mercoledì 31 maggio 2023

La strategia del depistaggio dei traduttori della Bibbia: cambiare il nome ai peccati








































INVESTIGATORE BIBLICO


Indizio n.138 Bibbia CEI 2008: “La strategia del depistaggio dei traduttori: cambiare il nome ai peccati: Prima lettera ai Corinzi – parte III” di INVESTIGATORE BIBLICO




Avevo già scritto due articoli paralleli a riguardo.

Non capisco se la CEI 2008 sia stata colta da un’ondata di bigottismo insensato, oppure sia il solito nebbione calato sui significati per rendere ambiguo e generico il testo.

Va bene, lettori, la verità. L’ho capito benissimo. E anche voi. Siamo tutti abbastanza intelligenti da non farci prendere in giro.

Rilancio i due vecchi link della serie, per vostro approfondimento: Indizio n.68 e Indizio n.69.

Andiamo, quindi al testo. E cercheremo di capire se si tratta di bigottismo di inizio millennio (una nuova strana forma), oppure il solito tocco di ‘politically correct’, nei confronti dei ‘pazzi per il sesso’, che sia dritto o al rovescio. Corretti verso cosa, poi, spiegatemelo.

CEI 1974: “9Vi ho scritto nella lettera precedente di non mescolarvi con gli impudichi. 10Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolàtri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è impudico o avaro o idolàtra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”. (1Cor 5,9-11)

VULGATA: “9 Scripsi vobis in epistula: Ne commisceamini fornicariis.10 Non utique fornicariis huius mundi aut avaris aut rapacibus aut idolis servientibus, alioquin debueratis de hoc mundo exisse!11 Nunc autem scripsi vobis non commisceri, si is, qui frater nominatur, est fornicator aut avarus aut idolis serviens aut maledicus aut ebriosus aut rapax; cum eiusmodi nec cibum sumere. (1Cor 5,9-11)



CEI 2008 : « Vi ho scritto nella lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità. 10Non mi riferivo però agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”. (1Cor 5,9-11)

Ebbene, avrete già notato la differenza fra le traduzioni, con il termine “impudico”, utilizzato dalla 1974, “fornicator” dalla Vulgata, e, best by test, la solita traduzione 2008 fuori dal coro: “immorale”.

Approfondiamo con il greco.

Il termine è “pornos”, da “porneia”, che nel vocabolario di greco biblico del Buzzetti Carlo (edizione del 1994) si traduce con: impudicizia, immoralità di tipo sessuale, prostituzione, adulterio, concubinato.

Il termine usato da San Paolo è chiaro. Non ci sono ambiguità.

San Girolamo, successivamente, utilizza “fornicator”, e fino a qui nessuno si può confondere.

Poi arrivò la 2008 con “immoralità”. Un termine generico, senza dubbio.

Sicuramente nella parola immorale possiamo trovare il gioco d’azzardo, ubriacarsi fino al tracollo, picchiare una signora anziana, sfottere un disabile, prendere a calci un criceto, innamorarsi di Hitler, lanciare la nonna dalla finestra, eccetera.

Comprenderete la mia ironia di questa sera, lettori, perché non mi resta altro.



Ma facciamo ancor più approfondimento, seppure ripetitivo.

Andiamo a vedere come la Treccani definisce la parola “immorale”.

E la parola “impudico”.

Quale delle due definizioni secondo voi si avvicina di più al termine greco “porneia”?

Chi mi da la risposta esatta vince un pupazzo a forma di investigatore biblico.

Bene, lettori, questa sera un po’ di sano sarcasmo.

La domanda è tutta vostra, con relative risposte e discussioni: la CEI 2008 è stata colta da un irrefrenabile attacco di bigottismo puritano oppure intendono celare il significato, perché l’epoca ce lo impone?

Se tolgo il riferimento diretto, forse cambierò l’etica nella sua essenza?

Mmhh…non credo. Però ci provano… eccome se ci provano!

Investigatore Biblico







martedì 30 maggio 2023

Fulton Sheen e la conversione della comunista americana




La Grazia può raggiungere chiunque. Bella Dodd era l'astro nascente del comunismo americano e riuscì a far infiltrare oltre mille giovani in seminario per diventare sacerdoti... ma la Provvidenza aveva altri piani per leiFulton Sheen e la conversione della comunista americana





di Rino Cammilleri, 29 maggio 2023

Il venerabile Fulton John Sheen era un pastore della tempra di sant'Ambrogio: inflessibile sulla dottrina, paterno con l'umana debolezza, predicatore eccezionale (fu proprio ascoltando i sermoni di sant'Ambrogio che sant'Agostino si convertì).

Sono note le sue trasmissioni prima radio e poi televisive con cui batteva ogni record di ascolti e teneva avvinti milioni di americani, anche non cattolici.

A differenza dei telepredicatori protestanti, la sua non era un'esposizione apocalittica, con uso di toni drammatici e abbondanza di riferimenti all'Inferno. No, solo logica e paradossi alla Chesterton, di cui tra l'altro era amico. E, soprattutto, un sapiente intercalare di fine umorismo, inframmezzando nei punti giusti quelle battute di cui il pubblico americano è ghiotto. Uomo di profonda cultura, trovava anche il tempo di aggiungere agli impegni come arcivescovo i numerosi libri che ancora oggi istruiscono gli incerti e rianimano gli sfiduciati.


Una donna promettente

Molti quelli che dovettero a lui la conversione. Come Clare Boothe Luce, poi famosa e battagliera ambasciatrice statunitense a Roma. E la meno nota (leggendo il seguito si capirà perché) Bella Dodd, la cui conversione non fu inferiore in importanza - importanza sociale e politica, intendo; dal punto di vista spirituale, infatti, hanno tutte la stessa importanza - e sulle cui tracce mi sono messo incuriosito da un articolo sull'agenzia Aletheia.org del 6.12.22.

