lunedì 30 luglio 2018

I “furbetti” del caso per caso c’erano già 50 anni fa





L’esame dei documenti che hanno preceduto la pubblicazione dell’enciclica Humaane Vitae, mostra come già nel 1968 c’era chi sosteneva fosse possibile ammettere la contraccezione in alcuni casi senza mettere in discussione la dottrina. Approccio condannato da Paolo VI, che ora torna d’attualità. E anche allora la Chiesa tedesca andava per la sua strada.



di Luisella Scrosati (29-07-2018)

Corsi e ricorsi storici. Lo studio della travagliata storia che ha preceduto la promulgazione dell’enciclica Humane Vitae non cessa di insegnare e di illuminare. Molto è stato scritto e molto resterà da scrivere, ma non si può non restare colpiti nel notare come certi sofismi respinti da Paolo VI in quell’occasione, siano tornati, vivi e vegeti. E vittoriosi (almeno per ora).

Già l’ottimo studio di Puccetti (I veleni della contraccezione) aveva messo in evidenza gli assalti persuasivi di molti teologi e vescovi nei confronti di Paolo VI, affinché aprisse alla contraccezione. La nuova pubblicazione di Marengo, La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli Archivi vaticani, da cui “esce” un Paolo VI tutt’altro che titubante sulla questione, aggiunge qualche elemento in più. Essendo stato il suo “grande elettore” al conclave del 1963, Paolo VI concesse a Suenens un onore senza precedenti: lo face affacciare con sé al suo primo Angelus da papa.

Anzitutto, la logica di “in certi casi”. Il cardinal Léon-Joseph Suenens, primate belga, l’aveva messa sul tavolo, per rassicurare Paolo VI che non si trattava di rompere con l’insegnamento dei suoi predecessori: il principio morale sarebbe stato salvaguardato, ma si sarebbe guadagnata un’apertura nei confronti della ricchezza della realtà fattuale. Così scriveva il porporato belga: «Non si tratta dunque di modificare i principi morali ma di vedere come essi si applichino a dei fatti nuovi; ad una natura umana della quale abbiamo una conoscenza più approfondita… Rimarrebbe una continuità fondamentale riguardo al rifiuto di ogni contraccezione arbitraria, egoista, edonista, non motivata da ragioni gravi e proporzionate» (Suenens a Paolo VI, 9 ottobre 1967).

Suenens voleva chiaramente inserire un grimaldello, che poi col tempo – che, nel frattempo, abbiamo imparato essere superiore allo spazio – avrebbe aperto una breccia fatale; egli mirava a mettere in discussione un punto cardine dell’insegnamento magisteriale, e cioè il fatto che questa «dottrina, più volte esposta dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (HV 12). Non è l’intenzione soggettiva – arbitrarietà, edonismo, egoismo e quant’altro – a rendere inaccettabile la contraccezione, ma il fatto che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito, e se lo fa, oltre ad offendere Dio, falsifica con i suoi atti, la verità che quegli stessi atti personali portano in sé.

Questa logica della presunta pacifica coesistenza tra l’affermazione dell’intangibilità dei principi morali da un lato, e la possibilità di eccezioni dall’altro, evidentemente non trovava spazio nella mente di Paolo VI
, il quale probabilmente ricordava molto bene il quadrato logico di Aristotele e sapeva che un’affermazione universale negativa (tutte le oche non sono nere), per essere contraddetta, non ha bisogno di una universale positiva (tutte le oche sono nere); è sufficiente una particolare positiva (un’oca è nera), il caso particolare, appunto. Se la contraccezione non è mai lecita, affermare che in alcuni casi lo sia è contraddizione diretta del principio, e non suo sviluppo.

Suenens, scrive Marengo, «cercava di mostrare come la decisione di Pio XII di giudicare lecito l’uso del metodo Ogino-Knaus, pur introducendo un elemento di novità rispetto alla Casti connubii, non poteva essere inteso come discordante dal magistero di Pio XI. Analogamente così sarebbe stato se si fosse accolta la tesi di quanti sostenevano che, a determinate condizioni, i coniugi potevano usare la pillola contraccettiva». Per far digerire a Paolo VI la morale dei casi speciali, Suenens aveva dunque preparato un buon amaro, che sperava avrebbe fatto gola al Papa: Pio XII aveva affermato una novità, facendo progredire il Magistero rispetto all’insegnamento del suo predecessore, aprendo ai metodi naturali; analogamente, l’apertura alla contraccezione in certi casi, avrebbe mantenuto fermo il principio e, nel contempo, lo avrebbe illuminato e arricchito della singolarità delle situazioni, che invece non erano presenti nell’insegnamento precedente.

Sembra di sentire pari pari il ragionamento che fece il cardinal Schönborn nella sua intervista con Spadaro per Civiltà Cattolica, nel 2016 (qui). Il presule austriaco richiamava il progresso operato da Familiaris Consortio, quando affermava la possibilità di accedere all’Eucaristia, per i divorziati-risposati, che, non potendo per gravi ragioni separarsi, avrebbero vissuto come fratello e sorella. La logica dei casi particolari, inaugurata con AL, si poneva, secondo Schönborn, sulla stessa linea di sviluppo e progresso.

In quell’intervista si può leggere anche un’affermazione che richiama da vicino la posizione di Suenens: «L’evoluzione presente nell’Esortazione è principalmente la presa di coscienza di un’evoluzione oggettiva, quella dei condizionamenti propri delle nostre società». Suenens rassicurava Paolo VI che la continuità dottrinale dell’apertura alla contraccezione “in certi casi”, sarebbe stata sufficientemente messa al sicuro dal fatto che allora si era raggiunta «una conoscenza più approfondita» dell’uomo; per Schönborn invece, la continuità di AL con Familiaris Consortio sarebbe assicurata dalla maggiore conoscenza odierna dei condizionamenti sociali sull’uomo.

Negli anni prossimi alla promulgazione di HV, c’è un altro aspetto che richiama alla situazione odierna: la pressione dei vescovi tedeschi e la loro rivendicazione di autonomia. Se Schönborn può essere considerato il Suenens redivivo, il cardinal Marx è l’avatar del cardinal Döpfner. Döpfner, anch’egli all’epoca arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, cercava di intimorire il Papa, sventolandogli davanti agli occhi l’autodeterminazione dei vescovi teutonici. Anzitutto Döpfner fece presente al Papa che la maggioranza dell’episcopato tedesco aveva chiesto che venisse accolto il parere della maggioranza della Commissione del 1966, che sappiamo essere stato favorevole alla contraccezione. Poi, prospettava la catastrofe: se il Papa non avesse avallato la posizione che egli riteneva essere della maggioranza dei fedeli, ne sarebbe derivato «un danno smisurato dell’autorità ecclesiastica, in primis del Sommo Pontefice»; si sarebbe verificato «un evento terrificante e funestissimo della storia della Chiesa contemporanea»(Döpfner a Paolo VI, In Audientia, 31 maggio 1968).

Anzi, Döpfner era già passato dalle parole ai fatti; aveva infatti provveduto a distribuire ai sacerdoti della propria diocesi una guida pastorale, nella quale si affermava che i fedeli che non potevano non ricorrere alla contraccezione (introducendo così l’idea che la grazia non sia sufficiente ad evitare il peccato), non essendo soggettivamente in stato di peccato grave, potevano ricevere la Santa Comunione. Anche il vescovo ausiliare di Magonza, Mons. Reuss, suggeriva al Papa un nuovo approccio pastorale della stessa tonalità di quello già reso operativo da Döpfner. Così Marengo riassume la sua posizione: «I possibili – e prevedibili – episodi di caduta rispetto alle norme morali della continenza e castità coniugali dovevano essere collocati nel più ampio cammino di crescita e maturazione della coppia. Questo voleva dire rimodulare in maniera meno rigida le indicazioni fissate da Casti connubii, evitando così di considerare sempre quelle cadute come peccati mortali».

Si può notare che Reuss già cercava di intorbidire le acque. L’insegnamento di Pio XI chiamava peccato grave ogni atto volto a rendere infecondo il rapporto coniugale, perché così è oggettivamente; allora come oggi, si era ben consapevoli dei condizionamenti soggettivi, più o meno forti, ma si era anche coscienti del fatto che non è possibile a nessuno, se non a Dio, misurare il grado di imputabilità di un’azione. Ergo, quando si commette un peccato grave, non resta che una cosa sola da fare: prostrarsi davanti a Dio e domandare perdono, proponendo con tutte le proprie deboli forze e soprattutto confidando nella grazia di Dio, di non commetterlo più.

È stata questa infatti la linea scelta da Paolo VI, il quale declinò la pericolosa impostazione di Reuss: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza […]; implorino con perseverante preghiera l’aiuto divino; attingano soprattutto nell’eucaristia alla sorgente della grazia e della carità. E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita con abbondanza nel sacramento della penitenza” (HV 25).

