martedì 3 dicembre 2024

A Firenze si reinterpreta la Bibbia



"Quattro passi d'inclusione" alla volta, prosegue la via fiorentina all'omosessualismo. Vittima del secondo incontro è il Levitico, abilmente decostruito da don Carrega e suor Giacobbe per dire il contrario di quanto insegna la Chiesa.


Ribaltone dottrinale
Titolo originale: Se la Bibbia non è gay-friendly a Firenze la si reinterpreta


Luisella Scrosati, 02-12-2024

Quattro passi d'inclusione è il titolo scelto dal Centro diocesano di pastorale familiare della diocesi di Firenze (Coordinamento per la pastorale d'inclusione) per una serie di incontri dedicati alla questione della omosessualità. Lo scorso 22 novembre don Gian Luca Carrega, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (sezione di Torino), è stato invitato a parlare di Fede, Bibbia e omosessualità; essendo però il sacerdote impossibilitato ad intervenire per ragioni di salute, è stato sostituito nell'esposizione da suor Fabrizia Giacobbe, domenicana, membro dello stesso Coordinamento per la pastorale d'inclusione di Firenze, che ha commentato le slide preparate da don Carrega.

L'intervento si è sostanzialmente proposto di reinterpretare alcuni testi fondamentali che condannano l'omosessualità, per mostrare come in realtà essi sarebbero il frutto di un contesto culturale che ne relativizzerebbe la portata universale e perenne.

Suor Fabrizia Giacobbe ha esposto anzitutto il principio cardine dell'intervento, ossia che i testi biblici “imputati” non devono essere slegati dall'insieme della Scrittura; è necessario dunque offrire un'interpretazione di tali versetti, come di ogni passo delle Scritture, nell'insieme dei testi ispirati. Il principio è corretto ma incompleto, e sarà proprio da questa incompletezza che scaturiranno gravi errori. Questa parzialità dei criteri interpretativi è già piuttosto evidente nel fatto che la suora domenicana si riferisca al documento della Pontificia Commissione Biblica, L'Interpretazione della Bibbia nella Chiesa, solo per richiamare la scorrettezza dell'interpretazione fondamentalista della Bibbia, approccio che, per difendere la verità dell'inerranza e dell'ispirazione delle Scritture, finisce per sacrificarne la dimensione storica, mentre nulla riferisce del medesimo documento relativamente al ruolo del Magistero nell'interpretazione del testo sacro.

L'approccio di don Carrega e suor Giacobbe propone un'analisi dei testi del libro del Levitico che condannano gli atti sodomiti (cf. Lv 18, 22 e Lv 20, 13). La condanna presente in questi testi si baserebbe su tre presupposti che caratterizzano la cultura in cui nasce questo libro biblico: primo, per la Bibbia esistono solo persone eterosessuali, ed in essa non compare invece alcun riferimento all'omoaffettività; pertanto, dal momento che esistono solo persone eterosessuali, i rapporti omosessuali saranno necessariamente connotati come contro natura. Secondo, nella prospettiva di Israele, la fecondità è questione di vita o di morte, perché gli ebrei erano sempre a rischio di estinzione; la sessualità veniva dunque considerata in funzione della procreazione, con la conseguente stigmatizzazione di tutti gli atti non aperti al dono della vita. Infine, la cultura d'Israele considera l'ordine cosmico voluto da Dio, come un ordine che non possiamo in alcun modo modificare.

