venerdì 31 maggio 2019

Viaggio del Papa in Romania: i martiri del comunismo






di Sandro Magister

30 mag

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Venerdì 31 maggio, papa Francesco partirà per la Romania e domenica 2 giugno, ultimo giorno del suo viaggio, presiederà a Blaj la divina liturgia con la beatificazione di sette vescovi greco-cattolici martirizzati “in odio alla fede” tra il 1950 e il 1970, sotto il dominio comunista.

Questi sette sono solo alcuni dei cristiani di Romania, vescovi, preti, laici, che meritano la corona del martirio.

Un altro fra tanti è Ioan Ploscaru, vescovo, morto del 1998 a 87 anni, di cui quindici passati in prigione in condizioni disumane. Ha affidato il racconto del suo calvario a un libro pubblicato in Romania nel 1993 e poi in Italia nel 2013 dalle Edizioni Dehoniane di Bologna, del quale possono essere letti qui ampi stralci:

> Beati i perseguitati. Il racconto di un moderno martire


E poi c’è l’impressionante testimonianza letta il 23 marzo 2004 in Vaticano da Tertulian Ioan Langa, sacerdote greco-cattolico, ripubblicata qui di seguito per intero.

Nel 2004 padre Tertulian aveva 82 anni. È morto nel 2013. Il suo racconto è concretissimo e insieme spirituale. Un po’ Solgenitsin, un po’ atti dei martiri. Tra grazia e mistero d´iniquità, spinto ai limiti dell’immaginabile. Con la "Santa Provvidenza" che opera per le mani inconsapevoli di efferati aguzzini.

In tempi in cui il martirio è parola abusata, applicata anche agli "shahid" islamisti che si fanno esplodere per fare strage, questa è una testimonianza che aiuta a restituire verità. Assolutamente da non perdere.

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“MA È PIÙ GRANDE IL CIELO SOPRA DI NOI”




di Tertulian Ioan Langa

Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste.

A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell’università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici.

Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell’epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell’accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza.

Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura.

Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti.

Sono stato arrestato a Blaj, nell’ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all’epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l’estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza.

LA VERGA DI FERRO
Ricordo il giovedì santo dell’anno 1948. Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all’interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell’umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell’interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l’annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l’ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell’inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l’inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiosi, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata.

LA LUPA
Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare. Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c’era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l’alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell’edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l’equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio.

Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.

IL SACCHETTO DI SABBIA
Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c’era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell’angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando. Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall’organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l’autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell’unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico.

VENTOTTO CENTIMETRI
Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a otto metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l’uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l’esperienza delle sardine: però non nell’olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l’osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull’anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz’ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l’altro, ci voltavamo sull’altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c’era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all’urina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l’urina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l’odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l’intero organismo e ogni suo orifizio.

IL "FILTRO"
Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l’ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d’egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate. La mancanza d’aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno.

Contribuivamo così, a nostro modo, all’edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?

NUDI NEL GELO
Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L’accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell’uomo creato dall’amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.

Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l’anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All’anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all’incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina.

CAMMINARE O MORIRE
Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall’altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz’ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell’angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi.

Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.

MA TUTTO È GRAZIA
Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, constatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l’ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto.

Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l’hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).

Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia – impazienza benevola di Dio – e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l’uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.















I cattolici in politica e la lezione di Augusto Del Noce




Aldo Maria Valli, 30/05/2019

Nel trentesimo anniversario della morte di Augusto Del Noce (1910 – 1989) il 30 e 31 maggio si tiene a Trieste (Palazzo della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Salone di rappresentanza, piazza dell’Unità d’Italia, 1) il convegno Augusto Del Noce, attualità del suo pensiero, con la partecipazione, fra gli altri, del vescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi, Virginia Coda Nunziante, Roberto de Mattei, Rocco Buttiglione, Renato Cristin, Marcello Veneziani.

Il filosofo cattolico viene ricordato oggi anche a Roma (ore 17:30, Sala San Filippo, via della Chiesa Nuova, 3) con la presentazione del libro di Luca Del Pozzo Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce. Assieme all’autore saranno presenti Gennaro Sangiuliano, Mario Sechi, Federico Mollicone, Luciano Lucarini.


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Sono passati trent’anni dal fatale 1989, quando cadde il Muro di Berlino. E trent’anni fa moriva Augusto Del Noce, il filosofo cattolico che previde la fine del comunismo e l’avvento di una società dominata dal pensiero nichilistico e ateistico. Il Muro fu abbattuto il 9 novembre, Del Noce morì il 30 dicembre. Eppure nei suoi scritti quel passaggio poteva già essere letto: al posto del comunismo il consumismo, al posto delle vecchie ideologie il dilagante edonismo della società sazia e disperata.

Per chi, come il sottoscritto, ha vissuto il pontificato di Karol Wojtyła, la filosofia di Del Noce è stata una guida utile per leggere e interpretare la portata del magistero del papa polacco. Anzi, Del Noce fece in un certo senso da battistrada. Basti pensare che Il suicidio della rivoluzione, il saggio nel quale Del Noce prefigurò il collasso del comunismo, uscì nel 1978, quando in Italia il Pci era fortissimo e proprio l’anno in cui fu eletto Giovanni Paolo II, il papa che al comunismo diede una spallata decisiva.

L’attualità di Del Noce è evidente sotto diversi profili. Soprattutto vide il nuovo totalitarismo che proprio oggi stiamo sperimentando, quello attuato non più con le armi e la repressione da regimi dispotici ma quello, apparentmente non violento, tipico del pensiero unico, dominante nella società ormai pienamente secolarizzata, dove la tirannia ha il volto dell’umanitarismo e l’uomo «liberato» è in realtà schiavo di se stesso, all’interno di una società di massa nella quale la ricerca del piacere è il nuovo oppio dei popoli e il materialismo individualista, che vive solo nel presente, ha la meglio su quello di un tempo, di matrice marxista, che prometteva il paradiso in terra. Annullata la prospettiva del riscatto sociale, eccoci nel regno dell’egoismo utilitarista. Marx in soffitta, Wilhelm Reich (il profeta della rivoluzione sessuale) sugli scudi. Con inevitabile stato di depressione generale.

E poi c’è la riflessione sui cattolici in politica, che si può riassumere in una domanda: quale ruolo per i cattolici in questa società segnata dalla fine delle ideologie e dal dominio del binomio tecnocrazia-consumismo?

La risposta di Del Noce parte dal rifiuto della riduzione del cristianesimo a mero fatto intimo, privo di implicazioni nella storia. La Rivelazione cristiana è un fatto storico e la fede del cristiano si gioca nella storia. C’è dunque una necessità dell’impegno politico del cattolico, il quale non deve cadere nel dualismo religione-politica, ma non deve nemmeno cedere alla tentazione dell’identità di politica e religione. Il rapporto appropriato è quello della distinzione nell’unità. L’autonomia della politica va salvaguardata (no al confessionalismo), ma necessaria è anche la valutazione religiosa, ovvero il giudizio che nasce dalla fede e dall’adesione alla legge divina.

Bastano questi pochi cenni per intuire quanto stimolante possa essere ancora oggi la conoscenza del pensiero di Del Noce. E sotto questo profilo un contributo prezioso viene dal libro di Luca Del Pozzo Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce (Pagine editore, pp. 273, euro 18), opera che proprio prendendo spunto dal trentesimo anniversario della morte vuole mostrare l’attualità del filosofo cattolico sia sotto il profilo speculativo sia per quanto riguarda la traduzione politica della prospettiva cristiana.

Pensatore atipico, di difficile collocazione, Del Noce ha accettato la sfida del confronto con la modernità e ne ha tratto una lezione che va continuamente rimeditata. «Isolando la politica dalla religione, per i cattolici inizia una strada verso il suicidio» disse in un’intervista per Il Sabato nel 1987. Al cattolico non è dato di disinteressarsi della politica né può aggirare la questione di come declinare la visione cristiana in termini politici. Il tutto tenendo sempre ben presente che la storia non è il regno della necessità, ma della libertà.

Proprio a proposito della posizione politica del cattolico il libro di Del Pozzo offre, in appendice, uno scritto di Del Noce, risalente al 1945, nel quale il filosofo scrive: «L’ideale della politica cristiana deve, a mio credere, prospettarsi come un’eterna (nel senso di mai esaurita; il cristiano è sempre in lotta) restaurazione dei principi (da non confondere con la “restaurazione di fatti” propria della reazione) nel loro carattere eterno». «La “fedeltà” del cristiano assume così un significato nuovo; non più fedeltà a fatti e a istituti storici, dunque spirito di passività e negazione di critica; ma fedeltà a soprastorici principi, e perciò fedeltà creatrice, creatrice di soluzioni nuove alla problematica sempre nuova che l’esperienza storica offre». Dunque destra o sinistra? Né l’una né l’altra, risponde Del Noce, bensì centro, non nel senso di «compromesso» e di «politica flaccida priva di ideale», ma nel senso, appunto, di continua «restaurazione di principi».