(fonte: lanuovabq.it)

domenica 29 luglio 2018

GENDER. Se una sentenza trasforma il padre in madre




Un uomo diventato donna ottiene dal tribunale di Trento che venga riconosciuto/a come madre dei suoi figli. Una situazione tragicomica che è la conseguenza della legge (moralmente censurabile) del 1982 sul cambiamento di sesso.


di Tommaso Scandroglio, 28-07-2018

Siamo ben oltre alla cosiddetta situazione kafkiana. La vicenda in sé è semplice. Antonio P., sposato e poi separato, ha deciso di cambiare sesso e diventare all’anagrafe Antonia. Però “Antonia” ha chiesto al Tribunale di Trento che su tutti i documenti ufficiali comparisse la nuova identità, compresi i certificati di nascita dei figli. I giudici gli/le hanno dato ragione. In tal modo su tali certificati risulterà che questi ragazzi, ormai maggiorenni, sono figli di Maria e Antonia. Figli di due madri come se anche Antonia li avesse partoriti.


Dal punto di vista giuridico una donna può diventare madre di qualcuno o se lo partorisce e lo riconosce oppure se lo adotta. Ora abbiamo una terza modalità per diventare madre: se la “donna” era un uomo e in quanto uomo era sposato con una donna che ha partorito dei bambini e li ha riconosciuti.


L’ex Antonio P. ha così commentato l’esito della vicenda: «Per me era fondamentale. Con la rettificazione si è concluso un percorso lungo e importante che anche i miei figli hanno vissuto con me: se il mio vecchio nome fosse rimasto da qualche parte sarebbe stato incompleto. I mie figli ci sono sempre stati, non ho mai interrotto i rapporti con loro neppure dopo la separazione da mia moglie. Anche i loro amici erano al corrente e mi hanno frequentata in questi anni. C’è stato soltanto qualche problema con alcuni compagni di scuola, ma i ragazzi l’hanno gestita in un modo che c’è solo da essere orgogliosi di loro».


“Antonia” ha atteso che i figli diventassero maggiorenni per perfezionare l’iter di cambiamento di sesso: «Volevo che potessero dire la loro in modo formale nel procedimento senza che dovessero essere rappresentati dall’altro genitore. Non è stato facile per loro ma hanno capito l’importanza che aveva per me comparire con la nuova identità e lo hanno accettato».


E dunque si è verificato in campo giurisprudenziale ciò che da qualche tempo sta accadendo in campo amministrativo locale dove alcuni sindaci hanno riconosciuto la doppia genitorialità in capo a coppie omosessuali. Anche in quei casi il genitore non biologico è considerato madre/padre biologico a tutti gli effetti grazie alla bacchetta magica impugnata dai primi cittadini.


C’è però da ammettere che le conclusioni a cui è giunto il giudice di Trento, Roberto Beghini, sono l’esito inevitabile di alcune premesse contenute nella legge sulla rettificazione sessuale del 1982. Lo spiega bene l’avvocato Alexander Schuster, un nome ormai noto nel patrocinio di cause a tematiche gender, avvocato che ha difeso Antonio P.: «questa volta abbiamo chiesto al giudice di esplicitare nella sentenza che il Comune dovesse modificare sesso e nome sugli atti di tutta la famiglia. È naturale, perché non possono esserci due identità diverse relative alla stessa persona». Tale procedura fino ad oggi «non si faceva per i cambiamenti di sesso sugli atti di nascita dei figli. Nella legge del 1982 questo aspetto non era menzionato perché evidentemente allora non era concepibile: si preferiva tollerare che la persona avesse contemporaneamente due identità nel registro di stato civile piuttosto che i bambini avessero due papà o due mamme. Alla fine è potuto cadere anche questo tabù».


Se la legge permette che Antonio diventi Antonia, ne consegue necessariamente che la persona debba essere indicata con la nuova identità su tutti i documenti con valore giuridico che riportano il suo nome. Perché l’ex Antonio deve comparire come donna nella carta di identità e non sul certificato di nascita dei figli? Sarebbe irrazionale. Quindi il peccato originale che ha prodotto questa sentenza deve essere rinvenuto nella legge dell’82. Tale sentenza però ha il merito di mettere in evidenza a quali paradossi si giunge credendo, anche per legge, che Antonio realmente possa diventare Antonia. Se infatti, leggendo la vicenda con gli occhiali appannati del diritto, la nuova Antonia è davvero una donna, come donna è benissimo in grado di mettere al mondo un figlio. Se ti inventi una realtà inesistente poi devi essere coerente fino in fondo in quest’opera di finzione.


Il paradosso si supera ricordando che l’attuale Antonia non è sempre stata una donna e quindi gli atti che lo hanno visto coinvolto come uomo non dovrebbero essere modificati. Oppure un’altra soluzione potrebbe essere la seguente: scrivere sul certificato di nascita dei figli: “nato da Maria e dal fu Antonio” o “dal già Antonio”. Sperando che chi legga non intenda tali specificazioni come indicazioni relative alla dipartita di Antonio.


La vicenda diventa una tragicomica commedia degli errori e degli orrori proprio perché a monte la legge sul cambiamento di sesso è moralmente censurabile, eccezion fatta per gli errori di riconoscimento del sesso al momento della nascita. Tutto il resto è fantadiritto.













sabato 28 luglio 2018

La grazia silenziosa - Michael Wright






Traduzione di Chiesa e postconcilio da Commonweal.

Trovare la pace nella Messa in latino

Qualche mese fa, leggendo Silence, di Shūsaku Endō, alla fine del quarto capitolo ho scritto una lunga nota che esordiva così: “In questa parte, cominciamo a notare che la grazia si trova nel silenzio”.

Michael Wright, 27 luglio 2018

Quando ero piccolo non ho mai sperimentato silenzio o compostezza nella Messa. Ero – e sono tuttora – affetto dal disturbo da deficit di attenzione. La mia famiglia ha praticato il culto per molto tempo nella palestra della scuola cattolica locale, tra gente accalcata su sedie pieghevoli, inginocchiandosi, alzandosi in piedi e osservando come la faccia di Padre Joe diventava viola durante l'omelia sulla compassione. Per me, la Messa era una prova di pazienza. Non vi potevo trovare mai quella pace di cui le suore ci parlavano nel CCD. [1] Anche se avevo appreso il significato di ogni parte della Messa, non riuscivo a concentrarmi su quanto stava accadendo di fronte a me. Leggevo in fretta il foglietto della Messa, sperando che il sacerdote parlasse con la stessa rapidità. La mia inquietudine non ha mai lasciato spazio sufficiente alla grazia per permetterle di entrare in me.

Quando avevo undici anni, venne aperta una nuova chiesa e lasciammo la palestra. Mi sono rimaste impresse due cose: la prima è che Gesù fu inchiodato alla croce dai polsi, cosa che uno dei sacerdoti spiegò essere storicamente attendibile perché le mani non avrebbero potuto sopportare il Suo peso e i chiodi le avrebbero lacerate; la seconda è un'anziana signora, fragile come il suo velo nero di pizzo, a fianco della quale sedevo un giorno. Lo giuro su Dio, aveva un messale, di cui io avevo sentito parlare ma che non avevo mai visto. Era in latino. Pensai immediatamente che si trattasse della donna più cattolica esistente al mondo.


Più tardi, da adulto, ho partecipato alla Messa a sprizzi e sprazzi, cercando sempre il servizio più breve. Io e mia moglie rimanemmo legati alla chiesa quel tanto che bastava affinché i nostri figli fossero battezzati e ricevessero la comunione, ma io stavo solo timbrando il cartelino. Così, cominciai a cercare di vivere e sperimentare la mia fede in altri modi, scimmiottando gli sforzi sociali della Chiesa. Divenni giornalista perché pensavo di poter aiutare il prossimo. Lessi Flannery O'Connor. E mi ricordai di quanto mi piacevano le lezioni di religione al liceo, soprattutto perché gli insegnanti ponevano l'accento più sulla morale che sulla teologia e mettevano in discussione il conformismo.
Successivamente, tre o quattro anni fa, per capriccio, partecipai alla messa in latino nella Cattedrale di St. Mary ad Austin, in Texas. Appena a un isolato di distanza dal Capitolio dello Stato del Texas, St. Mary è una chiesa modesta, con banchi di legno e un santuario appartato dalla congregazione. Sfogliai un libro azzurro col testo latino in una pagina e quello inglese nella pagina a fronte, con istruzioni sulla postura e illustrazioni ai margini.


Nonostante avessi frequentato la scuola cattolica e il CCD, fino ad allora non mi ero potuto rendere conto del fatto che la Novus Ordo non era semplicemente una traduzione fedele. Le letture in latino mi confondevano: per esempio, non riuscivo a capire esattamente quando avveniva la transustanziazione. Ma potevo accorgermi senza guardare la traduzione quando stavamo dicendo “Agnello di Dio” e le preghiere del Signore. Osservai quel modo così strano di compiere atti a me familiari. Il sacerdote ci dava le spalle. Ci inginocchiavamo per ricevere la comunione sulla lingua. Tutti quelli che facevano il servizio all'altare erano maschi. Mi inchinai di fronte al sacerdote durante l'inno di chiusura, con l'incenso ancora nelle narici. E poi feci una cosa che non avevo mai fatto dopo la Messa: mi sedetti sul banco e la sentii: la pace.