«Bella» perché era italiana e si chiamava Isabella. Per l'esattezza Maria Assunta Isabella Vissono ed era lucana di Picerno, in provincia di Potenza. Nata nel 1904, si accorse anche lei che gli americani non amavano gli immigrati che non si sforzavano di integrarsi. A cominciare dal nome. Dei suoi tre, il secondo non era americanizzabile. Il primo si, ma lei, tendente all'ateismo, non lo prese nemmeno in considerazione. Invece, «Bella» agli americani ricordava i tempi del saloon del vecchio West. E Bella fu. «Dodd» era il cognome del marito, che mantenne anche dopo il divorzio perché sempre meglio di Vissono. Sveglia e portata agli studi, grazie a una borsa di studio statale poté frequentare la prestigiosa Columbia University. Si laureò in giurisprudenza e divenne avvocato, nonché docente di scienze politiche all' Hunter College di New York. In breve fu a capo della New York State's Teachers Union, l'associazione che riuniva i docenti dello Stato. Animo battagliero e da suffragetta, nel 1932 si iscrisse al partito comunista americano (CpUsa), scalandone la cima, tanto che in dieci anni arrivò a far parte del consiglio nazionale.


Il partito come religione


Grazie all'amico Fiorello La Guardia, sindaco di New York, riusciva ad avere tutti i congedi sul lavoro che le servivano per dedicarsi al suo vero scopo nella vita: l'attivismo nel partito. Nel 1930, nel corso di un lungo viaggio in Europa, conobbe John Dodd, con il quale si sposò nello stesso anno. Durante la Guerra civile spagnola lui e lei si attivarono per spedire quanti più volontari potevano a combattere nelle file dei repubblicani. Nel 1940 lui abbandonò il tetto coniugale per imprecisate divergenze ideologiche. Dopo avere visto film Come eravamo, con Barbra Streisand e Robert Redford (un classico), sospettò che lui, pur comunista, a un certo punto non ne abbia potuto più del fanatismo di lei. Ancora dieci anni, anzi nove, ed ecco la mazzata finale: venne espulsa dal partito. La scusa ufficiale fu che lei, avvocato, aveva assunto le difese di un proprietario contro il suo affittuario. Un avvocato comunista dalla parte di un padrone? Non sia mai. L'affittuario doveva essere anche nero, tant'è che le appiopparono della «razzista» e infine, come tutti gli epurati a sinistra, della «fascista». Il che lascia pensare che Bella fosse incappata in una delle tante purghe interne Stalin-style con cui periodicamente i comunisti rinnovano i ranghi. 


La conversione 

Solo che per lei il partito era tutto. La sua vita, la sua ragione di esistere e vivere. Per esso aveva rinunciato a ogni cosa, perfino a suo marito. E ora? II senso di sbandamento, solitudine, straniamento, angoscia, delusione che deve provare qualcuno finito in tale situazione deve essere abissale. Ovviamente, i vecchi compagni le fecero il vuoto attorno. Solo che non ne aveva altri. Intanto la stampa si era impadronita del suo caso. Bella era stata un'esponente di sinistra molto in vista e ben nota per le sue battaglie. Nel 1951, a New York, dove lei stava, arrivò come vescovo ausiliare Fulton Sheen. Non si sa bene in quale occasione i due si incontrarono. Tra i compiti nel partito, Bella Dodd aveva anche quello di infiltrare comunisti nei seminari cattolici. Perciò doveva avere qualche dimestichezza con il palazzo vescovile. Ma questa volta qualcosa si era rotto e si ritrovò a singhiozzare sulla spalla del magnetico Sheen. E poi, non si sa come, in ginocchio nella cappella dove lui l'aveva portata. Scrisse in seguito che non avrebbe saputo dire come e perché, ma si era inginocchiata disperata e si era rialzata con una pace profonda nel cuore. Sheen, dopo, le disse che lei aveva odiato il cristianesimo perché non lo conosceva. Era laureata, aveva il dovere di studiarlo. E cosi fu. Bella Dodd, sotto la guida del vescovo, compì la sua istruzione catecumenale e il 7 aprile 1952, lunedì della Settimana Santa, ricevette il battesimo dalle mani di Sheen nella Cattedrale.



Un piano per sovvertire la Chiesa


Scrisse un libro, School of Darkness, nel quale spiegò come il comunismo proponeva una specie di religione della giustizia sociale che faceva presa sui semplici. E anche sui cattolici, che erano più attenti alle istanze degli ultimi. Parlò dei potentati economici, non solo americani, che finanziavano il comunismo per plasmare e soggiogare le masse, e soprattutto distruggere il cristianesimo. Per quest'ultimo scopo, secondo le direttive di Mosca, lei stessa aveva convinto "almeno 1.200 giovani" a entrare nei seminari, onde farli diventare sacerdoti e vescovi per corrodere la Chiesa dall'interno. Perché la Chiesa cattolica? Perché era la meglio organizzata anche sul piano internazionale. Quando venne convocata al Senato per riferire di queste attività, dichiarò che sapeva di almeno quattro cardinali che in Vaticano lavoravano per il partito comunista. Alla commissione senatoriale raccontò di come i comunisti fossero presenti in numerosi uffici legislativi del Congresso e in alcuni gruppi che fornivano consigli di settore al Presidente. Oltre alle presenze nei sindacati e altre istituzioni di rilievo, naturalmente. Bella Dodd morì nel 1969, a causa di un intervento chirurgico.


Titolo originale: Il vescovo e l'agit-prop



Fonte: Il Timone, aprile 2023 (n. 227) - Pubblicato su BastaBugie n. 818



lunedì 29 maggio 2023

Chi fu veramente don Lorenzo Milani?




Chi fu veramente don Lorenzo Milani, il sacerdote di cui il 27 maggio è stato celebrato, in pompa magna, il centenario della nascita?




Roberto De Mattei, 27 maggio 2023

Le note biografiche sono queste: don Lorenzo Milani nacque a Firenze il 17 maggio 1923, da una famiglia della borghesia agiata, e a Firenze morì il 26 giugno 1967. Dopo una vita piuttosto libera si convertì, entrò in seminario, fu ordinato sacerdote nel 1947. Frutto della sua prima esperienza nella parrocchia di San Donato di Calenzano, fu un libro dal titolo Esperienze pastorali, che suscitò molte polemiche, fu censurato dalla Chiesa e gli costò il trasferimento in una parrocchia di montagna, a Barbiana nel Mugello, dove volle sperimentare una nuova pedagogia scolastica, di cui riassunse le linee in un altro libro dal titolo Lettere a una professoressa, che fu pubblicato nel 1967, ebbe grande successo e fu considerato uno dei testi di riferimento della Rivoluzione studentesca del 1968. Don Milani morì pochi mesi dopo, e subito iniziò la glorificazione della sua figura e della sua pedagogia.