È solo un piccolissimo assaggio, ma fornisce già tanti spunti di riflessione.

Aldo Maria Valli













giovedì 30 maggio 2019

Oggi giovedì 30 maggio Ascensione del Signore





“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 11). Le parole dei due angeli che apparvero ai discepoli mentre questi stavano ancora cercando di scorgere la gloria di Cristo, sottratto al loro sguardo da una nube, chiudono il racconto biblico dell’Ascensione del Signore, l’evento che segna l’inizio della missione della Chiesa.

Nel 1977 il Vaticano accettò di sopprimere diverse festività religione tra cui quella dell'Ascensione di Nostro Signore.



Luisella Scrosati, 13-05-2018

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 11). Le parole dei due angeli che apparvero ai discepoli mentre questi stavano ancora cercando di scorgere la gloria di Cristo, sottratto al loro sguardo da una nube, chiudono il racconto biblico dell’Ascensione del Signore, l’evento che segna l’inizio della missione della Chiesa. È ricco di significato il fatto che Gesù ritorni al Padre ascendendo proprio dalla sommità del Monte degli Ulivi, dove si era compiuto il mistero doloroso del suo totale abbandono alla volontà dello stesso Padre, caricando sulla sua sacra umanità, grondante sudore di sangue, il peso dei peccati degli uomini di tutti i tempi. L’Ascensione è il completamento glorioso di quel mistero: il corpo di Gesù, insieme alla sua anima e alla sua divinità, entra definitivamente nella gloria divina e indica la strada a chi lo ama.

Negli Atti degli Apostoli, Luca scrive che Gesù Risorto apparve per quaranta giorni ai discepoli, dando loro le ultime istruzioni sul Regno di Dio e preannunciando il compimento di un altro mistero glorioso, la Pentecoste: “[…] avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samarìa e fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). Già nell’Ultima Cena, Gesù aveva spiegato agli apostoli la necessità del suo distacco visibile per essere riempiti di Spirito Santo (“è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”) e aveva profetizzato che la proclamazione del Vangelo sarebbe stata accompagnata dalle persecuzioni. Allo stesso tempo Pietro e compagni erano stati edotti sul fine ultimo di tutto il disegno divino, racchiuso sempre nelle parole di Gesù: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. […] Io vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2).

La glorificazione di Gesù è perciò il preludio alla glorificazione delle membra del suo Corpo Mistico, la Chiesa, chiamata a proseguire la sua missione sulla terra, forte della promessa da Lui fatta nel giorno in cui proclamò il primato di Pietro: “E le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). Una promessa che contiene l’annuncio della battaglia destinata a proseguire fino alla fine del mondo, nonché della scelta - tra Dio e il Nemico, tra la sua Parola e la menzogna - che ogni anima dovrà affrontare. La beatitudine eterna è la ricompensa per coloro che vinceranno il proprio combattimento spirituale e guadagneranno un posto in Paradiso, dove ci attende il Figlio che “siede alla destra del Padre”, come professiamo nel Credo e leggiamo nelle Sacre Scritture. Ben sapendo che Gesù si è reso perennemente e realmente presente nell’Eucaristia, nutrimento salvifico in vista dei beni della Gerusalemme Celeste, e sulla croce ha esortato i suoi figli ad affidarsi a Maria.

La celebrazione liturgica dell’Ascensione ha origini antichissime ed è attestata dal IV secolo. Cadendo quaranta giorni dopo la Pasqua, la solennità dell’Ascensione si celebra il giovedì della sesta settimana del Tempo Pasquale oppure, nei Paesi dove non è festività civile (in Italia non lo è più dal 1977, nonostante i diversi disegni di legge presentati in Parlamento per reintrodurre le festività soppresse), è posticipata alla domenica successiva. In passato, nei tre giorni precedenti l’Ascensione erano diffusissime le Rogazioni, oggi purtroppo in disuso ma mai abolite. Furono introdotte nel V secolo, dopo una serie di calamità naturali, da san Mamerto di Vienne, che pensò a un meraviglioso triduo di preghiere, digiuni e processioni solenni, per chiedere con fiducia il favore di Dio. Sarebbe bello riscoprirle.








martedì 28 maggio 2019

Eutanasia in Italia: a farne le spese sarebbero soprattutto i disabili




Luca Marcolivio, 27/05/2019
C’è una maggioranza silenziosa di medici italiani che continua a credere nella cura del malato
grave, fino alla sua morte naturale. Il nucleo centrale della questione rimane sempre la fiducia tra medico, da un lato, paziente e familiari dall’altro: se questa alleanza è solida, il diritto alla vita non sarà mai messo in discussione. Fondamentale è anche sgombrare il campo da un equivoco: vi sono molti pazienti le cui condizioni richiedono molte cure ma che non possono essere assolutamente definiti “terminali”. L’eugenetica che silenziosamente si sta insinuando nei sistemi sanitari nazionali – compreso quello italiano, dove in genere l’attenzione umana al paziente è encomiabile – ha come prime vittime i disabili.

«L’azione discriminatoria nei confronti del paziente disabile viene attestata dal fatto che viene sospesa l’alimentazione non perché si è aggravata la malattia ma solo perché disabile», conferma la dottoressa Matilde Leonardi, direttore del Centro ricerche sul coma, dell’Istituto neurologico Besta di Milano, intervistata da Avvenire. «L’Italia dovrebbe chiamarsi fuori da ragionamenti che non appartengono alla nostra cultura. Chi invece vuole sospendere i trattamenti lo fa per pregiudizi ideologici verso i disabili».

Avvenire riporta quindi le testimonianze di altri medici, come Rita Formisano, direttore dell’Unità neuroriabilitazione e post-coma della Fondazione Santa Lucia di Roma, che racconta: «Nella mia esperienza di 35 anni non è mai capitato che un familiare mi chiedesse di interrompere idratazione e nutrizione. Al contrario, purtroppo», puntualizza la dottoressa Formisano, «non è raro che ci siano rimpianti o rivendicazioni da parte dei familiari nei pochi casi in cui non siamo riusciti ad aiutare questi pazienti».

C’è chi, come Lucia Lucca, responsabile dell’Unità di risveglio dell’Istituto Sant’Anna di Crotone, suggerisce di incentivare l’«assistenza a domicilio» per quei pazienti che «grazie alle nuove capacità di rianimazione», riescono a sopravvivere per anni in stato vegetativo o di coma vigile. «Come società dovremmo farcene tutti carico», afferma la dottoressa Lucca.

Secondo Francesco Napolitano, vicepresidente della Federazione nazionale associazioni trauma cranico (Fnatc) e presidente dell’associazione Risveglio, nelle situazioni di stato vegetativo o di minima coscienza «certamente non c’è alcuna ragione né clinica né etica che possa giustificare di porre fine a questa vita» ma soltanto «volontà dettate da un’ideologia». Molti di questi pazienti, di cui si vorrebbe mettere fine alla vita, infatti, potrebbero avere «ancora tanti anni davanti, in una situazione la cui evoluzione è imprevedibile».

Le persone con gravi lesioni cerebrali, quasi sempre, reagiscono agli stimoli neurologici e, spesso, sono in grado di comunicare. Costoro, spiega Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi del Centro don Orione di Bergamo, «non hanno bisogno di alcun supporto tecnologico» ma solo «di relazione di cura fatta di alimentazione, igiene, vestizione». Ve ne sono tanti che sopravvivono in queste condizioni per molti anni, grazie all’assistenza del personale medico e all’affetto dei familiari. «In 20 anni di esperienza in questa struttura non è mai venuto nessuno a chiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione per loro», ha confidato il dottor Guizzetti.








domenica 26 maggio 2019

Pellegrinaggio a Boccadirio il 22 giugno







«Carlo Acutis, ecco quale fu il suo segreto di santità»



Ormai noto in tutto il mondo, grazie anche alla sua straordinaria mostra sui Miracoli Eucaristici, che ha avvicinato a Dio centinaia di persone, il venerabile Acutis era un ragazzino normale, ma con un segreto straordinario. "Nell'Eucaristia Carlo incontrava Gesù vivo e vero e Gesù stesso, giorno dopo giorno, lo faceva sempre più simile a Lui. Fino a donare la sua vita per puro amore!". Parla la mamma, Antonia Salzano Acutis, che ci racconta del piccolo bambino eucaristico cresciuto al suo fianco. 





Costanza Signorelli, 26-05-2019

Salito al Cielo il 12 ottobre del 2006 per una leucemia fulminante, il giovane Carlo Acutis, di soli 15 anni, lascia questo mondo con il volto luminoso e trasfigurato. Dopo che, fino all'ultimo respiro, ha offerto tutte le sue sofferenze per il Papa, per la Chiesa e per la salvezza delle anime.

Mentre il suo processo di beatificazione procede spedito, il corpo del venerabile è stato recentemente traslato ad Assisi, all’interno del Santuario della Spoliazione, dove San Francesco si spogliò di tutti i suoi beni per esprimere la sua piena conformazione a Cristo.