A partire da allora, molti eventi nella mia vita hanno cercato di perturbare quella pace. La mia carriera cominciò a stagnare, l'uragano Harvey distrusse la casa della mia infanzia mentre mia madre giaceva in un letto d'ospedale riprendendosi da un trapianto di polmoni – ma non si riprese mai. Eppure, quando vado a Messa a St. Mary con mia figlia, torno a casa con un senso di pace interiore.
Preoccupato dal fatto che la mera esistenza della Messa in latino possa condurre a un bi-ritualismo che scinderà la Chiesa, Massimo Faggioli ha scritto recentemente sul Commonweal [2] che “queste dispute hanno leso il senso della comunione tra i cattolici”. Può darsi che non abbia del tutto torto. A St. Mary tutti hanno accolto me e la mia famiglia con molto calore, però temono davvero che io possa andare all'inferno solo perché leggo il Commonweal. Dediti a una liturgia immutata durante i secoli, sembrano essere molto chiusi, quasi al punto di isolarsi. In passato, hanno persino avanzato la proposta di formare una propria parrocchia separata da St. Mary in cui la Messa sia celebrata solo in Latino. Ad alcuni fedeli di St. Mary, la Messa in latino sembra far parte di una più ampia ritirata dalla società moderna – ivi compreso il Vaticano II. Molte persone fanno educare i propri figli in casa, anche per quanto riguarda l'educazione religiosa. Alcuni si fanno un'ora di viaggio la settimana perché non trovano quel che cercano nelle loro parrocchie. Sembrano essere una comunità all'interno di una comunità, che crea muri, lo voglia o no.


Eppure, la Messa in latino ha un ruolo speciale per me. Non credo che sia il futuro della Chiesa, anche se ho notato che i banchi sono pieni di membri della generazione X [3] con i loro figli. (Mia figlia, che ha nove anni, ha partecipato a più Messe in latino che in inglese.) La Messa in inglese è troppo semplicista; la scarsa familiarità della Messa in latino esige da parte mia la quiete della mente, concentrazione, e un modo di prendermi cura della mia fede che la Messa in inglese non mi richiede. Non ho una fede salda e i miei dubbi suscitano molte domande. La messa in Latino mi introduce al silenzio che mi permette di trovare le risposte. - Fonte


[Traduzione a cura di Chiesa e Post-concilio]

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[1] Confraternity of Christian Doctrine, un programma cattolico di educazione religiosa per i bambini negli USA [N.d.T.].
[2] Il Commonweal è un periodico cattolico americano progressista pubblicato e gestito da laici [N.d.T.].
[3] L'espressione generazione X si riferisce in genere alle persone nate dopo la generazione del baby boom, ossia tra la metà degli anni Sessanta e il 1979 [N.d.T.].














venerdì 27 luglio 2018

DUE MAMME O DUE PAPA’ NON ESISTONO: LA LEGGE VIGENTE VA RISPETTATA




Comunicato congiunto di ProVita e di Generazione Famiglia, che esprimono soddisfazione per la risposta data dal ministro Salvini all’interrogazione del sen. Pillon circa l’iscrizione allo stato civile di “due mamme” o di “due papà” 




ROMA – 26 luglio 2018

Jacopo Coghe (Generazione Famiglia) e Toni Brandi (ProVita Onlus) apprendono con favore del provvedimento annunciato dal ministro Salvini che servirà a porre fine agli abusi dei funzionari preposti ai registri dello stato civile: perché “l’atto di nascita deve corrispondere alla verità biologica”, come ha detto il senatore Pillon e ha ribadito Salvini al question time svoltosi oggi a Palazzo Madama.

Anche il ministro Fontana ha stigmatizzato le pratiche della vendita dei gameti e dell’affitto dell’utero, nell’odierna audizione alla Commissione Affari sociali.

“Due mamme devono aver comprato il seme per farsi fecondare, due papà devono aver comprato ovuli e affittato l’utero di una donna per poter avere un bambino: si tratta di fattispecie di reato previste dall’art. 12 della legge 40 del 2004”, spiega Coghe. “Si tratta di pratiche commerciali che sviliscono come oggetti le donne e i bambini”, sottolinea Brandi.

Generazione Famiglia e ProVita plaudono al ministro anche per aver chiarito ancora una volta la posizione del Governo a difesa della famiglia naturale e dei valori che essa esprime, dagli attacchi che le sono rivolti da potenti lobby: queste usano sindaci e giudici per realizzare gli interessi economici che muovono le “fabbriche di bambini” e per favorire la propaganda ideologica e nichilista che vorrebbe cancellare la realtà della natura umana: i bambini nascono da una mamma e un papà e hanno diritto di crescere con la mamma e il papà che li hanno generati.






Fonte



IDEOLOGIA GENDER. Farmaco blocca-pubertà: via libera con il sì dei cattolici





Nel 2013 l’ospedale Careggi di Firenze chiese il via libera per l’utilizzo di farmaci in grado d'inibire la pubertà, ma scoppiò una polemica. Ora il Comitato nazionale di bioetica dà l'ok all'utilizzo della triptorelina, grazie anche alla sua componente cattolica (meno un voto contrario), come fecero quegli "esperti" che abbracciarono l'eugenetica nazista. Ma basta guardare all'estero per comprendere i danni fatti da chi pensa di curare un disturbo mentale violentando il corpo dei bambini.



di Benedetta Frigerio, 27-07-2018

Nel 2013 l’ospedale Careggi di Firenze chiese il via libera per l’utilizzo di farmaci in grado d'inibire gli ormoni responsabili dello sviluppo della pubertà, sostenendo attraverso Mario Maggio, primario di Medicina della sessualità, che la disforia di genere (la percezione di trovarsi nel corpo di sesso sbagliato) che affliggeva certi bambini poteva essere curata così. In poche parole bloccando lo sviluppo sessuale del suo corpo il piccolo avrebbe avuto più tempo per decidere se essere maschio o femmina. Ovviamente si sollevò una polemica, soprattutto in casa cattolica, data la follia di curare un disturbo mentale, anziché cercandone le cause, avallandolo. Un po' come se, a chi si sentisse un gatto, accettassimo di mettere la coda. Osservazioni che fino a cinque anni fa sembravano ancora ovvie, come ovvio è il fatto che in presenza di una dissociazione fra sesso biologico e identità percepita, il problema non è del corpo, ma della mente. Oggi, però, pare non essere più certo neppure questo. Nemmeno in casa cattolica.


Sì perché il parere del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) in risposta
alla richiesta dell’AIFA del 10 aprile scorso di utilizzare «la triptorelina per il trattamento di adolescenti affetti da disforia di genere (DG)», reso noto il 23 luglio, porta la firma di medici, genetisti, giuristi e filosofi cristiani come Bruno Dallapiccola del Bambin Gesù di Roma, Francesco D’Agostino, presidente dei Giuristi Cattolici, Lucio Romano, ex presidente di Scienza & Vita, Lucetta Scarrafia, editorialista dell'Osservatore Romano, Mariapia Garavaglia, ex ministro della Sanità, i filosofi Laura Palazzani e Antonio Da Re e l'economista Massimo Sargiacomo. Con un solo parere contrario, quello di Assuntina Morresi, docente di Chimica-Fisica.


Il CNB parla di «eticità dell’uso del farmaco triptorelina»
quando «il trattamento sia limitato a casi ove gli altri interventi psichiatrici e psicoterapeutici siano risultati inefficaci». Di fatto si accetta così che la terapia ormonale tesa al futuro cambiamento di sesso, che può rovinare una persona a vita, figurarsi un bambino, possa essere una risposta (anche a partire dalla tenera età) ad un disagio interiore. Come se bloccare lo sviluppo sessuale del bambino servisse ad «una maturazione della sua consapevolezza» dato che «i cambiamenti fisici irreversibili della pubertà...possono essere fonte di estrema sofferenza».


Ovvio che per arrivare a sottoscrivere tanta menzogna
si sarà insistito sul fatto che i bambini minacciano il suicidio (sebbene ad essere reali sono i suicidi fra chi ha cambiato sesso), presentando casi limite e strappalacrime. Resta il fatto che: dare il proprio consenso ad un documento del genere non ha scusanti per medici o scienziati, perché significa sposare un’ideologia devastante che nega l'evidenza della realtà e che mira a sovvertire la natura e la creazione. Niente di diverso dalla fila di esperti che seguirono l’ideologia eugenetica e ariana del regime nazista.


A dirlo è perfino il mondo laico
che, a furia di fare esperimenti contrari al minimo buon senso, ora piange sul latte versato. È singolare che proprio in questi giorni la rivista The Atlantic abbia pubblicato una lunga inchiesta sui cosiddetti “detransitioner”, i bambini con disforia di genere a cui è stato bloccato lo sviluppo sessuale e che poi sono tornati indietro. I casi aumentano e dicono che il farmaco ha causato loro più problemi psicologici di quelli iniziali. Purtroppo però terapisti, genitori o ambienti frequentati, soprattutto la scuola, li hanno spinti a credere che quella fosse la soluzione. Tutto ciò anche se persino l’Associazione professionale mondiale per la salute dei Transgender disse come il CNB di usare cautela, esortando, prima di intervenire sullo sviluppo sessuale, a «intraprendere un’ampia indagine delle questioni psicologiche, familiari e sociali».


