggio non gradito – ignorando peraltro la sua smentita – lascia presagire la volontà di una punizione pesante (per un cardinale è tra le peggiori accuse). A maggior ragione se venisse confermata la “confessione” imposta al Gran Maestro Festing. Si potrebbe pensare addirittura che si voglia cogliere l’occasione per arrivare a quella punizione invocata da alcuni prelati all’indomani della pubblicazione dei Dubia per i cardinali che li avevano firmati: ovvero la revoca della porpora.
Ad ogni modo l’impressione è che siamo solo all’inizio.




http://www.lanuovabq.it







mercoledì 25 gennaio 2017

Se le pecore (ri)educano i pastori

pecore



 in Chiesa

La vicenda di don Giulio M., il parroco di Bonassola, nella Riviera di Levante, balzato in queste ore agli onori delle cronache per essersi dichiarato a favore dell’«amore gay» e per aver contestato pubblicamente l’apertura di uno sportello voluto dalla giunta regionale volto a vigilare sulle iniziative gender nelle scuole, presenta diversi profili rilevanti. Quello su cui i media – mossi dal solito fiuto per lo scandalo – stanno focalizzandosi di più, a giudicare dalle ricostruzioni su questa storia, è il conflitto a distanza tra questo prete e il vescovo di La Spezia, il quale ha espresso «sconcerto e meraviglia» per l’accaduto.

C’è però, a mio avviso, un altro aspetto su cui è bene riflettere, vale a dire le reazioni dei fedeli di don Giulio, i quali sembra abbiano accolto con grande entusiasmo le “aperture” del loro parroco. Lo provano l’accoglienza calorosa che costoro gli hanno recentemente riservato sul sagrato dopo una Messa, e l’appoggio manifestato anche su un gruppo su Facebook, dove si potevano leggere commenti tipo «un grande successo scandito dalle bellissime parole di don Giulio: stiamo uniti per l’uguaglianza e i diritti di tutti» o «solidarietà per un uomo, di chiesa, che dice cose normali. Grazie, don Giulio».

Ora, che un parroco sia amato dalla comunità è cosa bella. Ci mancherebbe. Il punto qui però è un altro: stiamo parlando di un sacerdote che, su un tema chiave, assume posizioni in contrasto non solo con la dottrina cristiana di sempre – e pure con le posizioni espresse da pensatori non cristiani ma poco entusiasti dell’omosessualità, da Platone (Leggi, 836 B) ad Aristotele (Etica Nicomachea, 1148b 24-30) -, ma pure con papa Francesco che in Amoris Laetitia ha scritto che «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia».

Eppure, come si è visto, per il parroco di Bonassola giù applausi. Come mai? Semplice: perché costui ha appoggiato posizioni già diffuse dalla cultura dominante tra i suoi stessi fedeli. In pratica, qui non è il pastore che ha guidato le pecore ma sono le pecore – in un tragico ribaltamento dei ruoli – ad aver rieducato il pastore, che ha finito col seguirle. Ed è questo, per me, l’aspetto più doloroso della vicenda. Che ci deve spingere a pregare, se abbiamo fede, per quei pastori che invece non cedono alle sirene del pensiero unico, decisi a rimanere fedeli alla verità. Come ha fatto duemila anni fa Qualcuno che avrebbe potuto farsi al volo amici Pilato e la folla, anziché lasciare tutto il consenso a Barabba.




Giuliano Guzzo







L'altare verso il popolo è più adatto all'uomo moderno?






19 gennaio 2017
L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 9
undicesima domanda



Klaus Gamber

Tutto ciò è molto bello… Ma non bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo moderno non è più tanto capace di comprendere che per pregare bisogna rivolgersi a Oriente? Per lui il sol levante non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo dell’antichità e che conserva ancora oggi nei Paesi mediterranei, battuti dal sole in maniera più intensa che da noi, “uomini del nord”. Per i cristiani di oggi è tuttavia la comunità della mensa eucaristica ciò che prevale.


Anche se l’uomo moderno non presta più attenzione alla direzione esatta verso cui prega – anche se i musulmani continuano a volgersi verso La Mecca e gli ebrei verso Gerusalemme –, tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli preghino insieme nella medesima direzione. In ogni caso, l’uso che tutti i presenti siano insieme orientati “verso il Signore” è qualcosa d’intemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato.

A fianco dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia tra il sacerdote e i fedeli nel momento della celebrazione del sacrificio eucaristico, è il caso di richiamare anche i problemi di ordine sociologico, che appartengono essi stessi alla messa in risalto della “comunità della mensa eucaristica”.