Seppur il poverello di Assisi fosse uno dei maestri di santità più cari al giovane Carlo, le ragioni di questa scelta sono assai più profonde: “E’ tempo che il popolo di Dio prenda coscienza che la nostra vocazione comune è diventare Santi. Carlo dimostra che la santità è davvero una vocazione comune e possibile”. Così l'arcivescovo Domenico Sorrentino, ha introdotto la cerimonia di traslazione alla presenza di una folla di devoti, soprattutto giovani.

Per conoscere più da vicino questo "Santo giovane" dei giorni nostri, La Nuova Bqha intervistato la mamma, Antonia Acutis, volendo approfondire con lei un aspetto in particolare: lo specialissimo rapporto di Carlo con Gesù Eucaristia, che è stato sostanza e nutrimento del suo desiderio di santità.

Come nasce l’incredibile amore di Carlo per Gesù Eucaristia?La grande devozione di Carlo per l’Eucaristia cominciò sin da piccolissimo. A soli sette anni ebbe il permesso di ricevere la prima Comunione e da quel momento iniziò ad andare a Messa tutti i giorni. Ogni volta che riceveva l’Ostia consacrata, recitava questa giaculatoria: “Gesù, accomodati pure! Fa come se fossi a casa tua!”.


Carlo amava anche fare l’Adorazione Eucaristica, ci può raccontare come pregava?[Nella foto a destra, Carlo da bambino ]
Per prepararsi all’incontro con Gesù, Carlo faceva tutti i giorni o prima o dopo la Messa un poco di Adorazione Eucaristica. Diceva sempre che “davanti al sole ci si abbronza, ma davanti all’Eucaristia si diventa santi!”. Carlo ripeteva a tutti che noi siamo molto più fortunati di coloro che vissero duemila anni fa accanto a Gesù, perché quelle persone, per toccare Gesù e parlare con lui, dovevano fare lunghi tragitti e comunque erano limitate dal tempo e dallo spazio. Noi invece Gesù lo abbiamo sempre con noi! Basta andare nella chiesa più vicina a dove abitiamo: Gerusalemme l’abbiamo sotto casa!

Da questa sua consapevolezza viene la sua frase, ormai famosa: “L’Eucaristia è la mia autostrada per il Cielo!” …Carlo definiva l’Eucaristia “la mia autostrada per il Cielo”, in quanto per lui era davvero un farmaco, era la sua “medicina” per diventare santo. Carlo amava ricordare che lo stesso Gesù definisce se stesso come “quel pane vivo disceso dal Cielo che se uno mangia vivrà in eterno”.

In che senso, può spiegare?Scriveva Carlo: “Una vita sarà veramente bella solo se si arriverà ad amare Dio sopra ogni cosa” e per fare questo abbiamo bisogno dell’aiuto stesso di Dio, cioè dei Suoi sacramenti. Ed è proprio nel sacramento dell’Eucaristia che Dio ci dona quello stesso amore che Gesù̀ ha avuto per i suoi, fino a donare la sua vita per la nostra salvezza. L’Eucaristia è il sacramento attraverso il quale Dio continuamente ci aiuta a diventare quello che nella sua mente potenzialmente già siamo. Ecco allora che l’Eucaristia assomiglia al mangiare quotidiano: se la nostra vita fisica, per sussistere, ha continuamente bisogno di nutrimento, lo stesso vale per la nostra vita spirituale. Per questo Carlo ci teneva moltissimo a far comprendere alle persone l’importanza di questo sacramento: “Gesù è l’Amore e più ci nutriremo dell’Eucaristia, che contiene realmente Dio con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, più aumenteremo anche noi le nostre capacità di amare! L’Eucaristia ci configurerà in modo unico a Dio, che è Amore".

Per il piccolo Carlo la santità era un desiderio reale?Di più. Carlo era profondamente convinto che tutti noi siamo chiamati a diventare santi. Famosa è la sua frase: “Tutti nascono originali ma molti muoiono fotocopie”. Lo stesso Papa Francesco ha voluto citarla nella sua Cristus vivit proponendo Carlo come modello per i giovani. Per Carlo l’Eucaristia è il mezzo più efficace per preservare questa nostra originalità e corrispondere a quel progetto unico e irripetibile che Dio ha pensato per ognuno di noi, sin dall’eternità. A conferma di questo Carlo amava molto citare la figura di San Giovanni, l’apostolo prediletto, che nell’Ultima cena posa il capo sul petto di Gesù, sede del suo Cuore e da sempre identificato dalla Chiesa come simbolo del Sacramento dell’Eucaristia. In quel gesto compiuto da Giovanni di poggiare il capo sul petto di Gesù, Carlo vedeva una chiamata eucaristica. Una vera e propria prefigurazione indirizzata a tutti gli uomini, di tutti i tempi, per diventare discepoli prediletti di Gesù.


Il tema del cuore di Gesù nell’Eucaristia è un tema centrale per Carlo: è proprio su questo mistero che si sviluppa gran parte della sua mostra sui miracoli eucaristici. Come gli venne l’idea di questa mostra?[Nella foto, Antonia Acutis]
Carlo a 11 anni iniziò a fare l’aiuto catechista, esperienza che lo aiutò a comprendere quanta indifferenza ci fosse di fronte al Santissimo Sacramento. Lui si era davvero stupito di questo ed era rimasto molto addolorato. Si domandava spesso: “Com’è possibile che davanti ad un concerto rock, o a una partita di calcio, ci siano file interminabili di persone e poi davanti al Tabernacolo dove è presente realmente Dio, si vedano così poche persone?”. Proprio per aiutare gli altri ad entrare nel Mistero Eucaristico, Carlo progettò la Mostra sui Miracoli Eucaristici che ad oggi è stata ospitata in tutti i Continenti ed ha aiuto centinaia di persone a riavvicinarsi a Dio. Carlo amava ricordare il segno che ci ha lasciato il Signore nel miracolo di Lanciano, dove l’Ostia consacrata, trasformatasi in carne, risultò essere una sezione del miocardio. Questo era un segno importantissimo per Carlo: infatti, senza questo speciale muscolo il cuore non batterebbe, esso dà la vita a tutto il nostro organismo, proprio come fa l’Eucaristia con la Chiesa. Inoltre, Carlo diceva che questa chiamata a diventare intimi discepoli di Gesù, attraverso l’incontro frequente con il Signore nell’Eucaristia, è ancora più evidente nel racconto della crocifissione. Sotto la croce, sul Golgota, infatti, oltre alla Madonna e alle pie donne, troviamo di nuovo san Giovanni, il discepolo amato, mentre tutti gli altri discepoli erano fuggiti. Anche qui Giovanni ci indica l’Eucaristia come via privilegiata di unione con Dio. “Se ci riflettiamo bene - diceva Carlo- quel sacrifico della croce avvenuto duemila anni fa si ripresenta in modo incruento in tutte le Messe che ogni giorno vengono celebrate. Come Giovanni, anche noi possiamo associarci a quello stesso sacrificio della croce e dimostrare così il nostro amore a Dio partecipando ogni giorno alla santa Messa. Non possiamo ignorare l’invito di Gesù ad unirci a Lui!”

Questa mostra, ad oggi, ha fatto il giro del mondo, diventando in poco tempo il punto di riferimento internazionale per lo studio sui miracoli eucaristici. La mostra arrivò anche a Fatima di cui, pochi giorni fa, abbiamo festeggiato l’anniversario. Come accadde?Carlo è morto nel 2006 e nel 2007 la sua mostra venne ospitata nel Santuario di Fatima, in occasione dell’anniversario della morte di Francisco Marto, uno dei tre veggenti. Noi sappiamo bene quanto il pastorello di Fatima fosse devoto alla Santissima Eucaristia, che lui chiamava “Gesù nascosto”, proprio riferendosi all’Ostia Santa nel Tabernacolo. Ebbene, il fatto che a pochi mesi dalla morte di Carlo, la sua mostra sia stata ospitata proprio per omaggiare questo Santo bambino eucaristico, ecco, per me è stato un segno, è come se i due “amici” si fossero parlati in Cielo.

Carlo era particolarmente devoto a Fatima, perché?Carlo era molto legato alle apparizioni della Madonna a Fatima, diceva che qui la Madonna, nei suoi messaggi ci regala una catechesi completa, a 360°. Guardando a Fatima, infatti, ritroviamo tutta la nostra fede riassunta. Era anche molto devoto ai pastorelli, che considerava come amici veri ed esempi di santità. Carlo diceva che quelle di Fatima sono apparizioni profondamente eucaristiche: esse furono infatti precedute nel 1916 dalle visite dell’Angelo che chiese ai bambini di offrire preghiere e sacrifici in riparazione degli oltraggi, dei sacrilegi e delle indifferenze contro il Santissimo Sacramento. Intenzioni che Carlo, come i pastorelli, fece completamente sue.