Don Milani era fautore di una scuola a tempo pieno, 365 giorni su 365, radicalmente ugualitaria, in cui ogni differenza di classe fosse abolita. Don Milani era infatti convinto che tutti i mali della scuola italiana derivassero dall’’odio delle classi privilegiate verso i poveri e, incitava i ragazzi alla lotta di classe contro i ricchi. Ha ragione lo scrittore Pucci Cipriani, quando afferma che don Milani è uno dei principali responsabili della distruzione della scuola italiana, per l’influenza che hanno avuto le sue idee, soprattutto negli ambienti cattolici. Eppure don Milani fu condannato da due grandi cardinali di Firenze, Elia Della Costa e Ermenegildo Florit. Tra il cardinale Florit e don Milani ci fu nel 1966 un incontro tempestoso. Florit, che pure si era sempre mostrato sempre paterno e benevolo verso il sacerdote ribelle, dopo quest’incontro definì don Milani un “tipo orgoglioso e squilibrato”, affetto da “mania di persecuzione” e “egocentrismo pazzo”. Don Milani, che odiava Florit, lo definì a sua volta “deficiente” e “indemoniato”. Questi erano i suoi rapporti con le autorità ecclesiastiche, simili a quelli che aveva don Enzo Mazzi, il parroco dell’Isolotto, che quando morì nel 2011 volle i funerali civili e chiese di essere cremato. Ma oggi l’arcidiocesi di Firenze e la Conferenza Episcopale Italianaonorano don Lorenzo Milani come un profeta.

Pucci Cipriani e Pier Luigi Tossani, entrambi profondi conoscitori del “donmilanismo”, sono autori di una lettera aperta scaricabile dal blog Soldati del Re: (https://soldatidelre.it/don-milani-e-stato-veramente-un-maestro/). La missiva che porta il titolo “Circa le imminenti iniziative di commemorazione del priore di Barbiana, raccomandiamo la ricerca della verità”, analizza il progetto educativo di don Milani, la sua visione classista della società, il suo “cuore tenebroso”, le sue pulsioni omosessuali e pedofile. Per chi volesse approfondire la figura e l’ideologia di don Milani dal punto di vista della Chiesa, consiglio anche la lettura del libro Incontri e scontri con Don Milani, del teologo domenicano padre Tito S. Centi (1915-2011), che si può scaricare sull’ottimo blog Totus tuus: https://www.totustuus.cloud/prodotto/p-t-s-centi-o-p-incontri-e-scontri-con-don-milani/

Pucci Cipriani ha più volte mostrato, anche in convegni a cui ha partecipato, il rapporto che lega l’ideologia di don Milani al “Forteto”, la cooperativa agricola nel Mugello, nata per raccogliere bambini in difficoltà, che si è rivelata essere un luogo di stupri e violenze. Il responsabile di questi abusi, Rodolfo Fiesoli, è stato condannato a quattordici anni e dieci mesi con fine pena nel 2033, per violenza sessuale e maltrattamenti, ma dopo meno di tre anni e mezzo passati in carcere, dal mese di marzo 2023 è ai domiciliari. Fiesoli si richiamava a don Milani e nel 2001 era in testa alla Prima marcia di Barbiana, un evento che da allora si ripete ogni anno, accanto a Michele Gesualdi, anch’egli ex allievo di don Milani e all’epoca presidente della Provincia.

A Rodolfo Fiesoli, il violentatore del Forteto, era stata affidata la realizzazione del progetto Barbiana finanziato con fondi europei. Tutti erano esponenti del cattocomunismo toscano, che negli anni del Sessantotto esaltava la disobbedienza religiosa e civile e che secondo Pier Luigi Tossani aveva in sé i germi del “protobrigatismo rosso”.

Ecco questo, in breve, fu don Lorenzo Milani a cui hanno reso omaggio il 27 maggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente della Conferenza Episcopale Matteo Zuppi, recandosi in pellegrinaggio a Barbiana. Il Comitato nazionale delle celebrazioni per il Centenario della nascita di don Milani, è presieduto da Rosy Bindi. Per tutti costoro don Milani è un maestro. Per noi, con tutta la compassione che si può avere per la sua anima, fu un distruttore della scuola italiana e, per le sue idee, un corruttore intellettuale e morale della gioventù.






Peccato o fragilità? La rivoluzione linguistica nella Chiesa



“Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente. “Fragilità” invece abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. E così vale per dottrina/pastorale, Creato/ambiente, Giustizia/misericordia. Viaggio nella rivoluzione linguistica della Chiesa.



TEMPI MODERNI

EDITORIALI

Tommaso Scandroglio, 29-05-2023

Ogni rivoluzione porta con sé anche una rivoluzione linguistica perché cancellare una certa realtà per sostituirla con una nuova comporta, in parallelo, cancellare tutti quei termini che definiscono la realtà presente per far posto ad un nuovo vocabolario capace di descrivere il mondo nuovo che, per definizione, è sempre migliore di quello vecchio. Anche le rivoluzioni in casa cattolica che investono fede e morale non sfuggono a questa regola lessicale. Qualche esempio.

Prendiamo innanzitutto la parola “peccato” che ha subìto un severo ostracismo a favore del termine “fragilità”. “Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente, una volontarietà espressa dalla persona e dunque una sua responsabilità. Ne consegue che, nell’immaginario collettivo, associato a “peccato” abbiamo concetti come comandamento, errore, ingiustizia, colpa, riparazione, pena. “Fragilità” abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. Infatti tale lemma fa più riferimento all’essere –. “E’ persona fragile” – che all’azione, alle condotte. Ma la morale riguarda soprattutto l’agire e dunque le regole di comportamento. Ne consegue che la fragilità è abile a liberarsi dalle strettoie della morale.