Il prof. Wigand Siebel, nel suo piccolo libro intitolato Liturgie als Angebot (“La liturgia all’asta”), pensa che il sacerdote rivolto verso il popolo può essere considerato come “il simbolo più perfetto del nuovo spirito della liturgia”. Egli aggiunge: “La posizione in uso fino a ieri faceva apparire il prete come il capo e il rappresentante della comunità, che parlava a Dio in nome di quest’ultima, come Mosè sul Sinai: la comunità indirizza a Dio un messaggio – preghiera, adorazione, sacrificio –, il prete, in quanto capo, trasmette questo messaggio, e Dio lo riceve”.

Con la nuova pratica, prosegue Siebel, il sacerdote “non sembra più nemmeno il rappresentante della comunità, piuttosto un attore che – almeno nella parte centrale della messa – svolge il ruolo di Dio, un po’ come a Oberammergau o in altre rappresentazioni della Passione”. Conclude: “Ma se, in nome di questa nuova svolta, il prete diventa un attore incaricato d’interpretare il Cristo sulla scena, ecco che allora, a causa di questa riproposizione teatrale della Cena, Cristo e il prete finiscono con l’identificarsi in una maniera talora insopportabile”.

Siebel spiega anche la buona volontà con la quale i preti hanno adottato la celebrazione versus populum: “Il considerevole disorientamento e la solitudine dei preti hanno fatto sì che essi cercassero dei nuovi punti d’appoggio per il loro comportamento. Fra questi vi è il sostegno emotivo che procura al prete la comunità riunita davanti a lui. Ma ecco che nasce immediatamente una nuova dipendenza: quella dell’attore di fronte al suo pubblico”.

Anche Karl Guido Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche (“Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica”), dichiara: “Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri pronunciava delle preghiere […] che gli erano state prescritte, oggi questo prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane, con il suo stile di vita personale, il volto rivolto a noi. Per molti preti diventa forte la tentazione di prostituire la propria persona, tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni molto astutamente, e altri con minore astuzia, volgono la situazione a proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti, tutto il loro comportamento attira gli sguardi che si fissano su di loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro direttive, le parole d’accoglienza o d’addio. […] Il successo di quanto suggeriscono costituisce perciò la misura del loro potere e, quindi, la norma della loro sicurezza” (p. 25).

Nella sua opera Liturgie als Angebot, Siebel dichiara inoltre, a proposito dell’auspicio di Klauser che abbiamo precedentemente menzionato, “di vedere più chiaramente espressa la comunità della mensa eucaristica” grazie alla celebrazione versus populum: “L’auspicata riunione dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non può certo contribuire a un rafforzamento della coscienza comunitaria. In effetti, solo il sacerdote rimane al tavolo, e per di più in piedi; gli altri partecipanti al pasto sono seduti più o meno lontani, nella sala del teatro”.

Ancora, secondo Siebel: “Come regola generale, il tavolo è posto lontano dai fedeli, su un palco, così che non è possibile fare rivivere gli intimi rapporti che esistevano nella sala in cui si svolse la Cena. Il prete che svolge il suo ruolo girato verso il popolo, difficilmente può evitare di dare l’impressione di rappresentare un personaggio che, pieno di gentilezza, viene a proporci qualcosa. Per limitare questa impressione si è provato a piazzare l’altare in mezzo all’assemblea. Non si è dunque più costretti a guardare solo il prete, l’occhio può spaziare anche sugli assistenti che gli stanno a fianco; ma così facendo si fa sparire il distacco esistente fra la spazio sacro e l’assemblea. L’emozione un tempo suscitata dalla presenza di Dio nella chiesa, si muta in un pallido sentimento che si distingue appena dalla quotidianità”.

Ponendosi dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, il sacerdote diventa, dal punto di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre.

Nel libro che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer richiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico: “Non solo il microfono rivela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma la scena che si svolge assomiglia molto più alla presentazione televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle Chiese riformate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata emarginata – ridotta al massimo di semplicità e brevità –, nella riforma liturgica [cattolica] è questa azione a rimanere preponderante: privata dei suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di tutti in una pseduo-trasparenza che confonde la percezione sensibile delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione. Si vede un uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede come egli se la mette in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di sistemi più o meno abili per asciugarlo” (p. 192).

Queste sono le conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della proclamazione della Parola di Dio. Questa azione presuppone proprio il faccia a faccia tra il prete e il popolo, com’è stato sempre scontato che il predicatore si rivolgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava il Vangelo. Ma, come abbiamo già detto, è cosa ben diversa la celebrazione del vero e proprio sacrificio eucaristico: in questo caso la liturgia non è una “offerta” ai fedeli, come lo è la liturgia della Parola, bensì un avvenimento sacro nel corso del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia s’inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e i comunicandi.

Questi cambiamenti di posizione del celebrante all’altare durante la messa hanno un preciso significato simbolico e sociologico. Quando il celebrante prega e sacrifica, egli ha – come tutti i fedeli – gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la Parola di Dio e distribuisce l’eucaristia si gira verso il popolo.

