mercoledì 31 maggio 2023

La strategia del depistaggio dei traduttori della Bibbia: cambiare il nome ai peccati








































INVESTIGATORE BIBLICO


Indizio n.138 Bibbia CEI 2008: “La strategia del depistaggio dei traduttori: cambiare il nome ai peccati: Prima lettera ai Corinzi – parte III” di INVESTIGATORE BIBLICO




Avevo già scritto due articoli paralleli a riguardo.

Non capisco se la CEI 2008 sia stata colta da un’ondata di bigottismo insensato, oppure sia il solito nebbione calato sui significati per rendere ambiguo e generico il testo.

Va bene, lettori, la verità. L’ho capito benissimo. E anche voi. Siamo tutti abbastanza intelligenti da non farci prendere in giro.

Rilancio i due vecchi link della serie, per vostro approfondimento: Indizio n.68 e Indizio n.69.

Andiamo, quindi al testo. E cercheremo di capire se si tratta di bigottismo di inizio millennio (una nuova strana forma), oppure il solito tocco di ‘politically correct’, nei confronti dei ‘pazzi per il sesso’, che sia dritto o al rovescio. Corretti verso cosa, poi, spiegatemelo.

CEI 1974: “9Vi ho scritto nella lettera precedente di non mescolarvi con gli impudichi. 10Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolàtri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è impudico o avaro o idolàtra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”. (1Cor 5,9-11)

VULGATA: “9 Scripsi vobis in epistula: Ne commisceamini fornicariis.10 Non utique fornicariis huius mundi aut avaris aut rapacibus aut idolis servientibus, alioquin debueratis de hoc mundo exisse!11 Nunc autem scripsi vobis non commisceri, si is, qui frater nominatur, est fornicator aut avarus aut idolis serviens aut maledicus aut ebriosus aut rapax; cum eiusmodi nec cibum sumere. (1Cor 5,9-11)



CEI 2008 : « Vi ho scritto nella lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità. 10Non mi riferivo però agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”. (1Cor 5,9-11)

Ebbene, avrete già notato la differenza fra le traduzioni, con il termine “impudico”, utilizzato dalla 1974, “fornicator” dalla Vulgata, e, best by test, la solita traduzione 2008 fuori dal coro: “immorale”.

Approfondiamo con il greco.

Il termine è “pornos”, da “porneia”, che nel vocabolario di greco biblico del Buzzetti Carlo (edizione del 1994) si traduce con: impudicizia, immoralità di tipo sessuale, prostituzione, adulterio, concubinato.

Il termine usato da San Paolo è chiaro. Non ci sono ambiguità.

San Girolamo, successivamente, utilizza “fornicator”, e fino a qui nessuno si può confondere.

Poi arrivò la 2008 con “immoralità”. Un termine generico, senza dubbio.

Sicuramente nella parola immorale possiamo trovare il gioco d’azzardo, ubriacarsi fino al tracollo, picchiare una signora anziana, sfottere un disabile, prendere a calci un criceto, innamorarsi di Hitler, lanciare la nonna dalla finestra, eccetera.

Comprenderete la mia ironia di questa sera, lettori, perché non mi resta altro.



Ma facciamo ancor più approfondimento, seppure ripetitivo.

Andiamo a vedere come la Treccani definisce la parola “immorale”.

E la parola “impudico”.

Quale delle due definizioni secondo voi si avvicina di più al termine greco “porneia”?

Chi mi da la risposta esatta vince un pupazzo a forma di investigatore biblico.

Bene, lettori, questa sera un po’ di sano sarcasmo.

La domanda è tutta vostra, con relative risposte e discussioni: la CEI 2008 è stata colta da un irrefrenabile attacco di bigottismo puritano oppure intendono celare il significato, perché l’epoca ce lo impone?

Se tolgo il riferimento diretto, forse cambierò l’etica nella sua essenza?

Mmhh…non credo. Però ci provano… eccome se ci provano!

Investigatore Biblico







martedì 30 maggio 2023

Fulton Sheen e la conversione della comunista americana




La Grazia può raggiungere chiunque. Bella Dodd era l'astro nascente del comunismo americano e riuscì a far infiltrare oltre mille giovani in seminario per diventare sacerdoti... ma la Provvidenza aveva altri piani per leiFulton Sheen e la conversione della comunista americana





di Rino Cammilleri, 29 maggio 2023

Il venerabile Fulton John Sheen era un pastore della tempra di sant'Ambrogio: inflessibile sulla dottrina, paterno con l'umana debolezza, predicatore eccezionale (fu proprio ascoltando i sermoni di sant'Ambrogio che sant'Agostino si convertì).

Sono note le sue trasmissioni prima radio e poi televisive con cui batteva ogni record di ascolti e teneva avvinti milioni di americani, anche non cattolici.