E poi la fragilità, sempre nella coscienza collettiva e sotto la prospettiva psicologica, può essere connaturata alla persona, dunque inevitabile e quindi priva di colpa. Inoltre – ed ora invece ci muoviamo sotto il profilo teologico – questo termine pare evocare, in senso protestante, quella condizione di intrinseca e irricuperabile debolezza della nostra natura umana ferita dal peccato originale. Ma anche in questo caso la fragilità è insopprimibile, non debellabile. Dunque non può suscitare nessuna condanna e, all’opposto, muove subito alla giustificazione della stessa e perciò alla solidarietà.

Va da sé poi che il concetto di fragilità esclude dal proprio orizzonte Dio, perché la fragilità non offende nessuno, tantomeno il Creatore, il quale entrerà in gioco semmai per sanare il fragile nella confessione, luogo che è diventato solo un’infermeria e non anche un tribunale dove ammettere le proprie colpe. La fragilità invece elimina questo aspetto e presenta il peccatore solo come un ferito che è tale senza sua colpa. Doveroso dunque assassinare il peccato per legittima difesa del quieto vivere.

Un altro termine che è andato in pensione è “dottrina”. Al suo posto troviamo “pastorale”. Non esiste più un plesso di norme e principi di fede e morale che guida il credente nella prassi, che dovrebbe essere declinato dai pastori nell’azione evangelizzatrice. Questo rapporto gerarchico in cui la dottrina è al vertice e la pastorale è alla base è stato invertito.. Anzi, ad essere più corretti, potremmo dire che la pastorale coincide con la dottrina. E’ il contingente, il particolare che rivela la norma altrettanto contingente e particolare. Non c’è posto per la dottrina in questa idea di Chiesa, ma solo per un ponderoso manuale delle esperienze. Regole universali non esistono più: è la casistica a dettar legge. Le uniche regole universali sono principi generalissimi, buoni per tutte le stagioni, che con millanteria vengono desunti da un volutamente imprecisato spirito del Vangelo: l’apertura agli altri in specie agli ultimi, meglio se poveri; il dialogo; la non discriminazione, l’inclusività; il rispetto dell’ambiente; la solidarietà; etc.

Fermiamoci proprio sul sostantivo “ambiente” che ha mandato in soffitta “creato”. Segno, ancora una volta, che il braccio orizzontale della croce, orizzontale come la terra, deve vincere su quello verticale, che indica il Cielo. Dunque deve prevalere un visione immanentistica e non trascendente perché l’ambiente non ha bisogno di Dio per esistere, invece il creato sì. C’è da aggiungere che l’ambiente, in seno ad un ambiente religioso, diventa presto culto, seppur mascherato, di Gea, dea della Terra. La gerarchia dell’ordine naturale voluto da Dio viene rivoluzionato e così la persona diventa solo un animale umano, ma sempre animale è, il quale è subordinato, per conquistarsi il Cielo, ad onorare la Terra, ossia piante, animali e pure ghiacciai.

Colpita da oblio anche la parola “giustizia”, che è stata licenziata dal vocabolario cattolico a favore del termine “misericordia”. O meglio, il termine “giustizia” trova ancora una sua dignità solo se declinata come “giustizia sociale”, ossia solo se spesa in riferimento ai poveri, agli emarginati, ai malati, agli immigrati, etc. Ma quando spiccheremo il volo verso il Cielo, la giustizia rimarrà a terra e nell’Aldilà ci troveremo faccia a faccia solo con una misericordia divina che, nelle intenzioni di alcuni teologi, è così generosa che non guarda in faccia a nessuno e a niente, nemmeno ai peccati. E dunque dopo la fiducia cieca in Dio, ora dobbiamo predicare anche una misericordia cieca, cieca di fronte a meriti e a demeriti. Riguardo a questi ultimi, regnerà sovrana la forza del perdono che, dopo così tante e insistenti operazioni di chirurgia plastica teologica, sarà irriconoscibile tanto che verrà chiamato “condono”.

Sbianchettata anche la parola “gerarchia” perché il nuovo che avanza si chiama sinodo (che tanto nuovo non è). Il camminare insieme senza meta, inseguendo con tenacia come unico scopo lo stesso camminare insieme, è il sinodo, l’inedito organo di governo della Chiesa che, privo idealmente di gerarchia, produce una marcia dei fedeli inevitabilmente in ordine sparso. Il caso tedesco è in tal senso paradigmatico. In realtà è tutta una voluta finzione: storicamente chi ha sempre parlato di collegialità, di democrazia, di condivisione, lo ha fatto perché strumentalmente utile al proprio autoritarismo. Dietro lo scudo della sinodalità si nascondono i soliti quattro che non vogliono mollare il potere. La massa è facilmente pilotabile, soprattutto se nella dinamica sinodale si fa partecipe solo chi la pensa come chi sta nella stanza dei bottoni: il consenso viene costruito ad arte e così irrobustisce la forza di pochi. Se poi il popolo di Dio non si orienta come vogliono lor signori i controllori, basterà non ascoltarlo. Questo processo che vede la sinodalità usata surrettiziamente per consolidare il potere è antitetico al principio gerarchico, così come inteso in senso cattolico. Sia perché la gerarchia non prevede l’annientamento dei poteri intermedi a favore del potere di uno solo, sia perché la gerarchia cattolica significa servizio, sia perché la gerarchia degli uomini di Chiesa è sempre subordinata alla gerarchia celeste e dunque alla verità.

Un’ultima coppia di lemmi, tra gli infiniti che si possono citare: fede e dubbio. La fede è stata rottamata perché nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge la seguente "bestemmia": “la fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire” (n. 157. Notare il corsivo, che non è nostro). Oggi invece viene insegnata la fede nel dubbio: non risposte ma domande, non punti esclamativi ma interrogativi, non luce ma oscurità. Dio non si è rivelato, ma lo possiamo vedere solo dal buco della serratura della nostra personalissima coscienza e si muove pure in una stanza immersa nel buio. La verità appare rigida, non malleabile, così scomoda perché non ergonomica per le delicate anime dei contemporanei tanto versate al compromesso. Ecco allora il dialogo fine a se stesso, la celebrazione delle crisi di fede, la dottrina liquida, anzi gassosa, la priorità dei processi sul risultato, del cammino sulla meta, della ricerca sugli esiti. L’unica liturgia ammessa è quella che celebra l’ambiguo – e ci stupiamo della benedizione ecclesiale dell’omosessualità? – a danno dell’inequivocabile, che incensa il problema e non la soluzione, il relativo e non l’assoluto, come gli assoluti morali. Questa è l’unica certezza da coltivare: che non si hanno più certezze.