Come abbiamo visto, il rivolgersi a Est è così antico che la Chiesa ha fatto di questa attitudine un uso che non può essere modificato. “Si cerca” costantemente “con gli occhi il luogo ove è posto il Signore” (J. Kunstmann); o, come dice Origene nel suo libro sulla preghiera (cap. 32), vi è in ciò “un simbolo, quello dell’anima che guarda verso il sorgere della vera luce”, “nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 13).






[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 48-52) / 9 - continua]





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martedì 24 gennaio 2017

Furti sacrileghi e profanazioni: di chi è la responsabilità?


23‎ ‎gennaio‎ ‎2017


Ancora una volta, una mano sacrilega ha profanato il tabernacolo di una chiesa e ne ha sottratto la pisside contenente il Santissimo Sacramento. E' avvenuto nella chiesa di Santa Chiara, a Ferrara.

La cosa che mi scandalizza è che in moltissime chiese la chiave del tabernacolo si trovi spesso o attaccata alla portella, o sotto la tovaglia dell'altare, in violazione alle norme canoniche ed al più elementare buon senso.

Prima del Concilio era obbligatorio che il tabernacolo fosse inamovibile, e protetto da due portelle dotate di serratura rinforzata, in modo da scoraggiare qualsiasi tentativo di effrazione. Oggi invece il tabernacolo è spesso collocato in una posizione laterale, posto su un piedistallo, e comunque non inamovibile, ed è spesso fin troppo facile spostarlo, ribaltarlo o forzarlo. Specialmente se in chiesa non c'è nessuno.

Vi sono chiese in cui i fedeli incaricati di portare la Comunione ai malati possono accedere al tabernacolo in qualsiasi momento, senza la presenza del sacerdote, e possono farlo perché la chiave è lasciata incustodita.

Vi sono anche chiese in cui viene lasciato esposto il Santissimo senza la presenza di un sacerdote, confidando nella costanza di pochi devoti che si alternano nell'adorazione. Ma spesso vi sono momenti in cui il Santissimo Sacramento rimane incustodito, con tutti i pericoli del caso.

A poco serve installare telecamere e sistemi d'allarme, se poi i sistemi di videosorveglianza non sono funzionanti: quando un ladro ha scassinato il tabernacolo, c'è poco da scandalizzarsi, se non si è fatto nulla per impedirlo.

Da tutto questo appare chiarissima la responsabilità grave del Clero, che non pare particolarmente sensibile nell'evitare con tutti i modi il ripetersi di profanazioni. Se costoro credessero veramente che nel tabernacolo è custodito il Corpo del Signore, si guarderebbero bene dal trascurarLo. E forse passerebbero più tempo in ginocchio davanti a Dio, anziché perder tempo a far le fotocopie dell'Amoris laetitia. Eppure questi chierici non lascerebbero la porta di casa aperta, né la chiave dell'auto infilata nel cruscotto: chiediamoci allora il motivo di tanta leggerezza quando si tratta del Santissimo Corpo del Signore.

Preghiamo per riparare all'empio gesto - l'ultimo di tanti, sempre più numerosi - ma pretendiamo che gli Ordinari diano disposizioni severe ai propri sacerdoti, altrimenti ci troveremo a dover deplorare nuove profanazioni, senza che chi poteva impedirle abbia mosso un dito.












lunedì 23 gennaio 2017

Papa Francesco secondo Valli, vaticanista inquieto





da  La Croce 


Si fa presto a dire “misericordia”. Sicuramente devono dirlo tutti, almeno per ora. Ma è una parola. Appunto: che vuol dire? Sono andato a parlarne con Aldo Maria Valli, il cui ultimo libro – 266. Jorge Mario Bergoglio, Franciscus P.P. – mi ha inquietato come neanche It di Stephen King.
Cos’è dunque la misericordia? E in che rapporto sta con la giustizia? È possibile rimaneggiare oggi l’equilibrio eterno di queste due prerogative divine? Il vaticanista Rai ci fa rotolare tra le labbra, in esergo al suo 266., una massima di Sant’Alfonso (principe e patrono dei moralisti) tratta dal suo Apparecchio alla morte: «Dio usa misericordia con chi lo teme, non con chi si serve di essa per non temerlo». Ed è questa l’antifona più autorevole e suggestiva per un testo che cerca di riflettere senza giri di parole su alcune perplessità vieppiù diffuse tra i cattolici, che vogliono amare cordialmente il Santo Padre per il suo ministero e che, ultimamente, fanno sempre più fatica a riconoscere la voce del Pastore in quella del suo Vicario.

Quando mi son trovato con questo libro davanti me lo son portato anche a letto dicendomi: non può essere che questo sia Aldo Maria Valli! Quell’Aldo Maria Valli di “Rivoluzione Francesco”? Da parte mia, nel mio piccolo lavoro quotidiano, ho cercato e cerco di essere un mediatore tra Francesco e i predecessori, così come abbiamo cercato di fare in tantissimi; però non posso negare che alcune cose – prima meno, poi un po’ di più – hanno cominciato a stridermi, e siccome non sono un “normalista” né voglio passare per tale, ma mi hanno insegnato a leggere la continuità nella Tradizione in un senso e nell’altro, arrivo a un punto in cui preferisco tacere e non prendere la parola sull’argomento, visto che mi ritrovo nell’impossibilità di dare un giudizio pacificato e coerente. 