Purtroppo però pare non esserci più argine, né lotta per cercare di fermare una deriva
che in pochi anni sta mietendo vittime rese consenzienti senza bisogno dell’uso della forza. Basti pensare al fatto che in Inghilterra, i bambini sottoposti ai bombardamenti ormonali sono passati da qualche centinaio a migliaia, sebbene la Johns Hopkins University di Baltimora, primo centro americano a praticare bombardamenti ormonali e “chirurgia di riassegnazione sessuale”, avesse già deciso di mettere fine a questo tipo di interventi. «Produrre un paziente “soddisfatto”, ma ancora afflitto dai problemi ci sembrava una ragione inadeguata per continuare ad amputare chirurgicamente organi sani», ricordò Paul McHugh, l’ex primario di psichiatria della clinica universitaria, in un articolo del Wall Street Journal.


McHugh criticò l’uso di pillole che bloccano la pubertà
anche perché studi di follow-up, «sia alla Vanderbilt University sia alla Portman Clinic di Londra», rilevavano che «quando i bambini che riferivano inclinazioni transgender erano seguiti senza terapie mediche o chirurgiche, il 70-80 per cento di loro perdevano spontaneamente le inclinazioni». Perciò «i politici e i media non fanno il bene del pubblico, né delle persone con sentimenti transessuali trattando la loro confusione come un diritto da difendere piuttosto che come un disordine mentale che richiede comprensione, trattamenti e prevenzione».


Sulla stessa linea il medico inglese Robert Lefever
disse nel 2016 al The Sunche «tutte le creature più piccole sono facilmente influenzabili». Non si possono trattare i disagi come «mode», perché «è un fatto che alcune diagnosi diventano moda» e «quasi un distintivo d’orgoglio» degli adulti, confessò il medico. E quando «i problemi emotivi dei genitori diventano problemi fisici e psicologici per i loro figli» non ci si può accontentare di proporre come soluzione il blocco della pubertà. Nell'inchiesta del The Atlantic sono diversi i giovani che passati da questi trattamenti parlano di vite devastate e di ambienti che li hanno spinti in questo senso. Solo una giovane ringrazia la sua psicologa per averle curato il disturbo mentale, visto che ora «sto bene».


Ma bisognerà vedere se il governo italiano
, davanti non solo ad un parere unanime (fatta eccezione per una mosca bianca) del CNB e ad un mondo cattolico arreso (basti pensare al comunicato del CDNF che esprime preoccupazioni senza condannare l’uso del farmaco a questi fini), sarà abbastanza forte da opporsi come dovrebbe all’uso della triptorelina, che l’AIFA mira a rendere rimborsabile dal sistema sanitario nazionale per trattare la DF.


Anche perché il governo aveva promesso di non addentrarsi in questioni etiche delicate
, senza esserci riuscito. Dato che alla richiesta del Comitato Superiore di Sanità di bloccare la vendita della cannabis light il ministro della Salute grillino ha fatto orecchie da mercante, mentre «a nome del governo» il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sfilava con il Gay Pride davanti al Santuario della Madonna di Pompei.














mercoledì 25 luglio 2018

CINQUANTESIMO di Humanae Vitae: il compleanno di una profezia






L'enciclica Humanae Vitae, di cui ricorrono oggi i 50 anni dalla sua pubblicazione, è di capitale importanza perché approfondisce e chiarifica l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e l’amore coniugale. Dentro questo si comprende il no senza eccezioni alla contraccezione, e il carattere definitivo e infallibile dell'enciclica.


di Giorgio Carbone, 25-07-2018 

I fini del matrimonio



La Lettera enciclica di papa Paolo VI Humanae Vitae oggi compie 50 anni. È comunemente nota per l’insegnamento sulla «retta regolazione della natalità» (HV 5). Ma è di capitale importanza anche perché approfondisce e chiarifica l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e l’amore coniugale.


Nel corso del XX secolo si era discusso a lungo sui fini del matrimonio. Ad esempio il canone 1013 § 1 del Codice di diritto canonico del 1917 recitava: «Il fine primario del matrimonio è la procreazione e l’educazione della prole; il fine secondario è il mutuo aiuto e il rimedio della concupiscenza». Questa terminologia aveva dato luogo a equivoci: “secondario” era stato inteso nel senso di secondo ordine, superfluo, trascurabile, accidentale, e quindi in senso di degradazione. Quando invece “secondario” andava preso in senso strettamente letterale, cioè “di ciò che consegue dal primo”.

D’altro canto Pio XI nella Casti Connubi insegnava che «la prole fra i beni del matrimonio occupa il primo posto» (§ 12) e che «il matrimonio deve estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo che i coniugi si aiutino tra loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore […] una tale vicendevole formazione interna dei coniugi con l’assiduo studio di perfezionarsi a vicenda in un certo senso verissimo si può dire anche primaria cagione e motivo del matrimonio» (§ 24).


E il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et spes insegnava che «per sua indole naturale il matrimonio e l’amore coniugale, generoso e cosciente, sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole, e in questo trovano il loro coronamento. [...] Il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione […], ma Dio ha dotato il matrimonio di molteplici valori e fini. [... I coniugi] compiendo il loro dovere coniugale e familiare […] tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione e assieme rendono gloria a Dio» (§ 48 e 50).


La visione integrale, cioè soprannaturale, della persona umana

Paolo VI supera qualsiasi equivoco, si richiama alla «visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna» HV 7. E per illustrare la dignità del matrimonio risale a Dio stesso, che è Amore: «L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è “Amore”, che è il Padre “da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome”. Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della Chiesa» HV 8.


Il matrimonio e l’amore coniugale diventano pienamente intelligibili solo alla luce dell’identità di Dio, solo se inseriti – come i tasselli di un grandioso mosaico – all’interno del disegno salvifico di amore che ha Gesù Cristo come compimento e centro: sono una via ordinaria alla santità, alla configurazione a Gesù Cristo. E in questo stesso disegno vanno letti gli aspetti oggettivi o essenziali del matrimonio, nel senso che sono una conseguenza derivante dalla realtà stessa del matrimonio, cioè l’aspetto unitivo e l’aspetto generativo. Sono aspetti inscindibili perché i due aspetti si realizzano, non mediante due atti distinti e separati, ma con un unico e identico atto: la stessa unione delle due persone secondo il modo proprio del sesso realizza simultaneamente i due aspetti.


Gli aspetti unitivo e procreativo sono inscindibili


I coniugi sono chiamati a «conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella natura stessa del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata nell’insegnamento costante della Chiesa» HV 10. Quindi, Paolo VI insegna che gli aspetti unitivo e procreativo sono inscindibili e questa inscindibilità non è una norma ecclesiastica – come quella sul digiuno prima della comunione eucaristica, norma rivedibile continuamente dalla Chiesa – ma è un principio morale che consegue dalla natura e dal fine del matrimonio. È una conseguenza delle esigenze caratteristiche dell’amore coniugale: «pienamente umano, vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale» HV 9. Non è semplice sentimento, istinto o trasporto pulsionale, ma è impegno libero e volontario con il quale i coniugi diventano un’anima sola e un cuore solo e raggiungono la loro perfezione umana, totale: «gli sposi condividono ogni cosa senza indebite riserve o calcoli egoistici», fedele ed esclusivo fino alla morte, e fecondo. (Per approfondire si legga: Marina Bicchiega, Fertilità umana. Consapevolezza e virtù, ESD, Bologna).


Questo insegnamento è infallibile

Il carattere infallibile non dipende dal genere letterario del documento, ma dal fatto che nell’atto di magistero ricorrono le condizioni descritte nella Costituzione Pastor Aeternus perché un insegnamento del papa sia infallibile, abitualmente dette ex cathedra.


Paolo VI stava compiendo «il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani»: se leggiamo la Terza Parte dell’Enciclica, intitolata Direttive pastorali, noteremo che Paolo VI non si rivolge a un gruppo particolare di credenti, ma si rivolge agli sposi e ai genitori (HV 21), agli sposi cristiani (HV 25), agli «educatori e di quanti assolvono compiti di responsabilità in ordine al bene comune dell’umana convivenza» (HV 22), a chi ha la responsabilità del governo della cosa pubblica (HV 23), agli «uomini di scienza» (HV 24), ai «medici e al personale sanitario» (HV 27), ai sacerdoti (HV 28) e ai vescovi (HV 30) e infine a «tutti gli uomini di buona volontà» (HV 31). Questi scarni richiami penso siano sufficienti a provare che Paolo VI vuole compiere «il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani».