Pensiero moderno, protestantesimo, teologia cattolica




Venerdì scorso, 26 maggio 2023, Stefano Fontana ha tenuto una conferenza a Cremona, nella sala del Convento di Padri Barnabiti [nella foto la chiesa di san Luca attigua al convento] sul tema “Cattolici di fonte alle nuove sfide: che fare?”, organizzata dal Gruppo laico “Giuseppina Ghisi”. Ha introdotto i lavori Mauro Faverzani.

Pubblichiamo di seguito la parte iniziale della relazione, riguardante l’inaudito inizio del pensiero moderno, che ha posto le basi per tutte le successive sfide alla Chiesa cattolica e ai laici cattolici.





Stefano Fontana, 29 MAG 2023

All’inizio della modernità, come ha dimostrato padre Cornelio Fabro, è avvenuto qualcosa di inaudito. Il pensiero umano ha preso una strada che avrebbe condotto inevitabilmente all’espulsione di Dio. Quel primo passo compiuto da Cartesio era tale da impedire di pensare Dio come realmente esistente. Infatti, il pensiero moderno fin dall’inizio pensa che “nulla ci sia fuori della coscienza” (Lévinas) e, quindi, anche Dio è al massimo un fatto di coscienza. Il pensiero moderno si fonda sul “principio di immanenza” ed è quindi filosoficamente ateo, nonostante molti suoi protagonisti siano stati e siano credenti. Immanenza vuol dire “da dentro”. Se tutto è visto da dentro la coscienza, allora tutto è dentro la coscienza e la coscienza diventa l’ambito originario, definitivo e non trascendibile di ogni nostro conoscere. Siamo prigionieri di un contesto da cui non possiamo uscire.

Il pensiero moderno è filosoficamente agnostico. Tutto quello che si può conoscere altro non è che una nostra rappresentazione. La conoscenza di una realtà oggettiva è impossibile. La filosofia moderna è narcisista, vede solo la propria immagine, è ideologica, considera realtà una propria visione, è totalitaria, forza la realtà a conformarsi a essa stessa, è post-veritativa e post-metafisica, è autodeterministica, in quanto determina se stessa da sola, senza nessun vincolo ad essa precedente, è volontaristica, perché si fonda su un originario atto di porre se stessa, suo unico criterio è l’effettualità e i propri contenuti sono veri solo in quanto da essa posti, è modernista, perché tutto si svolge nella coscienza e nella sua evoluzione storica e situazionale, è nichilista, perché si autoproduce con il nulla intorno e rimane sempre chiusa nel nulla delle proprie immagini, è tempo, un susseguirsi di immagini delle quali nulla resta.

Il pensiero moderno rimane chiuso nella coscienza, la quale si evolve storicamente. L’uomo è sempre “dentro” (principio di immanenza) ad essa e, siccome essa si evolve storicamente, l’uomo è sempre dentro le situazioni storiche che egli vive, non ha una natura che ne permetta l’emergenza, vede tutto dal punto di vista della sua situazione, ossia in modo relativo, processuale, incerto e indefinito. Gli è impedito di accedere ad un ordine reale e a dei fini oggettivi (e ancor più al fine ultimo), egli può accedere solo a dei progetti propri. La metafisica viene sostituita dall’ermeneutica. L’esistenza precede l’essenza dell’uomo ed egli non è, ma si fa, l’essere è tempo. La sua natura è di essere senza natura.

Una simile impostazione avrebbe pian piano generato un ateismo sistemico: dapprima un ateismo filosofico, poi un ateismo politico, un ateismo sociale, un ateismo educativo e perfino un ateismo religioso. Infatti, nella modernità nasce l’ateismo come religione, frutto di una fede, privo di argomentazioni, creduto e non saputo, dogmatico seppure in senso immanentistico. La filosofia moderna nasce subito atea, contro Dio, ma con una forza anti-teistica di tipo religioso. In precedenza, nulla di ciò era mai accaduto.

Nel passato, mentre la Chiesa cattolica si opponeva all’alluvione, la Riforma protestante ne accoglieva tutte le esigenze. Il Luteranesimo presuppone l’ateismo filosofico e va d’accordo con esso. Separa, infatti, la ragione dalla fede e non assegna alla prima nessuna capacità conoscitiva di un ordine naturale finalistico. Che Dio possa essere solo il “Dio per me”, per la mia coscienza e nella mia coscienza, al protestante va bene. Che nulla ci sia fuori della coscienza, come ritiene il pensiero moderno, al protestante va pure bene, come anche che la rivelazione sia in fondo un fatto di coscienza, che avvenga nella coscienza dell’umanità, come dicevano un tempo i modernisti e come dicono nel nostro temo Karl Rahner e i suoi seguaci. Al protestante va anche bene che la religione sia un fatto privato, che non riguarda la vita sociale e politica, nella quale, secondo lui, il cittadino va separato dal credente. Un ruolo pubblico della religione cristiana non esiste per lui, nella società e nella politica i credenti devono essere invisibili. La società e la civiltà cristiane sono delle aberrazioni per Barth, Bonhoeffer o Gogarten.