Che cosa è successo, invece, ad Aldo Maria Valli?


Vorrei saperlo anch’io. Io ho nutrito molte speranze in Francesco, perché – ce lo siamo dimenticato in fretta – provenivamo da una situazione con una Chiesa Cattolica finita in un angolo come un pugile suonato, nell’ultima parte del pontificato di Benedetto XVI (non per colpa di Benedetto ma per una serie di operazioni contro di lui e contro la Chiesa), per cui la situazione era quasi disperata. E Benedetto, con la sua decisione di rinunciare al pontificato, ha sparigliato le carte e ha trovato una via d’uscita che, impersonata da Francesco, a me era sembrata un’ottima via d’uscita: ecco – mi dissi – il Papa di cui abbiamo bisogno in questo momento. Le perplessità si sono manifestate strada facendo: all’inizio ho notato una certa superficialità, l’uso di alcune parole generiche, di espressioni ambivalenti; ma sono sfociate essenzialmente in Amoris lætitia, documento che ho letto e riletto e meditato più volte, e nei confronti del quale alla fine non ho potuto nascondere tutte le mie riserve.
 
Si tratta di un documento lungo, complesso: ci si può trovare un po’ tutto e il contrario di tutto, a seconda di dove lo si prende. Per esempio, per quanto riguarda il matrimonio cristiano c’è sicuramente l’elogio dell’indissolubilità, dell’apertura alla vita; però d’altro canto ci sono anche parole che sembrano giustificare condotte che vanno in senso contrario. Adesso, senza fare l’esegesi capitolo per capitolo e andando al fondo della questione: ho avuto proprio l’impressione che legittimi, alla fin fine, il soggettivismo più spinto, cioè quell’etica della situazione in base alla quale non esiste tanto un bene oggettivo ma meramente un bene soggettivo, e tutto dipende dall’interpretazione personale circa la qualità della situazione che si vive in un dato momento. E mi dico: se questo non è soggettivismo io non so cosa sia. 

Da quel momento in poi le perplessità si sono addensate, e mi sembra proprio che il relativismo sia entrato nel Magistero della Chiesa. Quel relativismo contro il quale ci aveva messi in guardia con tanta attenzione, con tanta passione, Ratzinger… credo che adesso sia entrato. Non so con quanta consapevolezza da parte di Francesco, perché mi rendo conto che lui non è un pensatore sistematico. Mi rendo anche conto delle sue difficoltà di esprimersi in italiano… complice anche questo suo argomentare un po’ immaginifico. Però è difficile non rendersi conto che qualcosa non quadra, rispetto alla dottrina ma anche al senso comune dei fedeli cattolici.


Lei ha detto “relativismo” e ha richiamato la lezione di Benedetto XVI che comincia dall’omelia nella Missa pro eligendo Pontifice che suonava a un tempo come la diffida ai cardinali per la propria elezione e il discorso programmatico del futuribile pontificato ratzingeriano. Eppure mi ricorda anche un altro pastore che le è tanto caro, che è Carlo Maria Martini: ricordo che in più di una circostanza – tra cui spicca l’omelia per il XXV di episcopato – il Cardinale aveva parlato di “un relativismo cristiano”, che consisterebbe in soldoni nel riportare ogni realtà come “relativa a Gesù”. Era una citazione che stavo aspettando, nelle ultime pagine del suo libro, dove lei parla di “due relativismi”, di cui “uno buono” e “un altro cattivo”: invece la citazione non è arrivata. Tuttavia vorrei chiederle: il Cardinale cosa avrebbe detto di 266.?


Sinceramente non lo so. So solo che lui amava distinguere le persone tra pensanti e non pensanti, quindi credo che lo apprezzerebbe come apprezzava tutto ciò che può costituire un contributo al dibattito e all’inquietarsi a vicenda – “inquietare” era un verbo che gli stava molto a cuore. D’altra parte credo che quanti fanno un parallelo tra Francesco e Martini siano fuori strada. Incontro spesso persone che mi dicono: «Francesco sta forse portando a concretezza ciò che Martini aveva chiesto per la Chiesa». Io non penso che le cose stiano così. Intanto in Martini c’era un aggancio alla Scrittura, molto rigoroso, che non ritrovo in Francesco. E poi ci sono in Francesco accenti di “populismo” religioso – quando non in senso politico e sociale – che non ritrovo per nulla in Martini, il quale invece era sempre molto attento alle distinzioni e all’uso accorto delle parole. La nostra generazione, soprattutto di noi ambrosiani, è cresciuta con Martini nella dedizione a ogni parola nel suo significato preciso. Niente a che fare con certe superficialità che riscontro oggi con Papa Bergoglio.