Così come fece suo l’amore totale per la Madonna…Carlo definiva la Madonna “l’unica donna della sua vita” e pregava il Santo Rosario ogni giorno considerandolo “l’appuntamento più galante della sua giornata”. Maria, primo Tabernacolo della storia, nonché Tabernacolo perfetto, “va imitata in tutte le sue virtù e specialmente – diceva Carlo – nel modo in cui accolse Dio dentro di sé. Anche noi, come Lei, dobbiamo diventare Tabernacoli di Dio!”

Un’ultima domanda: quale fu il frutto più concreto ed evidente che l’Eucaristia produsse in Carlo?Senza alcun dubbio la carità. Carlo davvero si donava a tutti senza riserve, lui si consumava per amore del prossimo. Dai poveri, a cui portava da mangiare ogni sera, ai senza tetto, a cui comprava le coperte e i sacchi a pelo con i suoi risparmi. Dai compagni di scuola, che aiutava a studiare, agli amici che lo cercavano sempre per avere conforto e compagnia vera. Dai bambini del catechismo, che seguiva con grandissima dedizione, ai ragazzi del liceo con cui si incontrava e si scontrava per cercare con passione la verità. Ma nonostante la sua estrema concretezza e il suo totale impegno nella realtà, per Carlo la cosa più importante rimaneva la salvezza delle anime. Per questo non vi era per lui nulla di più importante che la Santa Messa e l’Eucaristia, ove ogni giorno Carlo poteva unirsi a Gesù che si offre in sacrificio per il mondo intero.

[La storia intera di Carlo Acutis è raccontata nel libro "Il Chicco di Grano. "Santi giovani" in mezzo a noi" ]




fonte






sabato 25 maggio 2019

Padre Fournier: “Era necessario salvare la Corona di Spine, ma che tutto questo ha senso solo se è legato alla Presenza Reale. Senza di essa, tutto questo è una completa assurdità.”



padre Fournier Jean-Marc cappellano dei pompieri di Parigi





By Sabino Paciolla|Maggio 24th, 2019

Mentre il mondo intero guardava le foto e i video di Notre Dame che bruciava il 15 aprile, il volto di padre Jean-Marc Fournier si associava indelebilmente al terribile incendio del primo giorno della Settimana Santa.

È un’immagine di eroismo e di speranza impressa nella mente di milioni di persone, grazie al coraggio che questo sacerdote francese ha dimostrato nel partecipare al salvataggio del Santissimo Sacramento, della Corona di spine e della tunica di San Luigi, e nel guidare i vigili del fuoco attraverso cappelle e corridoi, mentre le fiamme avevano già consumato una parte significativa della cattedrale.

Nato nel 1966, padre Fournier è stato ordinato sacerdote nel 1994 e si è unito alle forze francesi in Afghanistan negli anni 2000. Qui, ha perso 10 compagni durante l’Agguato della Valle Uzbin nel 2008. Nel 2011, è tornato in Francia, dove si è unito ai Vigili del fuoco di Parigi come cappellano.

Nel 2015, viene chiamato sulle scene di tre terribili attentati terroristici avvenuti a Parigi in quell’anno: la sparatoria al giornale satirico Charlie Hebdo, seguita dall’assedio del supermercato Hypercacher kosher, e, il 13 novembre dello stesso anno, partecipa all’evacuazione dei feriti dell’attentato teatrale di Bataclan, mentre la sparatoria era in corso. Durante l’evento, è stato visto pregare davanti ai corpi delle vittime e offrire un’assoluzione collettiva ai feriti.

In un’intervista al National Catholic Register di Parigi, padre Fournier ha parlato della sua missione con le vittime di catastrofi, del suo frequente contatto con il dolore e la morte, e di come la sua fede gli abbia dato la forza di affrontare le situazioni più difficili.



Notre dame de Paris – interno dopo l’incendio





(Un articolo di Solène Tadié nella mia traduzione)

Ha aiutato a salvare le sante reliquie della Passione e del Santissimo Sacramento, con grande rischio per lei stesso. Come spiegherebbe un gesto del genere alle tante persone per le quali la fede significa poco oggi nei Paesi occidentali?
Per noi cristiani, tutte le reliquie legate alla passione di nostro Signore Gesù Cristo sono di straordinaria importanza. A volte servono segni tangibili. Siamo un po’ come quei farisei, che chiesero a Gesù di dare loro un segno. E Gesù rispose che non aveva smesso di dare segni. Non abbiamo bisogno di questo per credere, ma è anche vero che ogni elemento aggiuntivo [che indichi la credibilità della fede] è prezioso.

È noto che siamo gli unici a venerare una tomba vuota. E, per fortuna, è vuota – perché se Gesù non fosse risorto dai morti, come ci ricorda san Paolo, la nostra fede sarebbe vana. Abbiamo allo stesso tempo una tomba vuota, ma anche simboli molto forti di questo tempo di salvezza, cioè la Sindone di Torino e la Corona di Spine. Questo simbolo intimo sostiene la fede dei cristiani. Allora siamo anche parte della grande storia che va oltre ogni caccia alle reliquie e che ha coperto l’intero periodo medievale. È il re Luigi VII che acquistò queste preziose reliquie e dette alcune spine ad alcune figure di spicco della storia. Contribuì anche alla costruzione del più bel monumento parigino [Cattedrale di Notre Dame] per onorare queste preziose reliquie. Per queste ragioni, è stato così importante per me intraprendere azioni positive per la loro conservazione.



Lei è stato assediato dai media di tutto il mondo dal momento dell’incendio. Come è riuscito a gestire una popolarità così forte?
Ho la fortuna di essere preservato, sia per mia natura, ma anche perché lo status militare mi protegge. Siamo vincolati al dovere di riservatezza, il che significa che parliamo molto poco. Poi tutto è sotto il controllo degli ufficiali di comunicazione; quindi, le cose sono molto regolamentate. Dopo l’incendio, riceviamo richieste dai media di tutto il mondo. Penso che l’unico paese che non ci ha chiamato per ottenere informazioni sia la Corea del Nord! Ma la brigata ha concesso pochissime interviste. Il motto dei vigili del fuoco è “Salva o Muori”. Questo dimostra abbastanza bene il nostro impegno. Proteggiamo non solo le persone, ma anche la proprietà.

Abbiamo un altro motto: “Altruismo, efficienza e discrezione”. E a volte aggiungiamo la parola “Umiltà”. Lo teniamo sempre presente. Così, quando abbiamo dei dubbi in alcune situazioni, queste tre parole ci aiutano ad affrontare con più serenità tempi difficili come questo.



Potremmo dire che lei ha una certa familiarità con i tempi difficili. E’ stato chiamato sulle scene di tre dei principali attentati terroristici di Parigi nel 2015. Prima di questo, lei era in Afghanistan durante l’imboscata nella valle di Uzbin nel 2008. Qual è stato il suo ruolo concreto in tutte queste tragedie?
Ho perso 10 amici in Afghanistan. Il XXI secolo è un secolo incredibilmente difficile. Anche i secoli passati sono stati complicati, ma questo è senza dubbio quello che sta vivendo le trasformazioni più radicali. Dopo l’imboscata della valle di Uzbin del 2008, pensavo davvero che ci fosse un prima e dopo di Uzbin. Quando ho sepolto i miei amici, ho pensato che si sarebbe fermato lì. Ma quando mi sono unito ai vigili del fuoco a Parigi, quando è avvenuto il terribile massacro di Charlie Hebdo, ho anche pensato che sarebbe stato un punto di svolta. Poi avvenne l’assedio al supermercato Hypercacher kosher e, infine, l’attacco al Bataclan. Sono intervenuto come cappellano dei vigili del fuoco.

Quando vengo chiamato sulla scena di un disastro, guardo prima il tipo di comunità con cui ho a che fare, e potrei chiedere a persone di altre religioni di aiutarmi. Mi assicuro quindi che i miei compagni vigili del fuoco non siano feriti, fisicamente o spiritualmente, perché le ferite invisibili possono essere ancora più profonde. Sono una sorta di primo collegamento con l’unità di supporto psicologico, perché non sempre fanno la prima mossa. Infine, mi occupo di altre persone presenti sulla scena, che non sono necessariamente direttamente interessate, ma che hanno bisogno di essere [supportate]. A volte si può essere [la fonte] di un po’ di pace in un oceano di dolore.



Come trova la forza di continuare sempre?
Mi sento solo un pellegrino su questa terra. Ricordo questa frase di San Paolo: “Cos’hai che non hai ricevuto?” (1 Corinzi 4). Sappiamo che tutto il mondo circostante è solo transitorio – ci muoviamo verso l’eternità. Ma non avremo l’eternità su questa terra. Se si dice che i medici, gli infermieri e tutti coloro che devono affrontare situazioni difficili sono in grado di proteggersi dal dolore nel tempo, non è il caso dei sacerdoti. Non siamo mai in grado di staccarci da questo dolore.