Questa differenza di impostazione tra protestantesimo e cattolicesimo, così forte in passato e così importante per preservare il cattolicesimo dall’ondata ateistica della modernità, oggi sembra essere venuta meno. La teologia protestante ha influito sulla teologia cattolica. Oggi, molta parte della teologia cattolica rifiuta la metafisica, crede che l’uomo sia solo storia e non più natura, ha una concezione evolutiva del dogma, pensa che la dottrina dipenda dalla pastorale, ritiene di dover cambiare completamente la propria teologia morale riconsiderando i temi della coscienza (che diventa “creativa”), delle circostanze (che da accidentali diventano sostanziali), del giudizio morale (che è impossibile per una cronica mancanza di conoscenze), del discernimento (che è produttivo della norma è trasforma le circostanze in eccezioni), della virtù (che non è più il vivere secondo ragione) e del peccato (che è impossibile conoscere) e in particolare negando l’esistenza di azioni intrinsecamente cattive. Essa riconsidera il quadro del sapere teologico, ponendo al vertice non la dogmatica ma la teologia fondamentale o l’antropologia, quando non addirittura le scienze umane, rifiuta il ruolo apologetico della ragione rispetto alla fede, pensa che la Chiesa non possa vantare un primato dell’annuncio della verità rispetto al mondo, crede che la rivelazione di Dio avvenga nella storia dell’umanità dentro la quale vive anche la Chiesa come sua componente, accetta la deellenizzazione del cristianesimo di origine protestante, cioè la trasformazione del dogma da metafisico a esistenziale, e la demitizzazione del cristianesimo, pure di origine protestante, distingue a fatica tra Chiesa docente e Chiesa discente, non educa più al giudizio sulla realtà perché per farlo bisogna intendersi come trascendenti rispetto alla realtà che si vuole giudicare, mentre la teologia odierna non ritiene possibile uscire dallo “Sitz im Leben” ossia dal contesto di vita vissuta.

Stefano Fontana




sabato 27 maggio 2023

Parigi-Chartres: il rito antico spopola tra i giovani




Malgrado le restrizioni, le giovani generazioni sono così attratte dalla liturgia tradizionale che lo "storico" pellegrinaggio francese deve chiudere le iscrizioni: i posti non bastano. Tra loro anche molti partecipanti alla GMG. I numeri e l'età media parlano da soli: la Tradizione non è indietrismo, è il futuro.



CONTROTENDENZA

Luisella Scrosati, 27-05-2023

Compie quarant’anni il Pellegrinaggio della gioventù francese Parigi-Chartres, organizzato dall’Associazione Notre-Dame de Chrétienté. E quest’anno, per la prima volta, gli organizzatori hanno dovuto comunicare a malincuore di non poter accettare più ulteriori iscrizioni. Overbooking. Resta solo ancora qualche posto per la fascia 13-17 anni, ma la realtà, scrivono gli organizzatori, è impietosa: «la dimensione dei bivacchi, il numero di tende che vi si possono installare, la lunghezza della colonna in movimento, che supererebbe le 2 ore, ritardando troppo l'arrivo degli ultimi pellegrini».

Una colonna di 16.000 giovani pellegrini e quattro treni prenotati per il ritorno a Parigi: è partito così, oggi, lo storico pellegrinaggio nato senza troppi clamori nel 1983, come pellegrinaggio del Centre Henri Charlier, segno della Francia cattolica e dall’animo monastico, che voleva reagire alla decristianizzazione e all’impietosa secolarizzazione. Già due anni dopo i pellegrini potevano entrare nella cattedrale di Chartres per celebrarvi la Messa conclusiva. Con la crisi delle ordinazioni episcopali da parte di Mons. Marcel Lefebvre, le porte della cattedrale resteranno chiuse fino al 1989, quando Giovanni Paolo II, con il Motu Proprio Ecclesia Dei afflicta, riconoscerà un posto nella Chiesa a tutte le realtà, piene di giovani famiglie, legate al rito romano antico.

Da quando la Messa nel rito antico ha conosciuto nuove restrizioni, i partecipanti al pellegrinaggio sono aumentati a dismisura. Effetto Traditionis Custodes? Forse. In ogni caso dovrebbe essere l’ “effetto Gamaliele” a far riflettere le autorità ecclesiastiche e farle ritornare sui propri passi; per non ritrovarsi a combattere contro Dio. Tanto più che un sondaggio realizzato dal quotidiano La Croix (vedi qui e qui) tra 30 mila giovani francesi che parteciperanno alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, rivela che quasi il 40% di loro apprezza la Messa in rito antico; altrettanti ritengono di non esserne attratti, ma non sono contrari, mentre appena un 12% pare aver interiorizzato la stigmatizzazione dell’indietrismo, ritenendo che il Rito antico costituisca un inutile ritorno al passato. Questo è per chi non ha occhi che per i numeri; ma se qualcuno volesse rendersi conto della realtà, il che non guasterebbe, basterebbe parlare con questi giovani. Come ha fatto Matthieu Lasserre per il quotidiano francese di ispirazione cattolica.

Jeanne è una mamma di 28 anni, e non proviene da una famiglia tradizionalista; eppure, ama la Messa nel Rito romano antico, perché avverte «questa sensazione di essere là per Cristo. Dimentico chi è il sacerdote, la cui personalità passa in secondo piano, e sono rivolta verso l’essenziale». Un bell’aiuto per sostenere la lotta di papa Francesco al clericalismo. Ma c’è anche altro ad attrarre alla Messa antica, come spiega Élodie: « Prego con il messale della mia bis-bis nonna. Ho l’impressione d’inserirmi nel prolungamento delle radici della Chiesa e di tutti i grandi santi che hanno pregato con queste stesse parole».

Lo storico del cattolicesimo, Paul Airiau, spiega così il successo della Messa in latino tra le giovani generazioni: «L'interesse del rito tridentino è quello di offrire un pacchetto completo che appare efficace. È una coerenza musicale e rituale, con la garanzia di una stabilità delle forme, qualunque sia il luogo. E funziona, perché questo set è spiegato in connessione con una certa visione della Chiesa e del mondo. C'è una dimensione molto strutturante con una formazione politica, spirituale, teologica e filosofica e una dimensione assoluta specifica della gioventù».

Stabilità, coerenza, visione, assoluto: antidoti formidabili alla fluttuante e liquida “cultura” del relativismo; nella quale evidentemente questi giovani non si trovano a loro agio. E cercano altro: altro, non un prolungamento del mondo verniciato di spiritualità. Aspetti che lo stesso Airiau riconosce come attrattivi anche nei confronti di quei giovani che avevano abbandonato la pratica della fede. Pur con giusta prudenza, ma è un fatto che le comunità legate al rito antico risultano molto aperte verso “quelli di fuori”: «è una dinamica che non è nuova, ma che è stata sottostimata. Ormai esiste un’ibridazione tra la gioventù tradi e quella non tradi».