Beh, c’è anche un differente pedigree accademico: entrambi sono stati docenti universitari, ma Martini – che viene spesso riduttivamente passato per “biblista” – era più precisamente un editore, uno che conosceva a menadito non solo le Scritture, ma tutti i loro singoli testi in papiri e codici antichi, con le relative differenze. Quest’acribia era chiaramente diventata per lui metodo di vita.
E di analisi della realtà, con una precisione e un’accuratezza difficilmente riscontrabili in generale, ma soprattutto, direi, relativamente all’attuale pontefice.


Ma perché l’uno e l’altro, secondo lei, sono passati per “quelli delle aperture”?


Credo, per quanto riguarda Martini, perché c’era da parte sua lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Da buon gesuita, ci diceva: «A me piace la montagna perché, quando vado in cima, ho la possibilità di vedere i due versanti, e a noi gesuiti piace fare questo, osservare la realtà nella sua complessità». E anzi, cercava questo confronto: ricordiamo la Cattedra dei non credenti. Questo però non l’ha mai portato ad aperture incondizionate o ad annacquare il messaggio evangelico. È stato accusato anche di questo, ma secondo me ingiustamente: era invece una sua ricerca intellettuale e umana che lo conduceva a porre molte domande, consapevole della complessità dell’esistenza e della varietà delle situazioni. 

E per quanto riguarda Francesco, alcuni amici mi dicono: «Ma tu non lo capisci, quando chiede il discernimento, in Amoris lætitia, va incontro alle persone». Ecco, io trovo che ci sia una genericità, in questi messaggi, che non fa bene a noi, uomini e donne del nostro tempo. Non credo che oggi abbiamo bisogno di messaggi imprecisi, superficiali, ambivalenti… “Discernimento” per cosa, per chi, per arrivare dove? Nel libro mi spingo a dire: «È per la salvezza dell’anima o per un generico benessere psico-fisico?». Ecco, tutto questo non viene mai precisato. 

La stessa espressione “periferie esistenziali” è molto bella, come è bella “ospedale da campo”, ma chi dobbiamo guarire? Chi vuole lasciarsi guarire nell’ospedale da campo? Quale medicina diamo? Ecco, questa indeterminatezza la trovo perniciosa: noi viviamo già in questa postmodernità in cui non sappiamo più a che cosa agganciarci, soprattutto sotto il profilo morale. Io faccio il giornalista e quindi non vorrei sconfinare in campi squisitamente filosofici o teologici, che non sono i miei, però da uomo, da fedele, da persona che si guarda attorno, da marito, da padre, da nonno, mi accorgo che non ho bisogno di questa impalpabile consolazione generica, ho bisogno di verità a cui agganciarmi, e vorrei che qualcuno me le mostrasse, me le comunicasse.
Infatti nel libro c’è un passaggio in cui si legge: «Il ministero petrino è quello di confermare i fratelli nella fede, non quello di confonderli».

In un articolo, nel mio blog, ho scritto tempo fa che «il papa è forse fuori sincrono», un altro articolo che ha fatto scalpore e suscitato sconcerto in tanti miei amici. Forse sta applicando una ricetta, quella conciliare, che poteva andar bene cinquanta o sessant’anni fa, quando venivamo da una Chiesa magari troppo sganciata dalla realtà e troppo isolata, che rifiutava di fare i conti con ciò che le stava accanto; oggi il problema è probabilmente l’opposto – una Chiesa fin troppo immersa nel secolo, orizzontale, che non è più in grado di alzare lo sguardo a ciò che conta davvero e incapace di mostrarci una trascendenza. Quello che Benedetto ha cercato di fare, con grande fatica ed essendo sempre largamente incompreso. Pregiudizialmente, fra l’altro.


Verso la fine del libro lei dice: «Non rimpiango i papi che usavano il “noi”». Io invece, benché non rimpianga affatto il plurale majestatis, ho nostalgia di quella chirurgica precisione con cui Benedetto XVI alternava la prima persona singolare, che usava esclusivamente quando raccontava cose personali in senso stretto, la prima plurale, che suonava sempre come un plurale modestiæ in cui si ritrovava tutta la Chiesa, la terza singolare, con la quale esprimeva l’oggettività dell’ufficio petrino. Ci troviamo oggi al paradosso di diversi critici che accusano Francesco – il Papa umile, che non mette le scarpe rosse, compra gli occhiali da solo e telefona alla gente – di essere un autoritario e di “metterci troppo ego”, sia nella comunicazione sia nel governo in senso stretto.