Viviamo in una reale empatia e compassione con le persone. Abbiamo questa reale opportunità di vivere l’Incarnazione, e in questo senso, Nostro Signore ci invita a piangere con chi piange, a ridere con chi ride. Con il fenomeno della morte, viviamo due cose separate. Piangiamo la perdita di una persona cara, proprio come Cristo ha fatto con il suo amico Lazzaro; ma allo stesso tempo, celebriamo la gioia dell’ingresso nella speranza. Molto spesso, essere cattolico significa raccogliere due cose opposte allo stesso tempo, cioè risolvere paradossi apparenti che sono irriducibili per la maggior parte dei nostri coetanei. Per chi non ha fede, tutte queste cose sono del tutto incomprensibili.



Ma ha notato che in qualche modo la sua presenza tra le vittime ha avuto un impatto sulle persone, soprattutto sui non credenti?
Quello che vedo è che, in modo retrospettivo, quando leggiamo il Vangelo, comprendiamo che la parola di Dio è come un fuoco divoratore che attraversa la terra in un istante. C’è stato un gran numero di chiese che hanno bruciato dall’inizio dell’anno, così mi sono chiesto perché, all’improvviso, oltre la Corona di Spine, la notizia dell’incendio di Notre Dame si è diffusa in tutto il mondo, proprio come con il colonnello francese Arnaud Beltrame [il coraggioso cattolico che fu ucciso dopo essersi dato in cambio di un ostaggio durante un attentato terroristico a Trèbes nel 2018].

Nelle nostre società, notevolmente segnate dal materialismo ateo e dalla cultura della morte, le persone hanno bisogno di percepire qualcosa di bello, qualcosa che possa ridare vita quotidiana. Il fatto di rendersi conto che, in qualche modo, il sacrificio è ancora possibile, che si è pronti a mettersi in pericolo per qualcosa che non sembra avere alcun interesse [per quella persona], qualcosa, come direbbe San Paolo, “che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili pazzia” (1 Corinzi 1,23), suscita interrogativi personali.

Oggi c’è un’aspirazione profonda. Per tanti anni, l’umanità nella sua stragrande maggioranza è stata mantenuta in uno stato di denutrizione spirituale cronica. Pensate a Gesù: Ha iniziato a guarire i corpi e poi le anime. Quando sono andato al teatro Bataclan, per esempio, ho iniziato con un’ora di primo soccorso alle vittime. Ho preso tutto l’addestramento necessario per unirmi ai vigili del fuoco. Dopo essermi preso cura dei corpi, potevo iniziare ad aiutare i sopravvissuti a dare un senso alle cose che li circondano.



Il mondo intero era in fiamme di solidarietà mentre Notre Dame bruciava. E’ perché la gente sente che incarna più di un patrimonio culturale?
Potrei solo fare riferimento alla bella omelia pasquale dell’arcivescovo Michel Aupetit di Parigi. Ha detto che era necessario salvare la cattedrale, che è stata costruita con un incredibile genio architettonico, e che era necessario salvare anche il tesoro, perché è il frutto sia di favolosi artigiani che di fede. Diceva che era necessario salvare la Corona di Spine, ma che tutto questo ha senso solo se è legato alla Presenza Reale. Senza di essa, tutto questo è una completa assurdità.

Così la cattedrale deve essere vista secondo due diversi livelli: l’ordine naturale, che appare ex nihilo (dal nulla, ndr), e che è chiamato ad essere profondamente trasformato nel tempo; e poi si ha un ordine soprannaturale, prima con la grazia e poi con la gloria. Questi due livelli sono complementari, ma non hanno la stessa natura.

Ma attraverso questo evento, ho notato un desiderio universale di vedere la vita trionfare sulla morte. Spiega anche il fenomeno del transumanesimo, che esprime il desiderio dell’umanità di vincere la morte. Alcuni mezzi naturali si stanno sviluppando proprio perché le persone non hanno più accesso a mezzi soprannaturali, perché rifiutano [questi mezzi] o perché nessuno ha mai dato loro la possibilità di conoscerli.



Cosa si aspetta per il futuro di Notre Dame?
Concretamente, mi aspetto un rinnovamento della cattedrale – non semplicemente attraverso il concorso architettonico lanciato dal governo francese! Dobbiamo ricordare che Notre Dame è una cattedrale, e questo è un luogo di culto. In questo senso, l’arcivescovo di Parigi ha ragione nel dire che è disposto a tornare a celebrare la Messa in cattedrale il più presto possibile, dato che le cappelle laterali sono accessibili. Insisto ancora una volta sul fatto che tutto questo ha senso a causa della Presenza Reale di Nostro Signore all’interno del monumento. Poiché lo capiamo, non vedo alcun problema nel fatto che gli esteti di tutto il mondo ammirano l’architettura della cattedrale. Ma non dimentichiamo che l’arte religiosa è un modo per condurci alla Verità. La bellezza è una via educativa che conduce alla Verità, a Dio.



Molti cattolici sono preoccupati per l’evoluzione della ricostruzione della cattedrale, come ha annunciato il governo francese “un gesto architettonico contemporaneo”. Condivide questa preoccupazione?
Il semplice fatto di alzarsi la mattina è un grosso rischio. ….. Mettiamo [le questioni di architettura] nelle mani di Dio!



Cosa direbbe a tutti coloro che hanno espresso la loro indignazione per le enormi somme di denaro che sono venute da tutto il mondo per ricostruire Notre Dame, dicendo che sarebbe stato meglio darlo ai poveri?
Li rimando a quello che Gesù disse quando Giuda si sorprese del fatto che gli fosse stato gettato sui piedi un profumo di lavanda molto costoso. Disse: “Avrete sempre i poveri tra voi, ma non sempre avrete me” (Gv 12,8). L’evangelista disse che…..dato che il diavolo aveva già afferrato il cuore di Giuda, poiché era già un ladro: Rubava dalla cassa. Dovremmo mettere in discussione la purezza delle intenzioni di coloro che fanno tali commenti. Ma allo stesso tempo, non significa che tali osservazioni siano [del tutto impertinenti]. Facciamo un esempio.

Dal X secolo, subito dopo l’età del ferro, la Francia si coprì di un manto bianco grazie al cristianesimo – chiese e cattedrali furono costruite in tutto il paese. Tuttavia, c’erano molte più persone povere di oggi. All’epoca non c’era nessuna protezione sociale o qualsiasi altra di questo tipo. In questi edifici sono stati investiti ingenti somme di denaro. Ma non costava molto allo Stato, perché c’erano soprattutto donazioni private, come avviene oggi con Notre Dame. Vorrei attirare la sua attenzione sul fatto che prima che la Chiesa di Francia fosse espropriata [con la caduta della monarchia francese] nel 1792 e poi [di nuovo] nel 1905 [quando il governo francese approvò la legge della separazione tra Stato e Chiesa], lei stessa conservava il suo patrimonio.

E, alla fine, tutto il denaro che viene dedicato alla costruzione della chiesa serve i poveri, per due motivi. Innanzitutto, perché uno che è povero non significa che non possa avere accesso alla bellezza, alle cose che edificano e fanno fiorire l’anima. Ciò che i poveri non potrebbero permettersi di comprare per le loro case, possono avervi accesso in una chiesa.

La seconda cosa da tenere presente è che la Chiesa si è sempre occupata dei poveri nel corso dei secoli. Furono costruite bellissime chiese, ma il cristianesimo costruì anche L’Hôtel-Dieu de Paris, un luogo dove i più poveri potevano essere curati.

Il problema è che, oggi, lo Stato si è impossessato della Cattedrale di Notre Dame, così come della cura dei poveri, che una volta erano [ambedue] prerogativa della Chiesa. Causa confusione al giorno d’oggi.



Come vi ha ispirato l’immagine della croce luminosa che si trovava tra i rottami il giorno dopo l’incendio?
Il mondo intero notò la croce e ne fu colpito. Mi ricorda la vittoria della battaglia di Tolbiac, nel 506, quando una croce apparve nel cielo. Proprio come nelle Scritture, c’è un senso storico comune, e poi ci sono altri sensi spirituali profondi che bisogna identificare.


Fonte: National Catholic Register








venerdì 24 maggio 2019

CARDINALE SARAH: “Benedetto XVI, vero padre e dottore della Chiesa. La sua parola ci conforta e ci rassicura”





UNA LUCE NELLA NOTTE. AL CUORE DELLA CRISI DEGLI ABUSI SUI MINORI, LO SGUARDO DI BENEDETTO XVI SULLA CHIESA.

Vi presentiamo la traduzione dell’intera conferenza tenutasi, in francese, a Roma presso il Centro di St. Louis, il 14 maggio 2019, da SE il Cardinale Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.



Signora Ambasciatrice, Eminenze, Eccellenze, Signore e Signori, Cari amici,

Permettetemi innanzitutto di ringraziarvi per questo invito nel prestigioso Istituto Francese Centro St. Louis in occasione della pubblicazione in francese del mio libro “Le soir approche et déjà le jour baisse” Questo libro analizza la crisi della fede, la crisi sacerdotale, la crisi della Chiesa, la crisi dell’antropologia cristiana, il collasso spirituale e la decadenza morale dell’Occidente e tutte le loro conseguenze.