A differenza dei telepredicatori protestanti, la sua non era un'esposizione apocalittica, con uso di toni drammatici e abbondanza di riferimenti all'Inferno. No, solo logica e paradossi alla Chesterton, di cui tra l'altro era amico. E, soprattutto, un sapiente intercalare di fine umorismo, inframmezzando nei punti giusti quelle battute di cui il pubblico americano è ghiotto. Uomo di profonda cultura, trovava anche il tempo di aggiungere agli impegni come arcivescovo i numerosi libri che ancora oggi istruiscono gli incerti e rianimano gli sfiduciati.


Una donna promettente

Molti quelli che dovettero a lui la conversione. Come Clare Boothe Luce, poi famosa e battagliera ambasciatrice statunitense a Roma. E la meno nota (leggendo il seguito si capirà perché) Bella Dodd, la cui conversione non fu inferiore in importanza - importanza sociale e politica, intendo; dal punto di vista spirituale, infatti, hanno tutte la stessa importanza - e sulle cui tracce mi sono messo incuriosito da un articolo sull'agenzia Aletheia.org del 6.12.22.

«Bella» perché era italiana e si chiamava Isabella. Per l'esattezza Maria Assunta Isabella Vissono ed era lucana di Picerno, in provincia di Potenza. Nata nel 1904, si accorse anche lei che gli americani non amavano gli immigrati che non si sforzavano di integrarsi. A cominciare dal nome. Dei suoi tre, il secondo non era americanizzabile. Il primo si, ma lei, tendente all'ateismo, non lo prese nemmeno in considerazione. Invece, «Bella» agli americani ricordava i tempi del saloon del vecchio West. E Bella fu. «Dodd» era il cognome del marito, che mantenne anche dopo il divorzio perché sempre meglio di Vissono. Sveglia e portata agli studi, grazie a una borsa di studio statale poté frequentare la prestigiosa Columbia University. Si laureò in giurisprudenza e divenne avvocato, nonché docente di scienze politiche all' Hunter College di New York. In breve fu a capo della New York State's Teachers Union, l'associazione che riuniva i docenti dello Stato. Animo battagliero e da suffragetta, nel 1932 si iscrisse al partito comunista americano (CpUsa), scalandone la cima, tanto che in dieci anni arrivò a far parte del consiglio nazionale.


Il partito come religione


Grazie all'amico Fiorello La Guardia, sindaco di New York, riusciva ad avere tutti i congedi sul lavoro che le servivano per dedicarsi al suo vero scopo nella vita: l'attivismo nel partito. Nel 1930, nel corso di un lungo viaggio in Europa, conobbe John Dodd, con il quale si sposò nello stesso anno. Durante la Guerra civile spagnola lui e lei si attivarono per spedire quanti più volontari potevano a combattere nelle file dei repubblicani. Nel 1940 lui abbandonò il tetto coniugale per imprecisate divergenze ideologiche. Dopo avere visto film Come eravamo, con Barbra Streisand e Robert Redford (un classico), sospettò che lui, pur comunista, a un certo punto non ne abbia potuto più del fanatismo di lei. Ancora dieci anni, anzi nove, ed ecco la mazzata finale: venne espulsa dal partito. La scusa ufficiale fu che lei, avvocato, aveva assunto le difese di un proprietario contro il suo affittuario. Un avvocato comunista dalla parte di un padrone? Non sia mai. L'affittuario doveva essere anche nero, tant'è che le appiopparono della «razzista» e infine, come tutti gli epurati a sinistra, della «fascista». Il che lascia pensare che Bella fosse incappata in una delle tante purghe interne Stalin-style con cui periodicamente i comunisti rinnovano i ranghi. 


La conversione 

Solo che per lei il partito era tutto. La sua vita, la sua ragione di esistere e vivere. Per esso aveva rinunciato a ogni cosa, perfino a suo marito. E ora? II senso di sbandamento, solitudine, straniamento, angoscia, delusione che deve provare qualcuno finito in tale situazione deve essere abissale. Ovviamente, i vecchi compagni le fecero il vuoto attorno. Solo che non ne aveva altri. Intanto la stampa si era impadronita del suo caso. Bella era stata un'esponente di sinistra molto in vista e ben nota per le sue battaglie. Nel 1951, a New York, dove lei stava, arrivò come vescovo ausiliare Fulton Sheen. Non si sa bene in quale occasione i due si incontrarono. Tra i compiti nel partito, Bella Dodd aveva anche quello di infiltrare comunisti nei seminari cattolici. Perciò doveva avere qualche dimestichezza con il palazzo vescovile. Ma questa volta qualcosa si era rotto e si ritrovò a singhiozzare sulla spalla del magnetico Sheen. E poi, non si sa come, in ginocchio nella cappella dove lui l'aveva portata. Scrisse in seguito che non avrebbe saputo dire come e perché, ma si era inginocchiata disperata e si era rialzata con una pace profonda nel cuore. Sheen, dopo, le disse che lei aveva odiato il cristianesimo perché non lo conosceva. Era laureata, aveva il dovere di studiarlo. E cosi fu. Bella Dodd, sotto la guida del vescovo, compì la sua istruzione catecumenale e il 7 aprile 1952, lunedì della Settimana Santa, ricevette il battesimo dalle mani di Sheen nella Cattedrale.