Sì, questo mettersi molto in primo piano lo avverto anche io con una certa inquietudine: non riesco a capire fino a che punto sia una falsa modestia, da parte di Francesco. Per questo il famoso “chi sono io per giudicare?” – frase che intanto andrebbe sempre citata per intero – mi ha interrogato così tanto che alla fine mi sono deciso a scrivere questo libro: se pure il Papa, se perfino il capo della Chiesa cattolica, arriva a dire “chi sono io per giudicare?”, vuol dire che l’ultimo baluardo di chi aveva le carte in regola per proporci un bene oggettivo, una Verità con la v maiuscola, viene a cadere, e – lo ripeto, lo dico nuovamente da umile credente, uomo di questo mondo e di questa fase storica – che cosa ci resta, se anche il Papa dice “chi sono io per giudicare?”. 

Qualcuno dice: «Ma lui così si mette alla sequela di Gesù, che non ha giudicato». Però è anche vero che Gesù ha detto: «Va’ e non peccare più», non si limitava solo all’accoglienza. E poi è vero che il pastore dovrebbe avere questo fiuto – lui parla tanto di portare addosso l’odore delle pecore – e l’odore delle nostre pecore oggi qual è? È quello di un gregge sperduto in balia del soggettivismo e del relativismo più sfrenato, di mancanza totale di certezze a cui agganciarsi, di diseducazione morale: noi ci preoccupiamo tanto di accumulare esperienze, pare che tutto ciò che possiamo dare ai nostri figli –parlo adesso come padre – sia una serie di occasioni, di esperienze, e diciamo sempre “poi faranno le loro scelte”. Senza renderci conto che “poi” sarà troppo tardi, se non diamo loro oggettive ragioni per giudicare in base a criteri validi. 

Allora in questa situazione di liquidità – per usare un’espressione ormai famosa – abbiamo proprio bisogno di questo tipo di insegnamento, di Magistero, che introduce altre massicce dosi di liquidità? Non credo, ecco perché ho scritto “fuori sincrono”. Senza contare anche le modalità di espressione: siamo sicuri che l’intervista – e l’intervista a personaggi come Scalfari – sia la modalità comunicativa più appropriata, per il Papa? Io non lo credo. Ci sarà stato un motivo per cui un tempo i Papi si guardavano bene dallo scendere su questo livello, perché è un livello sdrucciolevole, soprattutto poi se non ti esprimi nella tua lingua madre. Occorrono attenzione e prudenza, se sei il Papa, e non puoi svendere questa autorità – che ti è stata data – e scioglierla a tua volta in un panorama già ampiamente imbevuto di superficialità.


Devo confessare che, nel corso della lettura del libro, mi è venuto un dubbio: non è che Valli sta diventando nostalgico? Perché vedo che si citano Burke e Sarah con una certa enfasi – soprattutto Sarah –: due “fondamentalisti”, lei scrive, riportando l’aneddoto con cui il primo si mise al petto il distintivo di “fondamentalista” e quello con cui il secondo, interrogato in merito, accettò con un sorriso di portarlo. Quindi abbiamo bisogno di fondamentalisti?


Ehm… sì. Ecco. Dobbiamo intenderci sulla parola “fondamentalista”: se fondamentalista è chi mi propone una dottrina chiara, certa, senza ambiguità, io penso di sì.


Come ha giudicato la vicenda dei Dubia?


Io trovo che sia legittimo, da parte di questi cardinali – che poi non sono quattro ma sei, due non hanno voluto apparire con il loro nome – anzi mi è parso l’esercizio del loro compito peculiare di aiuto al Papa, quindi hanno esercitato non solo un loro diritto ma un loro dovere. E credo che abbiano esercitato anche quella libertà cristiana che è fondamentale per tutti noi credenti.


Non dovevano limitarsi a spedire privatamente la lettera e rassegnarsi a non ricevere risposta, senza montare poi il caso nell’agorà mediatica?


No, io non sono di questo avviso, perché ciò significherebbe aver paura del confronto tra di noi, e anche questo non rientra nella libertà del cristiano. Io cerco sempre di esercitare il massimo di ossequio per la figura papale, ma questo non mi impedisce di interrogarmi come uomo, come credente, su ciò che lui propone, e credo che il confronto debba essere aperto. Nostro Signore ci ha regalato e comandato la parrhesía.

È accaduta un’altra cosa, in questo dicembre: oltre al suo libro è uscito – si parva licet… – anche un film con Claudio Bisio e Angela Finocchiaro. Si chiama “Non c’è più religione” e il dato più interessante, in un film non imperdibile, è lo sfottò continuato al “nuovo corso ecclesiale”: ecclesiastici di varie risme che alludono, senza fare mai il nome dell’attuale pontefice, a regole che non valgono più o che presto non varranno. E il tono è quello di una rassegnata stanchezza, come si farebbe coi capricci di un sovrano dalle volontà insondabili.


Ho visto il trailer ma non vado mai al cinema perché purtroppo non ho tempo. Certo che se i comici dell’establishment deridono la “Chiesa progressista”… [ride, N.d.R.] siamo già all’interpretazione ridicola? Il tempo passa in fretta, effettivamente. Non so che dire. 