Sono molto onorato di poter unirmi umilmente nella linea dei teologi cattolici francesi e dei pensatori che hanno illustrato la vita intellettuale romana.

Eppure stasera non vi parlerò di questo libro. In effetti, le idee più fondamentali che ho sviluppato lì sono state illustrate, esposte e dimostrate con brio lo scorso aprile da Papa Benedetto XVI nelle note che aveva scritto per il Vertice dei presidenti delle Conferenze episcopali sugli abusi sessuali, convocato a Roma da Papa Francesco dal 21 al 24 febbraio. Il Papa emerito pubblicò questi appunti su una rivista bavarese, con l’accordo del Santo Padre e del Cardinale Segretario di Stato.

Ma la sua riflessione è stata una vera fonte di luce nella notte della fede che tocca tutta la Chiesa. Ha suscitato reazioni che a volte sfiorano l’isteria intellettuale. Sono stato personalmente colpito dall’indigenza e dalla stupidità di molti commenti. Bisogna credere che ancora una volta, il teologo Ratzinger, la cui statura è quella di un vero “Padre e Dottore della Chiesa”, ha mirato giusto e ha toccato il nucleo centrale della crisi della Chiesa.

Quindi stasera vorrei lasciarci illuminare da questo pensiero esigente e luminoso. Come potremmo riassumere la tesi di Benedetto XVI? Lasciatemi solo citare: “Perché la pedofilia ha raggiunto proporzioni simili? In ultima analisi, la ragione è l’assenza di Dio “(III, 1). Questo è il principio architettonico di tutta la riflessione del Papa Emerito. Questa è la conclusione della sua lunga dimostrazione. Questo è il punto dal quale ogni ricerca sullo scandalo degli abusi sessuali commessi dai sacerdoti deve partire per proporre una soluzione efficace.

La crisi della pedofilia nella Chiesa, la moltiplicazione scandalosa e spaventosa degli abusi ha una e una sola causa ultima: l’assenza di Dio. Benedetto XVI lo riassume in un’altra formula che è altrettanto chiara e cito: “È solo dove la fede non determina più le azioni dell’uomo che tali crimini sono possibili” (II, 2).

Signore e signori, il genio teologico di Joseph Ratzinger si unisce qui non solo alla sua esperienza di pastore di anime e vescovo, padre dei suoi sacerdoti, ma anche alla sua esperienza personale, spirituale e mistica. Risale alla causa principale, ci permette di capire quale sarà l’unica via d’uscita dal terribile e umiliante scandalo della pedofilia. La crisi dell’abuso sessuale è il sintomo di una crisi più profonda: la crisi della fede, la crisi del significato di Dio.

Alcuni commentatori, sia malevoli che incompetenti, fingevano di credere che Benedetto XVI affermava che solo i chierici dottrinali devianti diventavano pedofili. È chiaro che non vi è alcuna questione di scorciatoie così semplicistiche. Ciò che Papa Ratzinger vuole mostrare e dimostrare è molto più profondo e radicale. Egli afferma che un clima di ateismo e assenza di Dio crea le condizioni morali, spirituali e umane di una proliferazione di abusi sessuali.

Le spiegazioni psicologiche hanno certamente il loro interesse, ma permettono solo di identificare i soggetti fragili, disposti al passaggio all’atto. Solo l’assenza di Dio può spiegare una situazione di proliferazione e moltiplicazione così terribile di abusi.

Veniamo ora allo scritto di Papa Benedetto.

In primo luogo è opportuno tagliare con i commenti pigri e superficiali che hanno tentato di squalificare questa riflessione teologica accusandola di confondere i comportamenti omosessuali con gli abusi sui minori. Benedetto XVI non afferma da nessuna parte che l’omosessualità sia la causa dell’abuso. Inutile dire che la stragrande maggioranza degli omosessuali non pensa di voler abusare di nessuno. Ma va detto che le indagini sull’abuso di minori hanno rivelato la portata tragica delle pratiche omosessuali o semplicemente contrarie alla castità all’interno del clero. E questo fenomeno è anche una manifestazione dolorosa, come vedremo, di un clima di assenza di Dio e perdita di fede.

D’altra parte, altri lettori, troppo veloci o troppo stupidi – non so – hanno bollato Benedetto XVI di ignoranza storica con il pretesto che la sua dimostrazione inizia con l’evocazione della crisi del 1968. Ma gli abusi sono iniziati prima – ben inteso – Benedetto XVI lo sa e lo afferma. Vuole dimostrare che la crisi morale del 1968 è già di per sé una manifestazione e un sintomo della crisi della fede e non una causa ultima. Da questa crisi del 1968, poté dire: “È solo dove la Fede non determina più le azioni degli uomini, che tali cose diventano possibili”.

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Seguiamo ora la sua dimostrazione passo dopo passo. Occupa la prima parte del suo testo. Vuole mostrare il processo profondo che è al lavoro qui. Dice, sottolineo, che questo processo è “ben preparato” e che è “ancora in corso”.

Papa Benedetto usa qui un esempio, l’evoluzione della teologia morale, per tornare alla fonte di questa crisi. Identifica tre fasi nella crisi della teologia morale.

Il primo passo è il completo abbandono della legge naturale come fondamento della moralità con l’intenzione – e tuttavia lodevole – di basare la teologia morale sulla Bibbia. Questo tentativo porta a un fallimento illustrato dal caso del moralista tedesco Schüller.

Porta inevitabilmente al secondo stadio, cioè “una teologia morale determinata esclusivamente per gli scopi dell’azione umana” (I, 2). Qui riconosciamo l’attuale teleologia il cui consequenzialismo è stato la dimostrazione più drammatica. Questa corrente che è caratterizzata dall’ignoranza della nozione di oggetto morale arriva ad affermare che, secondo i termini stessi di Benedetto XVI: “nulla è fondamentalmente cattivo”, “il bene non esiste ma solo il meglio relativo, a seconda del tempo e delle circostanze “(I, 2).

Infine, il terzo passo è l’affermazione che il magistero della Chiesa non sarebbe competente in materia morale. La Chiesa può insegnare infallibilmente solo su questioni di fede. Tuttavia, come dice Benedetto XVI, ci sono “principi morali inestricabilmente legati ai principi fondamentali della fede”. Rifiutando il magistero morale della Chiesa, si rimuove dalla fede ogni legame con la vita concreta. Alla fine, è quindi la fede che viene svuotata del suo significato e della sua realtà.

Vorrei sottolineare come fin dall’inizio di questo processo è l’assenza di Dio all’opera. Dal primo passo, il rifiuto della legge naturale manifesta l’oblio di Dio. In effetti, la natura è il primo dono di Dio. È in un certo senso la prima rivelazione del Creatore. Rifiutare la legge naturale come fondamento della moralità per opporsi alla Bibbia manifesta un processo intellettuale e spirituale già all’opera nelle mentalità. È il rifiuto da parte dell’uomo di ricevere dall’essere di Dio e le leggi dell’essere che manifestano la sua coerenza.

La natura delle cose, dice Benedetto XVI, è “l’opera ammirevole del Creatore, portando in sé una” grammatica “che indica una finalità e un criterio”. “L’uomo ha anche una natura che deve rispettare e che non può manipolare a suo piacimento. L’uomo non è solo una libertà auto-creata, è spirito e volontà, ma è anche la natura e la sua volontà hanno ragione quando rispetta la natura, ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, accetta di non essersi creato “. Per scoprire la natura come saggezza, ordine e legge è incontrare l’autore di questo ordine. “È davvero privo di senso riflettere per sapere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non supponga una Ragione Creativa, un ‘Creatore Spiritus’?”

Credo con Joseph Ratzinger che il rifiuto di questo creatore, Dio, si sia insinuato a lungo nel cuore dell’uomo occidentale. Da molto prima della crisi del 1968, questo rifiuto di Dio è all’opera.

Ma dobbiamo mostrare a Papa Benedetto XVI tutte le manifestazioni successive. Il rifiuto della natura come dono divino lascia il soggetto umano disperatamente solo. Solo allora contano le sue intenzioni soggettive e la sua coscienza solitaria. La moralità si riduce a cercare di comprendere i motivi e le intenzioni dei soggetti. Non può più guidarli alla felicità secondo un ordine oggettivo naturale che le consente di scoprire la bontà ed evitare il male. Il rifiuto della legge naturale porta inevitabilmente al rifiuto della nozione di oggettività morale. Pertanto, non ci sono più atti oggettivamente e intrinsecamente cattivi, sempre e ovunque, qualunque siano le circostanze.

A questo riguardo San Giovanni Paolo II ha voluto ricordare l’oggettività del bene nella “Veritatis Splendor”, alla cui stesura ha contribuito in modo sostanziale l’allora cardinale Joseph Ratzinger.