Un piano per sovvertire la Chiesa


Scrisse un libro, School of Darkness, nel quale spiegò come il comunismo proponeva una specie di religione della giustizia sociale che faceva presa sui semplici. E anche sui cattolici, che erano più attenti alle istanze degli ultimi. Parlò dei potentati economici, non solo americani, che finanziavano il comunismo per plasmare e soggiogare le masse, e soprattutto distruggere il cristianesimo. Per quest'ultimo scopo, secondo le direttive di Mosca, lei stessa aveva convinto "almeno 1.200 giovani" a entrare nei seminari, onde farli diventare sacerdoti e vescovi per corrodere la Chiesa dall'interno. Perché la Chiesa cattolica? Perché era la meglio organizzata anche sul piano internazionale. Quando venne convocata al Senato per riferire di queste attività, dichiarò che sapeva di almeno quattro cardinali che in Vaticano lavoravano per il partito comunista. Alla commissione senatoriale raccontò di come i comunisti fossero presenti in numerosi uffici legislativi del Congresso e in alcuni gruppi che fornivano consigli di settore al Presidente. Oltre alle presenze nei sindacati e altre istituzioni di rilievo, naturalmente. Bella Dodd morì nel 1969, a causa di un intervento chirurgico.


Titolo originale: Il vescovo e l'agit-prop



Fonte: Il Timone, aprile 2023 (n. 227) - Pubblicato su BastaBugie n. 818



lunedì 29 maggio 2023

Chi fu veramente don Lorenzo Milani?




Chi fu veramente don Lorenzo Milani, il sacerdote di cui il 27 maggio è stato celebrato, in pompa magna, il centenario della nascita?




Roberto De Mattei, 27 maggio 2023

Le note biografiche sono queste: don Lorenzo Milani nacque a Firenze il 17 maggio 1923, da una famiglia della borghesia agiata, e a Firenze morì il 26 giugno 1967. Dopo una vita piuttosto libera si convertì, entrò in seminario, fu ordinato sacerdote nel 1947. Frutto della sua prima esperienza nella parrocchia di San Donato di Calenzano, fu un libro dal titolo Esperienze pastorali, che suscitò molte polemiche, fu censurato dalla Chiesa e gli costò il trasferimento in una parrocchia di montagna, a Barbiana nel Mugello, dove volle sperimentare una nuova pedagogia scolastica, di cui riassunse le linee in un altro libro dal titolo Lettere a una professoressa, che fu pubblicato nel 1967, ebbe grande successo e fu considerato uno dei testi di riferimento della Rivoluzione studentesca del 1968. Don Milani morì pochi mesi dopo, e subito iniziò la glorificazione della sua figura e della sua pedagogia.

Don Milani era fautore di una scuola a tempo pieno, 365 giorni su 365, radicalmente ugualitaria, in cui ogni differenza di classe fosse abolita. Don Milani era infatti convinto che tutti i mali della scuola italiana derivassero dall’’odio delle classi privilegiate verso i poveri e, incitava i ragazzi alla lotta di classe contro i ricchi. Ha ragione lo scrittore Pucci Cipriani, quando afferma che don Milani è uno dei principali responsabili della distruzione della scuola italiana, per l’influenza che hanno avuto le sue idee, soprattutto negli ambienti cattolici. Eppure don Milani fu condannato da due grandi cardinali di Firenze, Elia Della Costa e Ermenegildo Florit. Tra il cardinale Florit e don Milani ci fu nel 1966 un incontro tempestoso. Florit, che pure si era sempre mostrato sempre paterno e benevolo verso il sacerdote ribelle, dopo quest’incontro definì don Milani un “tipo orgoglioso e squilibrato”, affetto da “mania di persecuzione” e “egocentrismo pazzo”. Don Milani, che odiava Florit, lo definì a sua volta “deficiente” e “indemoniato”. Questi erano i suoi rapporti con le autorità ecclesiastiche, simili a quelli che aveva don Enzo Mazzi, il parroco dell’Isolotto, che quando morì nel 2011 volle i funerali civili e chiese di essere cremato. Ma oggi l’arcidiocesi di Firenze e la Conferenza Episcopale Italianaonorano don Lorenzo Milani come un profeta.