Quello che posso vedere è che c’è grande confusione, nella Chiesa attuale. Io per forza di cose conosco tanti preti, tanti religiosi, e constato che sono in stato di confusione: non sanno, a loro volta, a che cosa agganciarsi. Ecco un altro sintomo preoccupante della liquidità di cui parlavamo prima: Amoris lætitia la si può interpretare in un modo o nell’altro, da destra o da sinistra, da sopra o da sotto, è difficile trovare una via univoca. Il concetto stesso di discernimento non si capisce dove debba portare e a che cosa.


In effetti lo stesso Ignazio, principe del discernimento, specifica con esattezza che il discernimento serve «per vincere sé stessi e per mettere ordine nella propria vita».


C’è grande sconcerto. Un parroco incontrato pochi giorni fa, ma anche un altro che mi ha scritto proprio ieri, mi chiede: «Che cosa devo fare? Il vescovo mi dice “Io me ne vado in pensione, saranno fatti vostri”». È una situazione abbastanza tragica, se mi si passa la parola. Se i pastori, quelli che sono col gregge tutti i giorni, non sanno dove condurlo, a che cosa agganciarsi?


Da una parte abbiamo i Dubia, dall’altra però abbiamo – più diffuso e costituzionalmente meno rumoroso – un atteggiamento curiale e di corte, per cui vuoi compiacere quelli sopra di te, e non sapendo esattamente come fare cerchi di non dare nell’occhio.


…Oppure ripeti alcune parole d’ordine che suonano bene, anche se non si capisce bene che cosa significhino. Io noto questo grande disagio. Sull’altro piatto della bilancia, poi, c’è la parola di Francesco che arriva alla gente – fra l’altro tagliuzzata e manipolata da noi dei massmedia –, la quale gente se ne impossessa e la utilizza pro domo sua in modi inconcepibili. Ho assistito a scene in parrocchia laddove arrivano persone dicendo: «Ormai tutto libero, divorziati risposati alla comunione, non ci sono più problemi, l’ha detto Francesco». Oppure persone che vogliono fare i testimoni a battesimi e cresime, pur non avendo le carte in regola, e dicono: «Signor parroco, lei non è aggiornato: se ci fosse Francesco, qui, lo farebbe subito». Perché poi bisogna fare i conti con la realtà che è questa: non tutti sono filosofi o teologi, sì da potersi porre grandi problemi. Alla fine, in spiccioli, quello che arriva è questo.


Ecco una cosa che io ho forse sottovalutato, almeno fino a questo punto: il mio tentativo di mediazione è stato sempre soprattutto sul piano dei documenti. Mi è suonato un campanello d’allarme durante il veglione di Capodanno, a casa di un amico, quando quest’ultimo – un uomo con anni di CLU [la sezione universitaria di Comunione e Liberazione, N.d.R.] alle spalle – mi diceva: «Ma sai, questa cosa del valutare caso per caso è proprio buona, alla fine viene incontro agli uomini del nostro tempo, e che vuoi fare?». E io pensavo: «Tu quoque!». Mi illudevo che quelle cose le avrei sentite solo al bar o chissà dove. Invece vuol dire che il problema della ricezione è più complesso e meno scontato di quanto si possa ritenere. Personalmente, davanti ad Amoris lætitia, ero arrivato a pensare che il Papa intendesse lasciare un vasto spettro di possibilità, tra cui anche qualcuna illecita, per vedere dove si sarebbe diretto il sensus fidei ecclesiæ, riservandosi al limite un ruolo arbitrale. Se però arrivano le richieste di chiarificazione dalla base, e dall’alto non corrispondono delle direttive ermeneutiche che accompagnino questa ricezione… che “sinodalità” ne può venir fuori? Quella, radicale, di “Noi siamo chiesa”? In realtà questo atteggiamento sta snervando anche loro, come lei riporta nel libro. Invece che mi dice della flessione degli ascolti durante la Messa di Natale? Quest’anno ci siamo attestati sui 2.900.000 telespettatori circa; solo l’anno scorso eravamo a 3.500.000.


Sì, è vero, è costantemente in flessione: cala continuamente tutti gli anni, ed è un trend specifico del pontificato di Francesco. Non saprei neanche dire se e come questo dato venga analizzato in Vaticano, ma avevo notato anch’io la flessione: lascio che la interpreti chi di dovere. Io, da parte mia, posso dire solo una cosa: quando il Papa attacca i preti, i vescovi, i curiali, e li accusa di tutte le nefandezze, le malattie e i peccati di questo mondo, non ci si deve poi stupire troppo se c’è un certo distacco da parte delle persone. Alla fin fine, a proposito di messaggi che arrivano, questi sono quelli che colpiscono di più: tu sei il Papa bravo, povero, simpatico, che esce da solo per comprarsi gli occhiali… due persone son venute qui ieri, a fare dei lavori nella stanza – due persone che potremmo prendere per campioni dell’uomo comune – e mi dicevano: «Oh, lei fa il vaticanista: com’è fortunato a stare in contatto con questo Papa tanto bravo perché esce e va al negozio da solo. Lui… ti telefona… è vero che le ha telefonato?». E no, non mi ha telefonato [ride, N.d.R.]. Capisce che, se sono queste le categorie di valutazione… non ci siamo. E alla fin fine che cosa resta? A che cosa ci agganciamo? Non si va oltre lo slogan.