Il punto decisivo sta nel chiarire se queste connotazioni culturali siano circoscrivibili a quel contesto, relativizzando in questo modo anche la conseguente condanna degli atti omosessuali, oppure se esse, pur trovandosi in un determinato tessuto culturale, abbiano invece valore universale. I relatori sembrano propendere per la prima ipotesi: «le norme che troviamo in Levitico non sono assolute, ma legate ad un contesto preciso». A rinforzo, viene riportata una citazione del libro Il Corpo e la parola della biblista Rosanna Virgili: «La matrice di queste leggi è evidentemente culturale e non naturale. [...] Pericoloso è cambiare questa loro ragione e renderle leggi di natura». La soluzione non può essere però quella di liquidare questi testi, perché altrimenti saremmo noi a stabilire che cosa vale nella Scrittura e cosa no. E dunque? Dunque, la parola magica è sempre la stessa: occorre discernere, capendo che, spiega suor Giacobbe, «a quelle norme corrispondeva un valore a cui noi magari oggi ci atteniamo in altro modo». La religiosa precisa il proprio pensiero richiamando un altro testo, Una futura morale sessuale cattolica, di don Basilio Petrà, nel quale l'autore, secondo la ricostruzione della relatrice, afferma che «come la schiavitù, dall'essere qualcosa di ritenuto naturale è diventata qualcosa di contro natura, forse si può pensare che sia possibile il passaggio contrario per quanto riguarda l'orientamento omoaffettivo», facendo confusione sia sull'insegnamento della Chiesa sulla schiavitù (vedi qui), sia sul fatto che ad essere contro natura, per la dottrina cattolica, sono gli atti omosessuali, non l'orientamento, che è invece disordinato.

Dunque, la via maestra proposta da don Carrega e suor Giacobbe è piuttosto chiara: i testi biblici vanno decostruiti, in modo tale da aderire al “valore” che essi esprimono, ma non alle norme che essi propongono ed evitando soprattutto la trasposizione da norma culturale a norma naturale assoluta. Non v'è dubbio che vi siano alcune norme veterotestamentarie che la Chiesa ha riconosciuto come circoscritte alla phase vetus, che perciò avevano valore come segno e preparazione e non in senso assoluto; tuttavia, ve ne sono altre di cui la Chiesa ha messo in luce la perennità, in quanto espressione della legge naturale. Il punto grave della relazione sta proprio qui: l'aver dimenticato che il lavoro di comprendere quali siano le une e quali le altre è già stato fatto dal Magistero della Chiesa, che è l'unico ad avere «l'ufficio di interpretare la parola di Dio» (Dei Verbum, 10). Questo testo del Vaticano II è citato proprio nel documento della Pontificia Commissione Biblica richiamato da suor Giacobbe, la quale però ha scordato di riferire il passaggio più importante e decisivo del documento, che, poggiando su Dei Verbum, spiega che «in ultima istanza, è il magistero ad avere il compito di garantire l'autenticità dell'interpretazione e di indicare, se il caso lo richiede, che l'una o l'altra interpretazione particolare è incompatibile con l'autenticità del vangelo. Le deviazioni saranno evitate se l'attualizzazione parte da una corretta interpretazione del testo e si effettua nella corrente Tradizione vivente, sotto la guida del magistero della Chiesa».

È stato un uditore presente in sala a ricordare, al momento delle domande, questo principio dimenticato dalla religiosa, sostenendo che il Magistero ha già fatto questo “discernimento” nel Catechismo della Chiesa Cattolica (e non solo), che si pronuncia apertamente sia sugli atti omosessuali che sull'orientamento affettivo omosessuale (cf. §§ 2357-2359). E, aggiungiamo noi, anche sulla correlazione tra sessualità e procreazione.

Richiamo assolutamente corretto, ma che ha irritato non poco don Giovanni Martini, parroco di Santa Maria al Pignone, anch'egli membro del Coordinamento, il quale ha reagito sparando una stupidaggine colossale: «Se è vero che si può interpretare la Scrittura […] quanto più sarà da interpretare il Catechismo della Chiesa Cattolica, che non è ispirato da Dio». Impegnato a sventolare il documento della Pontificia Commissione Biblica con la mano, don Martini non si è accorto che lì dentro c'è scritto il contrario, ossia che il Magistero è il garante dell'interpretazione dei testi ispirati, e che il Magistero non è affatto soggetto ad un processo di infinita auto-interpretazione che porta a ribaltare i propri insegnamenti.






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