“Veritatis splendor” può così affermare con forza che ci sono atti “intrinsecamente cattivi, sempre e in se stessi, a causa del loro vero scopo, indipendentemente dalle intenzioni successive di colui che agisce e delle circostanze” (n. 80) e questo perché questi atti sono “in radicale contraddizione con il bene della persona”.

Vorrei sottolineare con Benedetto XVI che questa affermazione è solo la conseguenza dell’oggettività della fede e, in definitiva, dell’oggettività dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, non è una creazione della mia soggettività, poi c’è, nelle parole del Papa emerito “valori che non dovrebbe mai essere abbandonati” (II, 2). Per la morale relativista, tutto diventa una questione di circostanze. Non è mai necessario sacrificare la propria vita per la verità di Dio, il martirio è inutile. A differenza di Benedetto XVI ha detto che “il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Il fatto che il martirio non è moralmente necessario in questa teoria dimostra che l’essenza stessa del cristianesimo è in gioco” ( I, 2). Per dirla in una parola:

Nel cuore della crisi della teologia morale, vi è quindi un rifiuto dell’assoluto divino, dell’irruzione di Dio nella nostra vita che supera ogni cosa, che governa tutto, che governa il nostro modo di vivere. La dimostrazione di Benedetto XVI è chiara e definitiva, è riassunta nelle parole dello scrittore Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”! Se si mette in discussione l’oggettività del Divino Assoluto, allora le trasgressioni più contrarie alla natura sono possibili, anche gli abusi sessuali sul minore. Inoltre, l’ideologia del 1968 ha talvolta cercato di rendere accettabile la legittimità della pedofilia. Abbiamo ancora in mano i testi di questi eroi libertari che hanno vantato amori trasgressivi con i minori. Se qualche atto morale diventa relativo alle intenzioni e alle circostanze del soggetto, allora nulla è definitivamente impossibile e radicalmente contrario alla dignità umana. È l’atmosfera morale del rifiuto di Dio, il clima spirituale di rifiuto dell’oggettività divina che rende possibile la proliferazione dell’abuso di minori e la banalizzazione di atti contrari alla castità tra i chierici.

Nelle parole di Benedetto XVI “Un mondo senza Dio non può che essere un mondo senza significato. Da dove viene tutto ciò che esiste? (…) Il mondo è semplicemente lì, noi non sappiamo veramente come e non abbiamo né scopo né senso. Da quel momento in poi, non c’è più una norma del bene e del male, quindi solo ciò che è più forte dell’altro si può auto-affermare. Quindi il potere è l’unico principio. La verità non conta, non esiste nemmeno “(II, 1). Se Dio non è il principio, se la verità non esiste, conta solo il potere. Cosa impedisce quindi l’abuso di questo potere da parte di un adulto su un minore? La dimostrazione di Benedetto XVI è chiara: “In ultima analisi la ragione [degli abusi] è l’assenza di Dio”, “è solo dove la Fede non determina più le azioni dell’uomo che tali crimini sono possibili. “.

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Dopo aver esposto questo principio, il Papa emerito mostra le conseguenze. Sono stato personalmente molto toccato dal fatto che, per lui, la prima conseguenza si manifesta nella “questione della vita sacerdotale” (II, 1) e nella formazione dei seminaristi. Mi rafforza in una delle intuizioni fondamentali del mio ultimo libro.

Benedetto XVI scrive: “Nel contesto della riunione delle Conferenze Episcopali dei presidenti del mondo con Papa Francesco, la questione della vita sacerdotale, come seminari è di primaria importanza” Indica qui la conseguenza immediata della dimenticanza di Dio: la crisi del sacerdozio. Si può dire che i sacerdoti sono i primi ad essere colpiti dalla crisi della fede e che hanno portato con sé il popolo cristiano. La crisi dell’abuso sessuale è il punto emergente e particolarmente rivoltante di una profonda crisi del sacerdozio.

Cos’è? Riprenderemo qui le parole del Papa Emerito. Abbiamo visto, a lungo, diffondere una “vita sacerdotale” che non è più “determinata dalla Fede”. Ora, se c’è una vita che deve essere interamente ed assolutamente determinata dalla Fede, è la vita sacerdotale. È e deve essere una vita consacrata, cioè data, riservata e offerta a Dio solo e totalmente sepolta in Dio. Ma abbiamo spesso visto i sacerdoti vivere come se Dio non esistesse.

Benedetto XVI cita le parole del teologo Balthasar: “Non fare di Dio un presupposto” (III, 1). Cioè, non farne una nozione astratta. Al contrario, nelle parole di Papa Benedetto “Soprattutto, dobbiamo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita invece di lasciarlo da parte come una parola che diventa inoperosa” (III, 1). “

“Il tema di Dio”, continua, “sembra così irreale, così lontano dalle cose che ci riguardano. “. Fondamentalmente, con queste parole, Benedetto XVI descrive uno stile di vita sacerdotale secolarizzato e profano. Una vita in cui Dio prende il secondo posto. Lui dà delle illustrazioni. Si pensava che la prima preoccupazione dei vescovi non dovesse più essere Dio stesso, ma “una relazione radicalmente aperta con il mondo” (II, 1), dice. I seminari sono stati trasformati in luoghi secolarizzati che, secondo Benedetto XVI, il clima “non poteva sostenere la vocazione sacerdotale”. In effetti, la vita di preghiera e adorazione è stata trascurata, il significato della consacrazione a Dio è stato dimenticato. Il Papa emerito cita i sintomi di questa svista: miscelazione con il mondo secolare che introduce rumore e nega il fatto che ogni sacerdote per il suo sacerdozio uomo distinto nel mondo, messo da parte per Dio (II, 1). Egli cita anche la costituzione di club omosessuali nei seminari. Questo fatto non è tanto la causa, ma il segno di una dimenticanza di Dio già ampiamente installato. Infatti, i seminaristi che vivono apertamente in contraddizione con la moralità naturale e rivelata mostrano che non vivono per Dio, che non appartengono a Dio, che non cercano Dio. Forse stanno cercando un lavoro, forse apprezzano gli aspetti sociali del ministero. Ma hanno dimenticato l’essenziale: un prete è un uomo di Dio, un uomo per Dio. Questo fatto non è tanto la causa, ma il segno di una dimenticanza di Dio già ampiamente installato. Infatti, i seminaristi che vivono apertamente in contraddizione con la moralità naturale e rivelata mostrano che non vivono per Dio, che non appartengono a Dio, che non cercano Dio. Forse stanno cercando un lavoro, forse apprezzano gli aspetti sociali del ministero. Ma hanno dimenticato l’essenziale: un prete è un uomo di Dio, un uomo per Dio. Questo fatto non è tanto la causa, ma il segno di una dimenticanza di Dio già ampiamente installato. Infatti, i seminaristi che vivono apertamente in contraddizione con la moralità naturale e rivelata mostrano che non vivono per Dio, che non appartengono a Dio, che non cercano Dio. Forse stanno cercando un lavoro, forse apprezzano gli aspetti sociali del ministero. Ma hanno dimenticato l’essenziale: un prete è un uomo di Dio, un uomo per Dio. forse apprezzano gli aspetti sociali del ministero. Ma hanno dimenticato l’essenziale: un prete è un uomo di Dio, un uomo per Dio. forse apprezzano gli aspetti sociali del ministero. Ma hanno dimenticato l’essenziale: un prete è un uomo di Dio, un uomo per Dio.

Forse il più grave è che i loro insegnanti non hanno detto nulla o hanno volontariamente promosso la concezione orizzontale e mondana del sacerdozio. Come se anche vescovi e seminaristi avessero rinunciato alla centralità di Dio. Come se anche loro avessero messo la fede in secondo piano, rendendolo inutilizzabile. Come se anche loro avessero sostituito il primato di una vita per Dio e secondo Dio dal dogma dell’apertura al mondo, del relativismo e del soggettivismo. È sorprendente vedere che l’obiettività di Dio è stata eclissata da una forma di religione della soggettività umana. Papa Francesco parla giustamente di autoreferenzialità. Credo che la peggiore forma di autoreferenzialità sia quella che nega il riferimento a Dio, la sua obiettività di mantenere solo il riferimento all’uomo nella sua soggettività.

Come in un simile clima vive una vita autenticamente sacerdotale? Come mettere un limite alla tentazione di ogni potere? Un uomo che ha solo lui per riferimento, che non vive per Dio ma per se stesso, non secondo Dio ma secondo i propri desideri, finirà per cadere nella logica dell’abuso del potere e dell’abuso sessuale. Chi metterà un freno ai suoi desideri, anche i più perversi, se solo la sua soggettività conti? Dimenticare Dio apre la porta a tutti gli abusi. L’avevamo già visto nella società. Ma l’oblio di Dio viene introdotto anche nella Chiesa e persino tra i sacerdoti. Inabitabilmente abusi di potere e abusi sessuali si diffondono tra i sacerdoti. Purtroppo, ci sono sacerdoti che praticamente non credono più, non pregare più o molto poco, non vivere più i sacramenti come una dimensione vitale del loro sacerdozio. Divennero tiepidi e quasi atei.