Pucci Cipriani e Pier Luigi Tossani, entrambi profondi conoscitori del “donmilanismo”, sono autori di una lettera aperta scaricabile dal blog Soldati del Re: (https://soldatidelre.it/don-milani-e-stato-veramente-un-maestro/). La missiva che porta il titolo “Circa le imminenti iniziative di commemorazione del priore di Barbiana, raccomandiamo la ricerca della verità”, analizza il progetto educativo di don Milani, la sua visione classista della società, il suo “cuore tenebroso”, le sue pulsioni omosessuali e pedofile. Per chi volesse approfondire la figura e l’ideologia di don Milani dal punto di vista della Chiesa, consiglio anche la lettura del libro Incontri e scontri con Don Milani, del teologo domenicano padre Tito S. Centi (1915-2011), che si può scaricare sull’ottimo blog Totus tuus: https://www.totustuus.cloud/prodotto/p-t-s-centi-o-p-incontri-e-scontri-con-don-milani/

Pucci Cipriani ha più volte mostrato, anche in convegni a cui ha partecipato, il rapporto che lega l’ideologia di don Milani al “Forteto”, la cooperativa agricola nel Mugello, nata per raccogliere bambini in difficoltà, che si è rivelata essere un luogo di stupri e violenze. Il responsabile di questi abusi, Rodolfo Fiesoli, è stato condannato a quattordici anni e dieci mesi con fine pena nel 2033, per violenza sessuale e maltrattamenti, ma dopo meno di tre anni e mezzo passati in carcere, dal mese di marzo 2023 è ai domiciliari. Fiesoli si richiamava a don Milani e nel 2001 era in testa alla Prima marcia di Barbiana, un evento che da allora si ripete ogni anno, accanto a Michele Gesualdi, anch’egli ex allievo di don Milani e all’epoca presidente della Provincia.

A Rodolfo Fiesoli, il violentatore del Forteto, era stata affidata la realizzazione del progetto Barbiana finanziato con fondi europei. Tutti erano esponenti del cattocomunismo toscano, che negli anni del Sessantotto esaltava la disobbedienza religiosa e civile e che secondo Pier Luigi Tossani aveva in sé i germi del “protobrigatismo rosso”.

Ecco questo, in breve, fu don Lorenzo Milani a cui hanno reso omaggio il 27 maggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente della Conferenza Episcopale Matteo Zuppi, recandosi in pellegrinaggio a Barbiana. Il Comitato nazionale delle celebrazioni per il Centenario della nascita di don Milani, è presieduto da Rosy Bindi. Per tutti costoro don Milani è un maestro. Per noi, con tutta la compassione che si può avere per la sua anima, fu un distruttore della scuola italiana e, per le sue idee, un corruttore intellettuale e morale della gioventù.






Peccato o fragilità? La rivoluzione linguistica nella Chiesa



“Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente. “Fragilità” invece abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. E così vale per dottrina/pastorale, Creato/ambiente, Giustizia/misericordia. Viaggio nella rivoluzione linguistica della Chiesa.



TEMPI MODERNI

EDITORIALI

Tommaso Scandroglio, 29-05-2023

Ogni rivoluzione porta con sé anche una rivoluzione linguistica perché cancellare una certa realtà per sostituirla con una nuova comporta, in parallelo, cancellare tutti quei termini che definiscono la realtà presente per far posto ad un nuovo vocabolario capace di descrivere il mondo nuovo che, per definizione, è sempre migliore di quello vecchio. Anche le rivoluzioni in casa cattolica che investono fede e morale non sfuggono a questa regola lessicale. Qualche esempio.

Prendiamo innanzitutto la parola “peccato” che ha subìto un severo ostracismo a favore del termine “fragilità”. “Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente, una volontarietà espressa dalla persona e dunque una sua responsabilità. Ne consegue che, nell’immaginario collettivo, associato a “peccato” abbiamo concetti come comandamento, errore, ingiustizia, colpa, riparazione, pena. “Fragilità” abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. Infatti tale lemma fa più riferimento all’essere –. “E’ persona fragile” – che all’azione, alle condotte. Ma la morale riguarda soprattutto l’agire e dunque le regole di comportamento. Ne consegue che la fragilità è abile a liberarsi dalle strettoie della morale.

E poi la fragilità, sempre nella coscienza collettiva e sotto la prospettiva psicologica, può essere connaturata alla persona, dunque inevitabile e quindi priva di colpa. Inoltre – ed ora invece ci muoviamo sotto il profilo teologico – questo termine pare evocare, in senso protestante, quella condizione di intrinseca e irricuperabile debolezza della nostra natura umana ferita dal peccato originale. Ma anche in questo caso la fragilità è insopprimibile, non debellabile. Dunque non può suscitare nessuna condanna e, all’opposto, muove subito alla giustificazione della stessa e perciò alla solidarietà.