Paolo VI stava «facendo uso della sua suprema autorità apostolica», sia in modo implicito – ad esempio in alcuni passi finali: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime» (HV 29); «Venerati fratelli, dilettissimi figli, e voi tutti, uomini di buona volontà, grande è l’opera di educazione, di progresso e di amore alla quale vi chiamiamo, basati sulla fermissima dottrina della Chiesa, di cui il successore di Pietro è, con i suoi fratelli nell’episcopato cattolico, fedele depositario e interprete» – sia in modo esplicito: «Avendo attentamente vagliato la documentazione a noi offerta, dopo mature riflessioni e assidue preghiere, intendiamo ora, in virtù del mandato da Cristo a noi affidato, dare la nostra risposta a queste gravi questioni» (HV 6). Paolo VI invoca il mandato ricevuto da Cristo, cioè è consapevole di esercitare la sua suprema autorità di successore di Pietro.


Paolo VI stava definendo «una dottrina circa la fede e i costumi»: oggetto dell’Enciclica – scrive Paolo VI – riguarda i «principi della dottrina morale del matrimonio: dottrina fondata sulla legge naturale illuminata e arricchita dalla rivelazione divina. Nessun fedele vorrà negare che al magistero della chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale» (HV 4). «Tale dottrina [qualsiasi atto coniugale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita], più volte esposta dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo.


Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana»
(HV 12). Ripetutamente Paolo VI mette in luce l’intimo legame posto da Dio tra il disegno salvifico di amore, il sacramento del matrimonio, l’unione coniugale e l’apertura alla vita (per approfondire leggere il saggio ben documentato: Renzo Puccetti, I veleni della contraccezione, ESD, Bologna).


Nessun inganno e nessuna eccezione

Su questo tema è intervenuto san Giovanni Paolo II il 12 novembre 1988, per il ventesimo anniversario dell’Humanae Vitae in modo chiarissimo: «Paolo VI, qualificando l’atto contraccettivo come intrinsecamente illecito, ha inteso insegnare che la norma morale è tale da non ammettere eccezioni. Nessuna circostanza personale o sociale potrà né ora né mai rendere di per sé un tale atto lecito. Il fatto che esistano determinate norme concernenti il modo di agire dell’uomo nel mondo, dotate di una forza vincolante tale da non ammettere, per nessuna ragione, alcuna possibilità di eccezioni, è un insegnamento costante della Tradizione e del magistero della Chiesa, che non può essere messo in discussione dal teologo cattolico».















martedì 24 luglio 2018

Eutanasia dei bambini, Il “freno d’emergenza” del Dottor Morte







di Aldo Maria Valli

Almeno tre bambini sono stati uccisi con l’eutanasia in Belgio nel corso del 2016 e del 2017 in Belgio, secondo un rapporto statale:
http://www.brusselstimes.com/belgium/health/11998/euthanasia-up-by-13-as-three-minors-elect-for-early-exit

Il Belgio ha legalizzato l’eutanasia per i minori nel 2014 ed è l’unico paese al mondo ad averlo fatto per i bambini di tutte le età.
Nel 2016 il professor Wim Distelmans, capo del Comitato federale di controllo e valutazione per l’eutanasia, ha confermato che il primo caso di eutanasia su un minore si è verificato da parte di un medico nei confronti di un ragazzo di diciassette anni.
Il Comitato riferisce inoltre che dal 2016 al 2017 il numero di casi di eutanasia è aumentato del tredici per cento.
Per la maggior parte si è trattato di persone di età compresa tra i sessanta e gli ottantanove, che soffrivano di diversi disturbi contemporaneamente, quali cecità, perdita dell’udito e incontinenza, come succede di frequente nei processi di invecchiamento.
“Vediamo che un numero crescente di persone non accetta più questa condizione”, ha dichiarato il professor Distelmans. “Inoltre la popolazione invecchia e quindi anche le cifre aumentano. Questa è di fatto la prima generazione a confrontarsi con la polipatologia”.
In Belgio il numero dei pazienti che hanno richiesto l’eutanasia è quasi raddoppiato negli ultimi quattro anni: da 232 a 444. La presenza di tumori è la ragione principale all’origine delle richieste.
Singolare è il dato riguardante i fiamminghi, che scelgono l’eutanasia da tre a quattro volte più dei francofoni. Ma in base a uno studio pubblicato dal The British Journal of Cancer c’è il fondato sospetto che in alcuni casi si proceda, senza l’esplicito consenso del paziente, con la somministrazione di farmaci che hanno lo scopo di accelerare la morte.
Oncologo dell’Università di Bruxelles specializzato in cure palliative, il professor Wim Distelmans è a capo della Commissione di controllo federale, organo istituito per assicurare che non si verifichino “irregolarità”. “Per fortuna ci sono pochissimi bambini che scelgono questa possibilità – ha dichiarato -, ma ciò non significa che dobbiamo negare loro il diritto di una morte dignitosa”.
Oltre che in Belgio, il “suicidio assistito” per minorenni, almeno dai dodici anni in poi, è parzialmente permesso in Olanda.
“Non bisogna fissare limiti d’età. Nei Paesi Bassi è dodici anni. Ma che fare con quelli di undici?”. 

Nel 2013, mentre era in corso il dibattito sulla legge che poi sarebbe stata approvata, Distelmans, che è anche fondatore dell’hospice per cure palliative Topaz, nei sobborghi di Bruxelles, rispondeva così a una domanda del Figaro. Del resto, spiegava il professore: “Si sa che i bambini che soffrono hanno una maturità eccezionale”.
“Freno d’emergenza”: così Distelmans in un libro ha definito la possibilità di ricorrere all’eutanasia, anche per i minori.
La legge approvata dal parlamento belga e firmata dal re il 2 marzo 2014 stabilisce che un minore, se colpito da malattia incurabile e vittima di sofferenze “intense” (escluse quelle psicologiche) impossibili da alleviare, può chiedere che si ponga fine alla sua sofferenza facendolo morire mediante un’iniezione letale. Perché la richiesta sia legittima il minore deve possedere la capacità di intendere e di volere e deve essere giudicato in grado di compiere la sua scelta davanti a uno psicologo e a uno psichiatra, con il consenso scritto di entrambi i genitori o di chi ne fa le veci.
Carine Brochier, tra i direttori dell’Istituto europeo di bioetica, nel 2016 spiegò qual è la strategia dei sostenitori dell’eutanasia infantile
(https://www.tempi.it/belgio-eutanasia-minorile-obiettivo-non-sono-tanto-i-bambini-ma-tutte-le-persone-improduttive#.W1bn7dUzYs4).
Il caso del primo minore ucciso con l’eutanasia su “davvero strano” disse Brochier. “La notizia è uscita come se si trattasse del primo bambino a richiedere la morte e solo ora, dopo essere passato così nell’immaginario di tutti, si scopre che il protagonista era un ragazzo che stava per compiere diciotto anni. Come mai? Era necessario un episodio, perché sebbene l’eutanasia sui minori in Belgio sia permessa da oltre due anni finora non c’era stata alcuna domanda. I dati dimostrano l’inutilità della norma, che fu approvata senza alcun dibattito come risposta a un problema urgente. La mancanza di altri casi svela che dietro alle spinte legislative non c’è alcuna domanda da parte della società. Una verità confermata anche dai Paesi Bassi, dove gli episodi che coinvolgono i minorenni, a dieci anni dall’introduzione dell’eutanasia infantile, sono solo cinque. Mi pare evidente che l’obiettivo della campagna mediatica sia quello di accrescere la domanda eutanasica attraverso l’incremento dell’offerta”.
“Non serve che la legge sia applicata, basta che ci sia. E non serve che si tratti davvero di un bambino o che i casi siano molti, ne basta uno per mutare la mentalità. L’obiettivo non sono tanto i bambini, ma tutti coloro che sono improduttivi: se si accetta l’idea che un piccolo innocente possa essere ucciso, a maggior ragione è ammissibile l’omicidio dei malati, degli anziani, dei dementi. Il tentativo è quello di spingere le persone improduttive a chiedere di essere uccise. Non a caso aumentano gli anziani che ormai ragionano così: “Se per tutti sono un peso, se rappresento solo un costo, allora meglio togliersi di mezzo”.
Il prossimo passo, spiegava Brochier, “sarà l’eutanasia come diritto, per cui verrà cancellata l’obiezione di coscienza di medici e infermieri. Molti di loro temono e testimoniano una pressione crescente in questo senso. Ci avviciniamo al totalitarismo vero e proprio”.
Grazie al “freno d’emergenza”.
Aldo Maria Valli













lunedì 23 luglio 2018

Abbiamo bisogno del canto gregoriano







Una errata interpretazione della riforma liturgica ha spazzato via anche il canto gregoriano, andando contro ciò che i documenti del Concilio espressamente chiedevano. Il risultato è stato un oggettivo impoverimento della musica liturgica, che del gregoriano ha bisogno come modello.


di Aurelio Porfiri 23-07-2018

Negli anni del dopoconcilio, uno dei temi che ha occupato di più le penne dei polemisti è stato quello della perdita del canto gregoriano. Questo repertorio che la Chiesa riconosce come suo è stato di fatto estromesso dalle celebrazioni liturgiche, alla pari del latino, la lingua d’eccellenza del canto gregoriano (o canto romano franco, come sarebbe meglio chiamarlo).