Altro dato di grande interesse è il fatto che questi giovani non si fanno troppi problemi a frequentare sia il rito antico che quello riformato. Questa «fluidità liturgica» che si registra, non è tuttavia indifferentismo, perché questi giovani tendono a conservare alcuni elementi del rito antico, che hanno imparato ad apprezzare. Come quello di ricevere la Comunione in ginocchio e sulla lingua. L’intento del Summorum Pontificum, cassato dal Papa, rivive nei giovani?

Non solo sensibilità liturgica. I giovani che andranno alla prossima GMG si dimostrano in controtendenza rispetto alle generazioni che li hanno preceduti ed appaiono decisamente più “conservatori”. Un termine che in realtà è ideologizzato, e che non è in grado di «rendere conto delle molteplici dimensioni della vita di fede», scrive Jerôme Chapuis. E militanti: «Questi giovani della GMG sono impegnati non solo nella Chiesa, ma anche nella società, spesso con i più poveri. Si allenano intellettualmente». Una realtà ben viva, decisamente diversa rispetto a quello che viene per lo più presentato come un mondo di nostalgici, un po’ ai margini della vita della Chiesa.

Anche il sociologo Yann Raison du Cleuziou deve ammettere che «sorprendentemente, il sondaggio mostra la forza del conservatorismo tra i giovani cattolici». La sorpresa è solo per chi ha dovuto attendere i risultati di un sondaggio per comprendere i tratti di una realtà che aveva già sotto gli occhi.

C’è un altro elemento di interesse, ad emergere: «Fatto nuovo, i giovani cattolici di destra hanno più esperienza militante di chi si dice di centro o di sinistra. Si permettono di condurre battaglie conservatrici, ad esempio facendo campagne su questioni di bioetica (35%) o di moralità sessuale (32%)», spiega ancora du Cleuziou. «Nella misura in cui il cambiamento sociale rimane molto apprezzato nella società, questo conservatorismo non li rende guardiani dell'ordine stabilito, ma paradossalmente dei contestatori». Una realtà ben diversa da quella che il sociologo francese chiama di centro-sinistra ed ecologista, e che si autodefinisce come «la generazione papa Francesco», caratterizzata da un maggiore conformismo.

E tuttavia questo spirito di contestazione che caratterizza i giovani “di destra” non li porta all’anarchia, ma li attacca ancora di più all’istituzione: «tra le diverse risposte proposte, la rappresentazione della Chiesa che raccoglie consensi maggioritari è quella di una Chiesa che, nella società, deve essere un “faro che indica la strada nelle tenebre” (59%)». Questi giovani evidentemente concordano con l’idea che Gesù stesso aveva della sua Chiesa e dei suoi pastori. Ed è per questa ragione che «non appena entrano in gioco le posizioni più conformi al magistero, sono sempre le sensibilità maggioritarie di destra a sostenerle, mentre la sinistra mantiene una posizione più distaccata». Al contrario solo il 7% identifica la Chiesa come «ospedale da campo».

Per esempio, sulla questione del ruolo delle donne nella Chiesa il 64% chiude definitivamente al diaconato e al sacerdozio femminile. E ben il 33% afferma che nella Chiesa si sentono più che riconosciute, mentre è la società civile, che non le tutela come madri di famiglia.

Chapeau all’onestà della redazione de La Croix. Questa è la realtà, questo è il futuro. Riusciranno prima o poi i nostri pastori a far pace con quello che lo Spirito opera nella Chiesa? Lo Spirito Santo, non lo spirito del Concilio.





venerdì 26 maggio 2023

L’iniqua 194 compie 45 anni: ha raggiunto il suo obiettivo?





24 Maggio 2023 ore 10:37



di Fabio Fuiano

La legge n. 194 intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza” è stata varata il 22 maggio del 1978 e abrogò il Titolo X del Codice Penale che sanzionava la pratica abortiva. Lunedì scorso sono dunque ricorsi i 45 anni dalla sua approvazione, dunque, urge ricordare il reale fine di tale norma e condurre un bilancio sulla misura in cui sia stato effettivamente raggiunto.

Nella stesura della 194, contrariamente a quanto si pensi, il legislatore aveva come scopo quello di legalizzare l’aborto volontario nella massima ampiezza possibile. Appare necessario specificare che cosa si intenda per “aborto volontario”, così da non confonderlo col cosiddetto “aborto spontaneo”. Il primo è la diretta ed intenzionale soppressione del concepito nel grembo materno, con relativa espulsione del medesimo (F. Roberti, P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Editrice Studium, 1955, pp. 9-10), il secondo è un evento che si verifica naturalmente, senza il concorso della volontà di qualcuno, per cui l’organismo della madre, ordinariamente a causa di una disfunzione patologica, non riesce a portare a termine la gravidanza.

Da un punto di vista morale, nel primo caso l’oggetto (o fine prossimo) dell’atto è la soppressione di un essere umano innocente, nel senso che (a) il concepito e la madre condividono la medesima natura o “sostanza” umana, per cui il fatto che nella madre vi sia una accidentale maggiore quantità di essere non le conferisce un maggior valore rispetto al figlio (R. Amerio, Iota Unum, Lindau, Torino, p. 384-386) e (b) il concepito non si trova nel grembo materno per procurare un danno alla madre: l’aggettivo “innocente” deriva infatti dal latino in-nocere, letteralmente “non nuocere” (M. Palmaro, Aborto & 194, Sugarco, Milano 2008, p. 226).

Nel secondo caso, propriamente, non si può parlare di “atto umano”, perché manca la libera volontà, ma solo di “atto dell’uomo” (similmente al respirare, digerire ecc.) e pertanto «cade al di fuori del dominio della morale» (R. Jolivet, Trattato di Filosofia, Tomo V, Morcelliana, Brescia 1959, p. 13).