Va da sé poi che il concetto di fragilità esclude dal proprio orizzonte Dio, perché la fragilità non offende nessuno, tantomeno il Creatore, il quale entrerà in gioco semmai per sanare il fragile nella confessione, luogo che è diventato solo un’infermeria e non anche un tribunale dove ammettere le proprie colpe. La fragilità invece elimina questo aspetto e presenta il peccatore solo come un ferito che è tale senza sua colpa. Doveroso dunque assassinare il peccato per legittima difesa del quieto vivere.

Un altro termine che è andato in pensione è “dottrina”. Al suo posto troviamo “pastorale”. Non esiste più un plesso di norme e principi di fede e morale che guida il credente nella prassi, che dovrebbe essere declinato dai pastori nell’azione evangelizzatrice. Questo rapporto gerarchico in cui la dottrina è al vertice e la pastorale è alla base è stato invertito.. Anzi, ad essere più corretti, potremmo dire che la pastorale coincide con la dottrina. E’ il contingente, il particolare che rivela la norma altrettanto contingente e particolare. Non c’è posto per la dottrina in questa idea di Chiesa, ma solo per un ponderoso manuale delle esperienze. Regole universali non esistono più: è la casistica a dettar legge. Le uniche regole universali sono principi generalissimi, buoni per tutte le stagioni, che con millanteria vengono desunti da un volutamente imprecisato spirito del Vangelo: l’apertura agli altri in specie agli ultimi, meglio se poveri; il dialogo; la non discriminazione, l’inclusività; il rispetto dell’ambiente; la solidarietà; etc.

Fermiamoci proprio sul sostantivo “ambiente” che ha mandato in soffitta “creato”. Segno, ancora una volta, che il braccio orizzontale della croce, orizzontale come la terra, deve vincere su quello verticale, che indica il Cielo. Dunque deve prevalere un visione immanentistica e non trascendente perché l’ambiente non ha bisogno di Dio per esistere, invece il creato sì. C’è da aggiungere che l’ambiente, in seno ad un ambiente religioso, diventa presto culto, seppur mascherato, di Gea, dea della Terra. La gerarchia dell’ordine naturale voluto da Dio viene rivoluzionato e così la persona diventa solo un animale umano, ma sempre animale è, il quale è subordinato, per conquistarsi il Cielo, ad onorare la Terra, ossia piante, animali e pure ghiacciai.

Colpita da oblio anche la parola “giustizia”, che è stata licenziata dal vocabolario cattolico a favore del termine “misericordia”. O meglio, il termine “giustizia” trova ancora una sua dignità solo se declinata come “giustizia sociale”, ossia solo se spesa in riferimento ai poveri, agli emarginati, ai malati, agli immigrati, etc. Ma quando spiccheremo il volo verso il Cielo, la giustizia rimarrà a terra e nell’Aldilà ci troveremo faccia a faccia solo con una misericordia divina che, nelle intenzioni di alcuni teologi, è così generosa che non guarda in faccia a nessuno e a niente, nemmeno ai peccati. E dunque dopo la fiducia cieca in Dio, ora dobbiamo predicare anche una misericordia cieca, cieca di fronte a meriti e a demeriti. Riguardo a questi ultimi, regnerà sovrana la forza del perdono che, dopo così tante e insistenti operazioni di chirurgia plastica teologica, sarà irriconoscibile tanto che verrà chiamato “condono”.

Sbianchettata anche la parola “gerarchia” perché il nuovo che avanza si chiama sinodo (che tanto nuovo non è). Il camminare insieme senza meta, inseguendo con tenacia come unico scopo lo stesso camminare insieme, è il sinodo, l’inedito organo di governo della Chiesa che, privo idealmente di gerarchia, produce una marcia dei fedeli inevitabilmente in ordine sparso. Il caso tedesco è in tal senso paradigmatico. In realtà è tutta una voluta finzione: storicamente chi ha sempre parlato di collegialità, di democrazia, di condivisione, lo ha fatto perché strumentalmente utile al proprio autoritarismo. Dietro lo scudo della sinodalità si nascondono i soliti quattro che non vogliono mollare il potere. La massa è facilmente pilotabile, soprattutto se nella dinamica sinodale si fa partecipe solo chi la pensa come chi sta nella stanza dei bottoni: il consenso viene costruito ad arte e così irrobustisce la forza di pochi. Se poi il popolo di Dio non si orienta come vogliono lor signori i controllori, basterà non ascoltarlo. Questo processo che vede la sinodalità usata surrettiziamente per consolidare il potere è antitetico al principio gerarchico, così come inteso in senso cattolico. Sia perché la gerarchia non prevede l’annientamento dei poteri intermedi a favore del potere di uno solo, sia perché la gerarchia cattolica significa servizio, sia perché la gerarchia degli uomini di Chiesa è sempre subordinata alla gerarchia celeste e dunque alla verità.