Il Beato Paolo VI nella Sacrificium Laudis del 1966 (Epistola apostolica sulla lingua latina da usare nell'Ufficio Liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all'obbligo del coro, ndr) diceva: “Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità. Poiché vi è da temere che l'Ufficio corale venga ridotto a una recitazione informe, della quale voi stessi sareste certamente i primi a risentire la povertà e la monotonia. Sorge anche un altro interrogativo: gli uomini desiderosi di sentire le sacre preci entreranno ancora così numerosi nei vostri templi, se non vi risuonerà più l'antica e nativa lingua di quelle preghiere, unita al canto pieno di gravità e bellezza?”.


La risposta da dare al Beato Paolo VI che si poneva questa angosciosa domanda più di 50 anni fa è: no, gli uomini e le donne non sono più così numerosi nell’attendere la liturgia e questo malgrado si sia tentato l’abbraccio con le cose del mondo nel modo più plateale, buttando moltissimo della Tradizione liturgica e musicale alle ortiche.


Proseguiva la Sacrificium Laudis: “Preghiamo dunque tutti gli interessati, di ponderare bene quello che vorrebbero abbandonare, e di non lasciare inaridire la fonte alla quale hanno fino ad oggi abbondantemente attinto. Senza dubbio la lingua latina crea qualche, e forse non lieve, difficoltà ai novizi della vostra sacra milizia. Ma questa, come sapete, non è da ritenere tale che non possa essere superata e vinta, soprattutto tra voi che, più lontani dagli affanni e dallo strepito del mondo, potete più facilmente dedicarvi allo studio. Del resto quelle preghiere permeate di antica grandezza e nobile maestosità continuano ad attrarre a voi i giovani chiamati all'eredità del Signore; in caso contrario, una volta eliminato il coro in questione, che supera i confini delle Nazioni ed è dotato di mirabile forza spirituale, e la melodia che scaturisce dal profondo dell'animo, dove risiede la fede e arde la carità, il canto gregoriano cioè, sarà come un cero spento che non illumina più, non attrae più a sé gli occhi e le menti degli uomini”. Un cero spento...veramente una bella immagine che in modo vivo ci da la percezione di quello che stiamo vivendo.


«La Chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana:perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Sono parole della Sacrosanctum Concilium, la prima delle costituzioni del Vaticano II, dedicata alla liturgia. Difficile affermare che sia stata presa alla lettera. Sul gregoriano, come sulla riforma della liturgia, sono esplose ed esplodono polemiche tra fazioni – ipertradizionalisti e rottamatori – che non aiutano a capire e uscire dall’impasse. «Una delle accuse che si fa al gregoriano è che impedisce alla gente di cantare – dice Giacomo Baroffio, tra i massimi esperti in Italia –. Ma anche in molte chiese dove si canta in italiano l’assemblea partecipa poco, con il 'coretto' che fa tutto da sé... Sul gregoriano c’è un grande equivoco: la sua crisi non è musicale ma culturale. Il problema è accogliere la parola di Dio secondo una formula collaudata dalla tradizione. Il gregoriano non è musica, è preghiera». E certamente il canto gregoriano paga un pregiudizio contro ciò che è percepito come Tradizione. Bisogna innovare sempre e comunque, anche e soprattutto a scapito di quello che i nostri padri ci hanno lasciato.


Ma noi abbiamo bisogno di modelli e questo è il canto gregoriano, un modello indicato dalla Chiesa come esemplare per la musica liturgica. La buona musica liturgica, anche in italiano, non può crescere senza il suo modello. Cerchiamo di riscoprire questa grande saggezza che una errata interpretazione della riforma liturgica ci ha portato via.












sabato 21 luglio 2018

Il Vescovo di Ventimiglia-Sanremo Mons.Antonio Suetta fuori dal coro Cei sui migranti




La riflessione di S.Ecc.Rev.ma Mons. Antonio Suetta Vescovo di Ventimiglia-Sanremo sulla complessa questione dei migranti, in risposta ai firmatari della “Lettera ai Vescovi italiani” del luglio 2018».


Sanremo, 19 luglio 2018.
Carissimi, leggendo con attenzione la Vostra lettera, ho ritenuto di dover rispondere alle Vostre riflessioni innanzitutto a partire dall’esperienza della Chiesa di Ventimiglia San Remo, da qualche anno fortemente coinvolta dal fenomeno dell’immigrazione, passando da qui una delle principali rotte dei migranti prevalentemente africani e provenienti dal Sud Italia.
Spesso purtroppo siamo stati testimoni di drammi consumati alla frontiera italo-francese, dove molti migranti giungono nel desiderio di oltrepassare il confine presidiato dalla gendarmeria, alcuni scappando da situazioni pericolose, altri per ricongiungersi a familiari, altri alla ricerca di un lavoro, altri ancora per trovare fortuna e migliori condizioni di vita. Su questo confine si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte violenta di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel tentativo di oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i binari della ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte” sui monti.

A questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità e di business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”.

Questa esperienza, unita all’ascolto dei tanti immigrati che ho potuto incontrare nelle varie strutture che la nostra Chiesa mette a disposizione, con il coinvolgimento di tanti volontari e la generosità di tanti fedeli, mi consente di fare alcune riflessioni in merito alla Vostra lettera.
Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale.

Mi sono chiesto più volte: quale può essere il ruolo profetico della Chiesa in questa situazione?

Certamente, abbiamo dato, e continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e supporti vari (mediazione, orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in condizioni di difficoltà e ha bisogno del necessario per vivere.
Ma può bastare questo per risolvere un problema di proporzioni sempre più gravi?


La Chiesa guarda al bene integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e l’azione di Gesù Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di ogni uomo, traducendo e incarnando il suo annuncio in azioni
concrete.


Rispetto ai problemi contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: 'la Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana'.

La Chiesa, cioè, quanto al suo magistero, agisce non in nome di una competenza tecnica, ma attraverso una seria riflessione cristiana che illumina i temi della realtà sociale.

Di fronte a situazioni complesse di carattere politico e sociale, spesso i fedeli, individualmente o in gruppi particolari, possono assumere legittime e diversificate iniziative, trovando sempre però nel Vangelo e nell’insegnamento sociale della Chiesa i principi ispiratori delle loro azioni e delle loro scelte politiche.
Le scelte e i progetti dei singoli o dei gruppi di ispirazione cristiana possono divergere, pur agendo da cristiani, senza per questo pretendere di agire a nome della Chiesa o di imporre un’interpretazione esclusiva e autentica del Vangelo.

La Gaudium et spes, al n. 43, ha espresso questo principio in modo inequivoco: 'Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione.

Tuttavia altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, ciò che succede abbastanza spesso legittimamente.

Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa'".

In un contesto complesso e pluralista, compito della Chiesa è indicare principi morali perché le comunità cristiane possano svolgere il loro ruolo di mediatrici nella ricerca di soluzioni concrete adeguate alle realtà locali.

Lo ha mirabilmente espresso il Beato Paolo VI al n. 4 di Octogesima adveniens: 'Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia, e particolarmente in questa era industriale'".


Tali precisazioni sono importanti per giungere al cuore della mia riflessione, che ruota attorno alla seguente affermazione: l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni uomo; soffre chi è costretto a lasciare la famiglia, la casa, la terra, abbandonando affetti, costumi, lingua, cultura e tradizioni che compongono la propria identità; soffre la famiglia privata di un suo componente e smembrata; soffre la terra depauperata spesso delle sue risorse migliori.
A ciò si affiancano le difficoltà dei popoli occidentali nel realizzare una difficile integrazione, spesso preoccupati - non sempre senza ragione - di preservare la loro sicurezza e la loro identità culturale e religiosa.


Le lacrime dei tanti giovani immigrati che ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità della vicenda.


Comprendo in questo senso le parole di San Giovanni Paolo II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni del 1998: 'il diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione'.


Un principio di giustizia sociale ribadito anche da Benedetto XVI che, nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2013, ha affermato il 'diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra'.

Interpretando l’esperienza e la coscienza di tanti profughi, spesso vittime di sogni e illusioni, ha commentato: 'Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un 'calvario' per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria'".


Per questa ragione, oggi, mentre affermiamo con Papa Francesco il dovere dell’accoglienza di chi bussa alla nostra porta in condizioni di grave emergenza, occorre anche impegnarsi, forse più di quanto non sia stato fatto, per garantire ai popoli la possibilità di “non emigrare”, di vivere nella propria terra e di offrire là dove si è nati il proprio contributo al miglioramento sociale.

La separazione e lo smembramento delle famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave problema per il tessuto sociale, morale e umano dei Paesi d’origine.

L’emigrazione dei giovani rappresenta un grande depauperamento per l’Africa.

Spesso, inoltre, a emigrare sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del benessere europeo a portata di mano.