A proposito di messaggi contraddittori tra l’azione e la parola del Papa, c’è un argomento su cui il Pontefice regnante è stato duro come nessuno dei suoi predecessori, e penso al gender. Mai Benedetto XVI avrebbe osato paragonare quell’ideologia nefasta alla Hitlerische Jugend: Francesco lo ha fatto, e in più di un’occasione. Viceversa, in occasione dei Family Day del 2015 e del 2016… silenzio. E un silenzio non compiaciuto. Tra gli organizzatori era corsa voce che il Papa temesse un flop, ma perché allora non ha parlato neanche dopo? Neanche una parola… alla Marcia per la Vita, che era un’altra cosa e a cui partecipavano tra gli altri un cardinale e un paio di vescovi, appena un fugace cenno dal Palazzo Apostolico. C’era veramente un accordo col governo italiano per le unioni civili? Che partita s’è giocata?


Non lo so, purtroppo non ho elementi e riscontri per poter dare una risposta. L’unica cosa che mi viene in mente è quella frase che Francesco ha usato spesso parlando di sé stesso: «Sono un po’ ingenuo e un po’ furbo». Io credo che giochi anche con la politica, non volendo seguire strade che lo possano legare dal punto di vista politico, esporlo, costringerlo a percorsi… Bergoglio è molto furbo, da questo punto di vista. E lo è anche a prezzo di non appoggiare il popolo. Vedo una forte contraddizione, in lui che parla tanto di popolo, quasi fosse santo e infallibile in sé – quante volte ne ha parlato in questi termini, anche a partire dal proprio retaggio sudamericano e peronista – e poi quando ha avuto una così forte manifestazione di popolo non l’ha presa in considerazione? Allora c’è dell’opportunismo politico. Chiaramente. Adesso io non so analizzare in quale direzione vada questo interesse, non ho elementi, però in questo fatto c’è una contraddizione evidente rispetto a ciò che il Papa dice abitualmente.


Veniamo alla conclusione: dopo Francesco. Anzitutto: quando?


Come diceva Martini, nessuno è profeta. Io non lo so. Qualcuno dice che si dimetterà anche lui. Io non credo, vedo che gli piace molto fare il Papa. Sembra un’altra persona, rispetto al cardinale Bergoglio che abbiamo conosciuto in Argentina, che era un tipo abbastanza cupo, che rideva raramente; una persona quasi macerata nel proprio ruolo di comando. Qui invece vediamo un Papa felice, popolare, sorridente: il ruolo lo ha cambiato, ama molto quello che sta facendo. Credo che le difficoltà per chi verrà dopo di lui – non so quando – saranno enormi. Terribili. Perché questo Papa sta lasciando margini di incertezza talmente grandi per cui ricostruire sarà molto difficile.


Ne parlavo con una collega, l’altra sera, che mi diceva: «Col conclave che si annuncia, tutto “bergoglizzato” com’è, ci si deve aspettare un pontificato conforme». A me sembra che questo non si possa dire, e che l’unico modo che un Papa ha per essere sicuro del proprio successore sia il nominarlo direttamente (cosa già accaduta e sempre in potere del Santo Padre), ma è cosa che non credo che Francesco vorrà fare. Temo invece che ci sarà una reazione, verosimilmente anche molto dura.


Questo è storicamente dimostrato: i conclavi sono imprevedibili. Quanto alla restaurazione, è una possibilità concreta, un rischio attuale: a giudicare dallo sconcerto diffuso – anche fra gli stessi che hanno appoggiato Bergoglio e che si sono resi conto della situazione cui si è arrivati – credo sia una possibilità sulla quale occorra riflettere. Sembra che ora come ora non si sappia più bene che cosa sia il deposito della fede. Quando il 15 dicembre il Papa ha ricevuto in udienza la comunità del Bambin Gesù, e poi l’ha ripetuto nell’udienza generale del 4 gennaio, ha detto: «Di fronte al problema del dolore innocente io non ho risposte»… ha detto proprio così! E poi ha soggiunto: «Nel crocifisso c’è forse qualche strada di consolazione». Questi sono elementi sconcertanti, di fronte ai quali si resta basiti. Certe contorsioni sono sconcertanti, da parte di Pietro: «Tu sei Pietro», non puoi buttar via così la tua funzione.











tramite MiL