Un’ultima coppia di lemmi, tra gli infiniti che si possono citare: fede e dubbio. La fede è stata rottamata perché nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge la seguente "bestemmia": “la fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire” (n. 157. Notare il corsivo, che non è nostro). Oggi invece viene insegnata la fede nel dubbio: non risposte ma domande, non punti esclamativi ma interrogativi, non luce ma oscurità. Dio non si è rivelato, ma lo possiamo vedere solo dal buco della serratura della nostra personalissima coscienza e si muove pure in una stanza immersa nel buio. La verità appare rigida, non malleabile, così scomoda perché non ergonomica per le delicate anime dei contemporanei tanto versate al compromesso. Ecco allora il dialogo fine a se stesso, la celebrazione delle crisi di fede, la dottrina liquida, anzi gassosa, la priorità dei processi sul risultato, del cammino sulla meta, della ricerca sugli esiti. L’unica liturgia ammessa è quella che celebra l’ambiguo – e ci stupiamo della benedizione ecclesiale dell’omosessualità? – a danno dell’inequivocabile, che incensa il problema e non la soluzione, il relativo e non l’assoluto, come gli assoluti morali. Questa è l’unica certezza da coltivare: che non si hanno più certezze.






Pensiero moderno, protestantesimo, teologia cattolica




Venerdì scorso, 26 maggio 2023, Stefano Fontana ha tenuto una conferenza a Cremona, nella sala del Convento di Padri Barnabiti [nella foto la chiesa di san Luca attigua al convento] sul tema “Cattolici di fonte alle nuove sfide: che fare?”, organizzata dal Gruppo laico “Giuseppina Ghisi”. Ha introdotto i lavori Mauro Faverzani.

Pubblichiamo di seguito la parte iniziale della relazione, riguardante l’inaudito inizio del pensiero moderno, che ha posto le basi per tutte le successive sfide alla Chiesa cattolica e ai laici cattolici.





Stefano Fontana, 29 MAG 2023

All’inizio della modernità, come ha dimostrato padre Cornelio Fabro, è avvenuto qualcosa di inaudito. Il pensiero umano ha preso una strada che avrebbe condotto inevitabilmente all’espulsione di Dio. Quel primo passo compiuto da Cartesio era tale da impedire di pensare Dio come realmente esistente. Infatti, il pensiero moderno fin dall’inizio pensa che “nulla ci sia fuori della coscienza” (Lévinas) e, quindi, anche Dio è al massimo un fatto di coscienza. Il pensiero moderno si fonda sul “principio di immanenza” ed è quindi filosoficamente ateo, nonostante molti suoi protagonisti siano stati e siano credenti. Immanenza vuol dire “da dentro”. Se tutto è visto da dentro la coscienza, allora tutto è dentro la coscienza e la coscienza diventa l’ambito originario, definitivo e non trascendibile di ogni nostro conoscere. Siamo prigionieri di un contesto da cui non possiamo uscire.

Il pensiero moderno è filosoficamente agnostico. Tutto quello che si può conoscere altro non è che una nostra rappresentazione. La conoscenza di una realtà oggettiva è impossibile. La filosofia moderna è narcisista, vede solo la propria immagine, è ideologica, considera realtà una propria visione, è totalitaria, forza la realtà a conformarsi a essa stessa, è post-veritativa e post-metafisica, è autodeterministica, in quanto determina se stessa da sola, senza nessun vincolo ad essa precedente, è volontaristica, perché si fonda su un originario atto di porre se stessa, suo unico criterio è l’effettualità e i propri contenuti sono veri solo in quanto da essa posti, è modernista, perché tutto si svolge nella coscienza e nella sua evoluzione storica e situazionale, è nichilista, perché si autoproduce con il nulla intorno e rimane sempre chiusa nel nulla delle proprie immagini, è tempo, un susseguirsi di immagini delle quali nulla resta.

Il pensiero moderno rimane chiuso nella coscienza, la quale si evolve storicamente. L’uomo è sempre “dentro” (principio di immanenza) ad essa e, siccome essa si evolve storicamente, l’uomo è sempre dentro le situazioni storiche che egli vive, non ha una natura che ne permetta l’emergenza, vede tutto dal punto di vista della sua situazione, ossia in modo relativo, processuale, incerto e indefinito. Gli è impedito di accedere ad un ordine reale e a dei fini oggettivi (e ancor più al fine ultimo), egli può accedere solo a dei progetti propri. La metafisica viene sostituita dall’ermeneutica. L’esistenza precede l’essenza dell’uomo ed egli non è, ma si fa, l’essere è tempo. La sua natura è di essere senza natura.

Una simile impostazione avrebbe pian piano generato un ateismo sistemico: dapprima un ateismo filosofico, poi un ateismo politico, un ateismo sociale, un ateismo educativo e perfino un ateismo religioso. Infatti, nella modernità nasce l’ateismo come religione, frutto di una fede, privo di argomentazioni, creduto e non saputo, dogmatico seppure in senso immanentistico. La filosofia moderna nasce subito atea, contro Dio, ma con una forza anti-teistica di tipo religioso. In precedenza, nulla di ciò era mai accaduto.