Nell’impegno per l’accoglienza, si finisce spesso per trascurare quanti restano in quei Paesi, che spesso sono veramente i più poveri, anche culturalmente.
Fermo restando il diritto per ogni uomo di cercare fortuna fuori dalla propria terra di origine, come anche il dovere di accoglienza per i Paesi più ricchi del mondo, occorre tuttavia tener conto del fatto che gli uomini, le donne e i bambini oggi coinvolti nel fenomeno delle migrazioni sono – a mio parere - tre volte vittime.
Innanzitutto sono vittime di ingiustizie, di miserie, e spesso anche di guerra, che li costringono a partire dai loro Paesi d’origine.
Come possiamo tacere che tali situazioni, direttamente o indirettamente, sono frutto di politiche coloniali antiche e nuove?
Il primo dovere di carità umana allora ci impone di aiutare questi popoli laddove vivono, richiamando l’attenzione e l’impegno di tutti sulla rimozione di queste ingiustizie e quindi anche delle cause che li spingono all’emigrazione.

Desidero richiamare in proposito l’appello che le Chiese africane hanno rivolto in più occasioni ai loro figli più giovani: 'Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America' ha detto Mons. Nicolas Djomo, Presidente della Conferenza Episcopale del Congo, all’incontro panafricano dei giovani cattolici del 2015, invitandoli a guardarsi dagli 'inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali', perché non si può pensare che gli uomini siano come merci che si possono sradicare e trapiantare ovunque, se non perseguendo un’idea nichilista che vorrebbe appiattire le culture e le identità dei popoli.
'Voi siete il tesoro dell’Africa; - ha aggiunto Djomo - la Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi'".
"Ancora più recentemente, dal Senegal alla Nigeria, i Vescovi hanno avuto reazioni indignate di fronte ad alcuni filmati che mostrano come vengono trattati alcuni migranti prima di essere venduti in Libia come schiavi, per poi finire a fare i profughi in mare aperto.
'Non abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di emigrazione illegale quando sappiamo benissimo come funzionano, tutto questo deve finire' dice dal Senegal Monsignor Benjamin Ndiaye, Arcivescovo di Dakar, che argomenta per assurdo: 'meglio restare poveri nel proprio Paese piuttosto che finire torturati nel tentare l’avventura dell’emigrazione'.
A lui hanno fatto eco più recentemente in Nigeria Mons. Joseph Bagobiri della Diocesi di Kafachan e Mons. Jilius Adelakan, Vescovo di Oyo.
I Pastori riconoscono che la Nigeria è un Paese ricco di tante risorse, ma le associazioni malavitose, che hanno contatti anche nei vari Paesi europei, e anche in Italia, incoraggiano di fatto la tratta di esseri umani, alimentando illusioni e false speranze, per un loro tornaconto.
In secondo luogo, oltre che vittime di ingiustizie laddove vivono, i migranti sono spesso vittime di rifiuto e di sfruttamento nei Paesi a cui approdano.
Sono anche vittime di condizioni strutturali che, al di là della buona volontà di chi accoglie, non consentono sempre di dare loro quella fortuna che cercano.
Come possiamo dimenticare le difficoltà di lavoro che incontrano molti dei nostri giovani, essi pure costretti ad andare a cercare altrove la prospettiva di un futuro?
In questo ambito si deve considerare il difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un grave problema di integrazione con la nostra cultura occidentale e cristiana.
Faccio riferimento a dati obiettivi, fonte spesso di problemi non indifferenti, posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e politica.
Il tema è stato ben argomentato a suo tempo dal compianto Card. Giacomo Biffi e molti sono i richiami in tal senso provenienti in questi anni dai Vescovi che in Medio Oriente vivono quotidianamente queste difficoltà, come ad esempio, il Vescovo egiziano copto di Alessandria, Mons. Anba Ermia.
Queste difficoltà sono ben note anche in alcuni Paesi europei, come la Francia, dove l’integrazione è ancora di là da venire, come ci dimostrano le tristi cronache di questi anni.
Tuttavia mi preme precisare, come anche Papa Francesco ha affermato più volte, che i fatti gravi di tipo sovversivo e terroristico non sono fondamentalmente espressione di una guerra di religione, essendo più variegate e complesse le motivazioni.
Grandi passi sono stati fatti sul piano del dialogo interreligioso.
Per tornare al nostro tema, le difficoltà di integrazione le vediamo anche nelle realtà più piccole dei nostri centri, dove assistiamo alla creazione di veri e propri “quartieri islamici”, che, con gravi tensioni tentano di impiantare le loro regole e le loro tradizioni.

Anche Papa Francesco ha sempre riconosciuto che la politica dell'accoglienza deve coniugarsi con la difficile opera dell'integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio” e proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza va fatta compatibilmente con la possibilità di integrare.
L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato che gli immigrati spesso restano ai margini delle nostre società, in veri e propri ghetti, in cui parlano la loro lingua e introducono i loro costumi, come in comunità parallele, talvolta in contesti di degrado.
Per non tacere del grave fenomeno degli immigrati che finiscono in mano alla malavita o agli sfruttatori del piacere sessuale.

In terzo luogo, i migranti, già vittime di ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni occidentali di 'piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei', come recentemente ha ricordato Mons. A. Schneider.

Senza ossessioni di complotti, ma anche senza irresponsabili ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti progetti e tentativi volti ad annullare le identità dei popoli, perché ciascun uomo sia più solo e debole, sganciato dai riferimenti culturali di una comunità in cui possa identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare dalla produzione legislativa europea sempre più lontana e avversa alle radici della nostra civiltà.
Se da una parte possiamo concordare che oggi non vi sia una vera e propria guerra tra le religioni, dobbiamo però riconoscere che è in atto una “guerra” contro le religioni, ogni religione, e contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo.
Spesso, giunti in Europa, i migranti sentono anche il peso e la fatica di una visione di vita e di uno stile non appartenenti alla loro storia e identità, siano essi cristiani, islamici o di altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e baluardo di autentica promozione umana.

Personalmente, sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare di andare verso una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.

Tutte queste ragioni, che in breve ho cercato di enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la prudenza e la lungimiranza della Chiesa: 'Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l'ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L'immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri'".

A questi principi di buon senso e sapienza cristiana suggerisco di conformare l’agire sociale, illuminati dal Magistero della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo messaggio con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere posizioni di privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla complessità del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre tener conto affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli uomini di buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità intera.

+ Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia – San Remo

Fonte







FFI. VOCI SU IMMINENTI SANZIONI PER PADRE MANELLI. IGNOTI I MOTIVI. FORSE QUESTIONI DI SOLDI.





Marco Tosatti, 21 luglio 2018

L’11 luglio del 2013 scattava con un provvedimento della Congregazione per i Religiosi il Commissariamento dei Frati Francescani dell’Immacolata, che dura ancora, e non si sa quando potrà avere fine. Un periodo straordinariamente lungo. Ma non è questa la sola anomalia di questa vicenda; non si sono mai sapute le ragioni del Commissariamento, se non, nelle parole del primo commissario, padre Volpi, una vaga “deriva lefebvriana”; e che cosa questo voglia dire, non lo sappiamo.

Ma in questi giorni sia alla Cei che in Vaticano stanno girando voci che vorrebbero per imminente qualche genere di sanzione nei confronti del fondatore dei FFI, padre Stefano Manelli, che ha compiuto 85 anni nel maggio scorso.

C’è chi dice che all’origine delle voci sia uno dei tre commissari, il salesiano Sabino Ardito. Sempre secondo queste informazioni che circolano, e che non sono purtroppo verificabili, un documento contenente le sanzioni , preparato dalla Congregazione per i Religiosi, sarebbe già sul tavolo del Pontefice regnante. Dopo le sanzioni sarebbe infine convocato il nuovo capitolo generale, cioè l’assemblea dei frati, che potrebbe (dovrebbe?) rivedere le Costituzioni, in particolare togliendo il voto di consacrazione all’Immacolata, che i commissari hanno già abolito nelle formule di professione per i nuovi arrivati. E dovrebbe scomparire anche il voto di povertà, cioè la proibizione per i frati e la Congregazione di possedere alcunché.

È stato proprio in virtù del voto di povertà che i beni mobili e immobili della Congregazione, affidati a associazioni di laici, non sono stati espropriati dal Vaticano. La magistratura ha dato ragione ai laici, e la Santa Sede allora ha fatto pressioni su padre Manelli affinché convincesse i laici a mollare i beni, pensando che il suo potere di convinzione fosse risolutivo.

La battaglia giuridica scatenata dal Vaticano è stata dura, e si è arrivati fino in Cassazione. Curioso rilevare che uno degli attori della battaglia per la “roba” è il segretario della Congregazione per i religiosi, padre Carballo, uomo di fiducia del Pontefice, che è stato uno dei protagonisti principali del gigantesco crack finanziario dell’ordine francescano. L’incontro fra soldi e tonache spesso non da risultati felici.

E, sempre secondo le voci, le sanzioni canoniche a padre Manelli, se ci saranno, avranno come causa la mancata collaborazione in tema di moral suasion verso le associazioni di laici detentrici dei beni. Se così fosse, assisteremmo a un altro fatto ben singolare: si sanziona canonicamente un fondatore di congregazione non per qualche delitto commesso, o per le ragion che hanno portato al commissariamento della sua congregazione, ma perché non ha voluto o non è riuscito a convincere persone sulle quali non ha potere a fare o non fare qualche cosa.