L’ateismo pratico rende il letto delle psicologie dei molestatori. La Chiesa è stata invasa da tempo da questo ateismo liquido. Non dovrebbe essere sorpresa di trovare abusatori e pervertiti in mezzo a lei. Se Dio non esiste, tutto è permesso! Se Dio non esiste concretamente, tutto è possibile!

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Vorrei sottolineare la bella riflessione di papa Benedetto XVI sul diritto canonico in generale e sul diritto penale in particolare.

In effetti, il diritto canonico è fondamentalmente una struttura che mira a proteggere l’obiettività della nostra relazione con Dio. Come sottolinea Benedetto XVI, la legge deve “proteggere la fede, che è anche un bene legale” (II, 2). La fede è il nostro primo bene comune. Attraverso di lei diventiamo figli della Chiesa. È un bene oggettivo, e il primo dovere dell’autorità è di difenderlo. Ora, come osserva il Papa emerito, “nella coscienza generale della legge, la fede non sembra più avere il rango di un bene che deve essere protetto. di una situazione allarmante che deve essere seriamente presa in considerazione dai pastori della Chiesa “(II, 2). I vescovi hanno il dovere e l’obbligo di difendere il deposito della fede cattolica,

Questo è un punto cruciale. La crisi dell’abuso sessuale ha rivelato una crisi dell’obiettività della fede che si manifesta anche in termini di autorità nella Chiesa. Infatti, proprio come i pastori si rifiutano di punire i chierici che insegnano dottrine contrarie all’oggettività della fede, così si rifiutano di punire i chierici colpevoli di pratiche contrarie alla castità o anche agli abusi sessuali. È la stessa logica. È un’espressione distorta del “garante”, che Papa Benedetto definisce “solo i diritti dell’imputato devono essere garantiti, al punto che, in realtà, ogni condanna è esclusa” (II, 2 ).

Troviamo ancora la stessa ideologia. Il soggetto, i suoi desideri, le sue intenzioni soggettive, le circostanze diventano l’unica realtà. L’obiettività della fede e della moralità prende il secondo posto. Tale idolatria del soggetto esclude efficacemente qualsiasi punizione o punizione, sia per i teologi eretici sia per i chierici abusivi. Rifiutando di considerare l’oggettività degli atti, come osserva Benedetto XVI, si abbandonano i “piccoli” e i deboli alle delusioni di ogni potere dei carnefici. Sì, abbiamo, per così dire, misericordia, abbandonata la fede dei deboli e dei piccoli. Sono stati lasciati nelle mani degli intellettuali che avevano l’idea di decostruire la fede con le loro teorie fumanti che si rifiutavano di condannare. Allo stesso modo, le vittime degli abusi sono state abbandonate. Abbiamo trascurato di condannare i violentatori, i tormentatori dell’innocenza e della purezza dei bambini, e talvolta dei seminaristi o delle suore. Tutto ciò con il pretesto di comprendere i temi, rifiutando l’obiettività della fede e della moralità. Credo che condannare e infliggere punizioni, sia nell’ordine della fede che nella morale, sia prova di grande misericordia da parte dell’autorità.

Come sottolinea Benedetto XVI, l’abuso sessuale è oggettivamente un “crimine contro la fede”. Questa qualifica, egli dice, non è “un trucco ma una conseguenza dell’importanza della Fede per la Chiesa”. In realtà è importante capire che tali trasgressioni da parte dei chierici sono in ultima analisi dannose. viene alla fede “(II, 2).

Credo che l’atteggiamento degli impiegati che ascoltano, io sono con i fedeli, io sono con la mia vita morale, con un sentimento di impunità, questo può essere visto come clericalismo. Sì, il clericalismo è il rifiuto delle pena e delle punizioni in caso di atti contro la fede e la morale. Il clericalismo ti respinge dell’oggettività dell’etica e della morale della parte degli impiegati. Il clericalismo che papa Francesco ci ha chiesto di eradicare è, in ultima analisi, questo soggettivismo impenitente dei chierici.

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Mi resta di avvicinarmi a un’ultima conseguenza dell’oblio di Dio e dell’oggettività della fede. Se la fede non modella più il nostro comportamento, allora la Chiesa è per noi, non una realtà divina e ricevuta come un dono, ma una realtà da costruire secondo le nostre idee e il nostro programma. Sono rimasto profondamente scioccato e ferito dalla ricezione del testo di Benedetto XVI da parte di alcuni. È stato detto che “questo messaggio non è udibile” non è ciò di cui la Chiesa ha bisogno per essere nuovamente credibile.

Signore e signori, la Chiesa non ha bisogno di esperti di comunicazione. Non è una ONG in crisi che ha bisogno di diventare popolare di nuovo! La sua legittimità non è nelle urne, lei è in Dio!

Come dice Benedetto XVI: “La crisi causata dai numerosi casi di abusi sacerdotali ci spinge a considerare la Chiesa come qualcosa di infelice: qualcosa che ora dobbiamo prendere in mano e ristrutturare. Ma una Chiesa fatta da noi non può continuare a sperare! “. Come sottolinea il Papa Emerito, è proprio perché ci siamo arresi alla tentazione di fare una Chiesa a nostra immagine e di mettere da parte Dio, che oggi vediamo la moltiplicazione dei casi di abuso. Non cadiamo nella stessa trappola! Gli abusi rivelano una Chiesa che gli uomini volevano prendere in mano! Sono profondamente rattristato quando leggo sotto la firma di un teologo che la Chiesa ha commesso un “peccato collettivo” o che la Chiesa contribuisce a una “struttura peccaminosa”. La stessa sorella domenicana richiede un interrogatorio sulla “concezione della verità” propria della Chiesa cattolica. Secondo lei, la Chiesa dovrebbe rinunciare a tutte le “pretese di competenza o eccellenza in materia di santità, verità e moralità”.

Un simile approccio porta solo al soggettivismo più puro. Quindi ci rimanda alla causa che ha prodotto la crisi. Perché se non c’è più verità e la morale insegnata, chi può dire che ci sono cose che non possono mai essere fatte? Ancora una volta, se Dio non esiste oggettivamente, se la verità non prevale, allora tutto è permesso!

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Qual è il percorso che Benedetto XVI ci offre? Esso è semplice. Se la causa della crisi è l’oblio di Dio, allora rimetti Dio al centro! Restituiamo al centro della Chiesa e alle nostre liturgie il primato di Dio, la presenza di Dio, la sua presenza oggettiva e reale. Sono stato particolarmente commosso come Prefetto della Congregazione per il Culto Divino con un’osservazione di Benedetto XVI. Afferma che “conversando con le vittime della pedofilia è stato portato a una consapevolezza sempre più acuta della necessità di un rinnovamento della fede nella presenza di Gesù nel Santissimo Sacramento” e una celebrazione di l’Eucaristia rinnovata da più riverenza. (III, 2).

Signore e signori, voglio sottolineare che questa non è una conclusione esperta in teologia, ma la saggia parola di un pastore che è stato profondamente toccato dalle storie delle vittime della pedofilia. Benedetto XVI ha capito con profonda delicatezza che il rispetto per il corpo eucaristico del Signore determina il rispetto per il corpo puro e innocente dei bambini.

“L’Eucaristia è stata svalutata”, dice. È apparso un modo di trattare il Santissimo Sacramento che “distrugge la grandezza del mistero”. Con il Papa emerito Sono profondamente convinto che se noi non adoriamo il Corpo eucaristico del nostro Dio, se noi non trattiamo con stupore gioioso e pieno di riverenza, allora saremo nati tra la tentazione di profanare i corpi dei bambini.

Sottolineo la conclusione di Benedetto XVI: “quando pensiamo all’azione che sarebbe necessaria sopra ogni altra cosa, diventa chiaro che non abbiamo bisogno di una nuova Chiesa della nostra invenzione. Al contrario, ciò che è necessario in primo luogo è il rinnovamento della fede nella presenza di Gesù Cristo che ci è data nel Santissimo Sacramento “(III, 2).

Quindi, signore e signori, per concludere vi ripeto con Papa Benedetto: sì, la Chiesa è piena di peccatori. Ma lei non è in crisi, siamo noi in crisi. Il diavolo vuole farci dubitare. Vuole che crediamo che Dio sta abbandonando la sua Chiesa. No, lei è ancora “il campo di Dio”. Non c’è solo la zizzania, ma anche il raccolto di Dio. Proclamare insistentemente questi due aspetti non è una falsa apologetica: è un servizio che deve essere reso alla verità “, dice Benedetto XVI. Lo dimostra, la sua presenza orante e l’insegnante in mezzo a noi, nel cuore della Chiesa, a Roma lo conferma. Sì, ci sono tra di noi stupendi raccolti divini.

Grazie, caro papa Benedetto, per essere un collaboratore della verità, un servitore della verità. La tua parola ci conforta e ci rassicura. Sei un testimone, un “martire” della verità.
Cardinal R. Sarah