Nel passato, mentre la Chiesa cattolica si opponeva all’alluvione, la Riforma protestante ne accoglieva tutte le esigenze. Il Luteranesimo presuppone l’ateismo filosofico e va d’accordo con esso. Separa, infatti, la ragione dalla fede e non assegna alla prima nessuna capacità conoscitiva di un ordine naturale finalistico. Che Dio possa essere solo il “Dio per me”, per la mia coscienza e nella mia coscienza, al protestante va bene. Che nulla ci sia fuori della coscienza, come ritiene il pensiero moderno, al protestante va pure bene, come anche che la rivelazione sia in fondo un fatto di coscienza, che avvenga nella coscienza dell’umanità, come dicevano un tempo i modernisti e come dicono nel nostro temo Karl Rahner e i suoi seguaci. Al protestante va anche bene che la religione sia un fatto privato, che non riguarda la vita sociale e politica, nella quale, secondo lui, il cittadino va separato dal credente. Un ruolo pubblico della religione cristiana non esiste per lui, nella società e nella politica i credenti devono essere invisibili. La società e la civiltà cristiane sono delle aberrazioni per Barth, Bonhoeffer o Gogarten.

Questa differenza di impostazione tra protestantesimo e cattolicesimo, così forte in passato e così importante per preservare il cattolicesimo dall’ondata ateistica della modernità, oggi sembra essere venuta meno. La teologia protestante ha influito sulla teologia cattolica. Oggi, molta parte della teologia cattolica rifiuta la metafisica, crede che l’uomo sia solo storia e non più natura, ha una concezione evolutiva del dogma, pensa che la dottrina dipenda dalla pastorale, ritiene di dover cambiare completamente la propria teologia morale riconsiderando i temi della coscienza (che diventa “creativa”), delle circostanze (che da accidentali diventano sostanziali), del giudizio morale (che è impossibile per una cronica mancanza di conoscenze), del discernimento (che è produttivo della norma è trasforma le circostanze in eccezioni), della virtù (che non è più il vivere secondo ragione) e del peccato (che è impossibile conoscere) e in particolare negando l’esistenza di azioni intrinsecamente cattive. Essa riconsidera il quadro del sapere teologico, ponendo al vertice non la dogmatica ma la teologia fondamentale o l’antropologia, quando non addirittura le scienze umane, rifiuta il ruolo apologetico della ragione rispetto alla fede, pensa che la Chiesa non possa vantare un primato dell’annuncio della verità rispetto al mondo, crede che la rivelazione di Dio avvenga nella storia dell’umanità dentro la quale vive anche la Chiesa come sua componente, accetta la deellenizzazione del cristianesimo di origine protestante, cioè la trasformazione del dogma da metafisico a esistenziale, e la demitizzazione del cristianesimo, pure di origine protestante, distingue a fatica tra Chiesa docente e Chiesa discente, non educa più al giudizio sulla realtà perché per farlo bisogna intendersi come trascendenti rispetto alla realtà che si vuole giudicare, mentre la teologia odierna non ritiene possibile uscire dallo “Sitz im Leben” ossia dal contesto di vita vissuta.

Stefano Fontana




sabato 27 maggio 2023

Parigi-Chartres: il rito antico spopola tra i giovani




Malgrado le restrizioni, le giovani generazioni sono così attratte dalla liturgia tradizionale che lo "storico" pellegrinaggio francese deve chiudere le iscrizioni: i posti non bastano. Tra loro anche molti partecipanti alla GMG. I numeri e l'età media parlano da soli: la Tradizione non è indietrismo, è il futuro.



CONTROTENDENZA

Luisella Scrosati, 27-05-2023

Compie quarant’anni il Pellegrinaggio della gioventù francese Parigi-Chartres, organizzato dall’Associazione Notre-Dame de Chrétienté. E quest’anno, per la prima volta, gli organizzatori hanno dovuto comunicare a malincuore di non poter accettare più ulteriori iscrizioni. Overbooking. Resta solo ancora qualche posto per la fascia 13-17 anni, ma la realtà, scrivono gli organizzatori, è impietosa: «la dimensione dei bivacchi, il numero di tende che vi si possono installare, la lunghezza della colonna in movimento, che supererebbe le 2 ore, ritardando troppo l'arrivo degli ultimi pellegrini».