Veramente nella saga dei Francescani dell’Immacolata assistiamo a singolari forme di giustizia; a cominciare dall’atto di imperio con cui papa Bergoglio ha impedito alle suore di agire presso il tribunale della Segnatura contro il loro commissariamento. Se il capitolo generale si terrà nel 2019, è possibile che spazzi via quello che resta della spiritualità particolare dei Francescani dell’Immacolata compreso il voto mariano. Perché questa volontà di distruzione, o di snaturamento, di un carisma così amato da un papa santo, e che ha dato – finché è stato autonomo – una quantità di vocazioni? Questo è l’aspetto più misterioso e inspiegabile di quella che è una triste pagina del regno attuale. Vediamo quanto di queste voci troverà conferma.

Se volete ricapitolare alcuni punti della vicenda, trovate dei link












giovedì 19 luglio 2018

Salvare il seme. La lezione di Guareschi





di Aldo Maria Valli 19-07-2018

Si sta avvicinando il cinquantesimo anniversario della morte di Giovannino Guareschi (22 luglio 1968) e vogliamo idealmente mettere un fiore sulla sua tomba parlando di un bel libro di Alessandro Gnocchi, che di Guareschi è il nostro maggior studioso. Il libro si intitola Lettere ai posteri di Giovannino Guareschi (Marsilio, 144 pagine, 16 euro) ed è un viaggio, dolente e divertente insieme, tra gli allarmi che, a modo suo, con una miscela di umorismo, sarcasmo e poesia, il creatore di Don Camillo e Peppone lanciò ripetutamente, sul finire della sua vita terrena, davanti all’inesorabile avanzata dei mostri partoriti dalla nuova Chiesa postconciliare, tutta progressismo e riformismo, impegnata a sbarazzarsi della tradizione e, con sommo sprezzo del ridicolo, a mostrarsi più moderna dei moderni.

Gli interventi riportati e commentati da Gnocchi vanno dal 1963 al 1968, gli ultimi cinque anni di vita di Guareschi. Mezzo secolo fa: un’eternità. Eppure ecco lì la stessa logica odierna fotografata ai suoi albori, la stessa spasmodica ricerca di aggiornamento, pur di piacere al mondo e di raccogliere consensi dai nemici della fede cattolica. Sotto il suo sguardo sconsolato e i suoi baffoni via via più tristi, Giovannino vedeva l’avanzare di una Chiesa nella quale l’aggettivo dialogante faceva rima con protestante, che abbandonava gli altari per farne «tavole calde», che si sbarazzava con noncuranza del latino e di tutte le meraviglie della liturgia giunte a noi attraverso i secoli, che metteva in soffitta Cristi, Madonne e Santi perché se ne vergognava, che trasformava la Santa Messa in un’assemblea eccetera eccetera.

Le lettere che Guareschi, in mezzo a quel disastro, inviò al suo Don Camillo sono tutte da leggere e meditare. Il parroco che parla con il Crocifisso si ritrova in un mondo nuovo in cui il nemico non è più il vecchio Peppone, non è più il Partito comunista, non sono più i compagni tutti casa e sezione, ma è la nuova Chiesa che va a braccetto con i marxisti à la page e la sinistra snob, la nuova Chiesa che pur di essere ammessa al grande ballo delle idee dominanti getta alle ortiche duemila anni di sapienza cristiana e insegue le mode, che non parla più di salvezza ma di liberazione, che sembra non credere più nei sacramenti e abbandona i vecchi dogmi per abbracciare il nuovo super-dogma del dialogo, che non si vede più come la Sposa di Cristo ma come un popolo.

Noi oggi, mezzo secolo dopo, sperimentiamo i risultati di ciò che Guareschi aveva già capito benissimo assistendo ai prodromi dello sfacelo. Cristo espulso dalla casa di Dio, l’ostia trasformata in sandwich (oggi diremmo fast food) da consumare in piedi, teologi atei osannati come profeti, preti trasformati in telecronisti con microfono annesso, santi e beati presi in considerazione solo se pacifisti e socialmente impegnati (si leggano le pagine che Guareschi dedica all’ormai prossimo beato La Pira, al «lapirismo» e alle «lapirate»). Ma cinquant’anni fa, per lo meno, i conquistadores, per quanto insensati, erano animati da un sacro fuoco, mentre oggi ci propinano gli ammuffiti rimasugli del loro stesso pensiero. Cinquant’anni fa, per lo meno, la nuova liturgia, per quanto scellerata, aveva un che di vitale, mentre oggi non produce che stanche rimasticature e nessuno sa neppure perché la Santa Messa da sacrificio è diventata happening.

A che serve rivangare? Se lo chiede l’amico Gnocchi, che dice chiaramente di non avere ricette in tasca, e ce lo chiediamo anche noi, specie di fronte a certe cronache.
Si prenda il caso della proposta del cardinale Coccopalmerio, che ha suggerito al papa di inserire nel Codice di diritto canonico una nuova norma, dedicata al «grave dovere», per il fedele cattolico, di migliorare l’ambiente naturale.
Sapevamo che dopo la Laudato sì’ un’onda anomala di ecologismo si è abbattuta sulla Chiesa cattolica, ma non immaginavamo che si potesse arrivare a tanto. Già che ci siamo, la Santa Sede potrebbe chiedere la stesura del nuovo canone a Greenpeace.

Ma ecco come il cardinale ha proposto la cosa: «Il Codice di diritto canonico, all’inizio del II libro, ai canoni 208-221, sotto il titolo “Obblighi e diritti di tutti i fedeli”, presenta un elenco di tali obblighi e diritti, e tratteggia per tale motivo un autorevole identikit del fedele e della sua vita di cristiano. Purtroppo nulla si dice di uno dei doveri più gravi: quello di tutelare e di promuovere l’ambiente naturale in cui il fedele vive. La mia proposta – continua il porporato – sarebbe di chiedere al Papa, da parte del Dicastero per i testi legislativi, l’inserzione nei canoni che ho appena citato di un nuovo canone che suoni pressappoco in questo modo: “Ogni fedele cristiano, memore che il creato è la casa comune, ha il grave dovere non solo di non danneggiare, bensì anche di migliorare, sia con il normale comportamento, sia con specifiche iniziative, l’ambiente naturale nel quale ciascuna persona è chiamata a vivere”».

Bene, bene. Ma perché non fare di più e di meglio? Per esempio, alla luce dei nuovi, pressanti doveri ispirati all’ideologia ecologista, si potrebbe riscrivere il canone 211. Come dite? Che non sapete che cosa stabilisce il canone 211? Eccolo: «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo». Annuncio divino? Salvezza? Andiamo! Il nuovo paradigma ha bisogno di ben diverse prospettive. Riscriviamo dunque così: «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché la difesa dell’ambiente naturale si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tipo e di ogni luogo». Il che permetterebbe, fra l’altro, di eliminare il problema del proselitismo. Il quale, lo sappiamo, in base al nuovo paradigma va evitato come la peste.

E che dire del simpatico padre Zanotelli, che ha auspicato la trasformazione delle chiese cattoliche in ostelli per i clandestini ed ha promosso un digiuno a staffetta (stile Pannella buonanima) in piazza San Pietro? E di monsignor Nogaro, vescovo emerito di Caserta, che, aderendo all’iniziativa zanotelliana, si è detto moralmente pronto, da uomo di fede, a trasformare tutte le chiese in moschee per salvare la vita dei poveri e degli infelici?

Si resta senza parole. Ma tacere non si può. Ce lo ricorda il Crocifisso in persona, il quale, quando Don Camillo gli chiede che cosa fare davanti al disastro, risponde: «Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo nella terra resa ancora più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più: ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri».
E poi c’è quel pensiero di Aleksandr Solženicyn, giustamente riportato da Gnocchi alla fine. Quando la menzogna sembra dominare dappertutto, c’è sempre una cosa che possiamo fare: rifiutare di partecipare personalmente alla menzogna, così che essa «non domini per opera mia!».

In una delle sue lettere, Guareschi scrive al parroco di Brescello: «Don Camillo, tenga duro. Quando i generali tradiscono, abbiamo più che mai bisogno della fedeltà dei soldati». E allora coraggio e avanti. «Come spesso accade quando intellettuali, teologi e pastori perdono la testa – annota Alessandro Gnocchi – l’ancora più salda diventa il sensus fidei dei fedeli ordinari. E si può star certi che, dove è sopravvissuto il vero senso della fede, cova anche il sensus traditionis”.
Sul punto, Giovannino Guareschi fu piuttosto chiaro quando, immaginando una delle scenette con protagonista la famiglia Bianchi (che lui si era inventato per raccontare lo scontro fra le diverse anime dei cattolici) scrisse il seguente dialogo tra il prete progressista don Giacomo, il cattolico progressista signor Bianchi e la cattolica senza etichette signora Bianchi:
«Bisognerebbe formare un comitato di parrocchiani di idee moderne» continuò don Giacomo.
«Io ci sto!» affermò fiero il signor Bianchi.
«E lei, signora?» domandò il giovane prete alla signora Bianchi.
«No. In una famiglia un cretino basta!».



Aldo Maria Valli