Un atto umano, al contrario, viene moralmente identificato dal suo fine prossimo (Trattato di Filosofia, pp. 200-201). Vi possono essere poi dei fini ulteriori (o soggettivi) – dipendenti cioè dal soggetto agente – e delle circostanze in cui il soggetto agisce – che aiutano a definire le condizioni in cui tale atto si effettua, ma che, nel caso dell’aborto, non hanno il potere di cambiare la sua natura intrinsecamente malvagia (Trattato di Filosofia, pp. 204-205). Di fatto, anche se l’aborto venisse compiuto come mezzo per il fine ulteriore di “tutelare la salute della gestante”, il suo oggetto intrinseco, seppur subordinatamente, sarebbe comunque positivamente voluto da chi compie l’atto e ciò non è moralmente lecito.

La 194, sfruttando anche la confusione dei termini, ha legalizzato l’aborto volontario e favorito un contesto culturale in cui l’eliminazione del concepito innocente è considerata perfettamente normale. Perciò, essa è a tutti gli effetti una norma gravemente contraria all’ordine della ragione e alla legge morale naturale. Non avendo ragione di legge, cessa perciò stesso il suo carattere obbligante. San Tommaso d’Aquino direbbe che la 194 è piuttosto una corruzione della legge (Ia-IIae, q. 95, a. 2).

Ad oggi la 194 ha ottenuto tre principali macro-effetti che rientrano pienamente nella sua finalità:

1) ha legittimato la pratica abortiva, definendo una specie di “dogma laico” per cui la donna vanta un diritto di vita e di morte nei confronti del figlio. Ciò, come effetto immediato, ha prodotto circa 6 milioni di aborti, cifra mastodontica, ottenibile sommando gli aborti annuali ufficialmente riportati nelle relazioni del Ministero della Salute sull’applicazione della 194 dal 1978 ad oggi. Praticamente, da sola, è riuscita a spazzare via l’equivalente dell’intera popolazione della Danimarca (secondo i dati del Ministero degli Esteri Danese, 5.9 milioni di abitanti nel 2021).

2) ha legittimato la pratica contraccettiva, strettamente legata al primo punto, giacché aborto e contraccezione nascono da una radice comune: il sovvertimento del fine della sessualità umana, la quale è stata donata da Dio all’uomo non per il piacere creato, ma primariamente per cooperare con Lui all’opera della creazione (da qui il termine pro-creazione). Dom Francesco Pollien (1853-1936) nel suo capolavoro, Cristianesimo Vissuto (Edizioni Fiducia, Roma, p. 52) spiega ad un interlocutore ideale che il piacere creato è come l’olio per le ruote di una macchina: serve a facilitare il meccanismo.

Per tale motivo, esso ha la funzione di facilitare l’atto coniugale, ma non è di per sé un fine del medesimo. Così che, per dirla con Dom Pollien, «colui che si trastulla coi piaceri sensuali, ohimè! Diventa un bruto», fino al punto di uccidere i propri figli per rimuovere la naturale conseguenza di quell’atto.

Con l’avvento della cultura abortista e della 194, è anche aumentata la pratica contraccettiva, in special modo tramite pillole (come quella del giorno dopo – Norlevo – e quella dei cinque giorni dopo – EllaOne) che agiscono secondo meccanismi non solo contraccettivi, ma anche abortivi (R. Puccetti, G. Carbone, V. Baldini, Pillole che uccidono, ESD, Bologna pp. 29ss, 63ss, 115ss). Il risultato è che si verificano una quantità indefinita di aborti nascosti che perciò non possono essere conteggiati dalle relazioni ministeriali, le quali forniscono solo dati circa il numero di scatole vendute (Ministero della Salute, Relazione sulla legge 194/78, dati 2020, pp. 23-25, nel 2020 sono state vendute 283.503 e 266.567 scatole di Norlevo e EllaOne, rispettivamente). I sei milioni di aborti sono in realtà una sottostima.

3) ha legittimato la pratica della fecondazione artificiale, che è l’altra faccia della medaglia rispetto al punto precedente: se prima infatti si è voluto slegare la sessualità dalla procreazione, con questa pratica si slega la seconda dalla prima. La fecondazione artificiale in Italia è disciplinata dalla legge 40 del 2004, a tutti gli effetti figlia della 194, tanto da citare quest’ultima nell’art. 14, commi 1 e 4, quando la si propone come eccezione al divieto di soppressione di embrioni e di riduzione embrionaria di gravidanze plurime.

Negli anni, la Corte Costituzionale ha rimosso i limiti introdotti dalla legge 40, svelandone tutto il potenziale distruttivo (sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014, nn. 96 e 229 del 2015). Anche questa legge è intrinsecamente omicida: il tecnico di laboratorio ben sa che le sue azioni libere producono esseri umani quasi certamente destinati alla morte e tali morti sono persino desiderate in un’ottica di prevenzione delle gravidanze plurigemellari (Aborto & 194, pp. 82-90). Non è dato conoscere il numero esatto di tali perdite, ma per un tentativo di stima si veda C. Chiessi, F. Fuiano, F. Scifo, Una difesa della vita senza compromessi, Aracne, Roma, 2020, pp. 228ss. L’aspetto ancor più inquietante della fecondazione artificiale sta nell’immenso numero di embrioni sovrannumerari crioconservati che rimangono imprigionati in quelli che, il grande genetista Jérôme Lejeune (1926-1994), definiva “campi di congelamento” (per un approfondimento sulla crioconservazione si veda G. Brambilla, Riscoprire la Bioetica, Rubbettino, Catanzaro 2020, pp. 269ss).Si può dunque rispondere alla domanda iniziale con le parole del compianto prof. Mario Palmaro (Aborto & 194, p. 47): «Occorre sgomberare il campo da un equivoco piuttosto clamoroso […]. Mi riferisco all’idea in base alla quale la legge 194 sarebbe stata voluta originariamente con ottime intenzioni, e quindi possederebbe in sé un nucleo sostanzialmente “buono”; e che solo nella sua applicazione concreta si sarebbe verificato un equivoco che ne avrebbe capovolto scopi e risultati. Questo giudizio è semplicemente, oggettivamente falso. La lettura della legge 194, la conoscenza degli atti parlamentari che hanno affiancato la sua approvazione, le modalità della sua applicazione, le decisioni della Corte costituzionale e del giudice di merito confermano un dato inconfutabile: la legge 194 voleva legalizzare l’aborto con la massima ampiezza, e questo risultato è stato obiettivamente raggiunto».