Una colonna di 16.000 giovani pellegrini e quattro treni prenotati per il ritorno a Parigi: è partito così, oggi, lo storico pellegrinaggio nato senza troppi clamori nel 1983, come pellegrinaggio del Centre Henri Charlier, segno della Francia cattolica e dall’animo monastico, che voleva reagire alla decristianizzazione e all’impietosa secolarizzazione. Già due anni dopo i pellegrini potevano entrare nella cattedrale di Chartres per celebrarvi la Messa conclusiva. Con la crisi delle ordinazioni episcopali da parte di Mons. Marcel Lefebvre, le porte della cattedrale resteranno chiuse fino al 1989, quando Giovanni Paolo II, con il Motu Proprio Ecclesia Dei afflicta, riconoscerà un posto nella Chiesa a tutte le realtà, piene di giovani famiglie, legate al rito romano antico.

Da quando la Messa nel rito antico ha conosciuto nuove restrizioni, i partecipanti al pellegrinaggio sono aumentati a dismisura. Effetto Traditionis Custodes? Forse. In ogni caso dovrebbe essere l’ “effetto Gamaliele” a far riflettere le autorità ecclesiastiche e farle ritornare sui propri passi; per non ritrovarsi a combattere contro Dio. Tanto più che un sondaggio realizzato dal quotidiano La Croix (vedi qui e qui) tra 30 mila giovani francesi che parteciperanno alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, rivela che quasi il 40% di loro apprezza la Messa in rito antico; altrettanti ritengono di non esserne attratti, ma non sono contrari, mentre appena un 12% pare aver interiorizzato la stigmatizzazione dell’indietrismo, ritenendo che il Rito antico costituisca un inutile ritorno al passato. Questo è per chi non ha occhi che per i numeri; ma se qualcuno volesse rendersi conto della realtà, il che non guasterebbe, basterebbe parlare con questi giovani. Come ha fatto Matthieu Lasserre per il quotidiano francese di ispirazione cattolica.

Jeanne è una mamma di 28 anni, e non proviene da una famiglia tradizionalista; eppure, ama la Messa nel Rito romano antico, perché avverte «questa sensazione di essere là per Cristo. Dimentico chi è il sacerdote, la cui personalità passa in secondo piano, e sono rivolta verso l’essenziale». Un bell’aiuto per sostenere la lotta di papa Francesco al clericalismo. Ma c’è anche altro ad attrarre alla Messa antica, come spiega Élodie: « Prego con il messale della mia bis-bis nonna. Ho l’impressione d’inserirmi nel prolungamento delle radici della Chiesa e di tutti i grandi santi che hanno pregato con queste stesse parole».

Lo storico del cattolicesimo, Paul Airiau, spiega così il successo della Messa in latino tra le giovani generazioni: «L'interesse del rito tridentino è quello di offrire un pacchetto completo che appare efficace. È una coerenza musicale e rituale, con la garanzia di una stabilità delle forme, qualunque sia il luogo. E funziona, perché questo set è spiegato in connessione con una certa visione della Chiesa e del mondo. C'è una dimensione molto strutturante con una formazione politica, spirituale, teologica e filosofica e una dimensione assoluta specifica della gioventù».

Stabilità, coerenza, visione, assoluto: antidoti formidabili alla fluttuante e liquida “cultura” del relativismo; nella quale evidentemente questi giovani non si trovano a loro agio. E cercano altro: altro, non un prolungamento del mondo verniciato di spiritualità. Aspetti che lo stesso Airiau riconosce come attrattivi anche nei confronti di quei giovani che avevano abbandonato la pratica della fede. Pur con giusta prudenza, ma è un fatto che le comunità legate al rito antico risultano molto aperte verso “quelli di fuori”: «è una dinamica che non è nuova, ma che è stata sottostimata. Ormai esiste un’ibridazione tra la gioventù tradi e quella non tradi».

Altro dato di grande interesse è il fatto che questi giovani non si fanno troppi problemi a frequentare sia il rito antico che quello riformato. Questa «fluidità liturgica» che si registra, non è tuttavia indifferentismo, perché questi giovani tendono a conservare alcuni elementi del rito antico, che hanno imparato ad apprezzare. Come quello di ricevere la Comunione in ginocchio e sulla lingua. L’intento del Summorum Pontificum, cassato dal Papa, rivive nei giovani?

Non solo sensibilità liturgica. I giovani che andranno alla prossima GMG si dimostrano in controtendenza rispetto alle generazioni che li hanno preceduti ed appaiono decisamente più “conservatori”. Un termine che in realtà è ideologizzato, e che non è in grado di «rendere conto delle molteplici dimensioni della vita di fede», scrive Jerôme Chapuis. E militanti: «Questi giovani della GMG sono impegnati non solo nella Chiesa, ma anche nella società, spesso con i più poveri. Si allenano intellettualmente». Una realtà ben viva, decisamente diversa rispetto a quello che viene per lo più presentato come un mondo di nostalgici, un po’ ai margini della vita della Chiesa.

Anche il sociologo Yann Raison du Cleuziou deve ammettere che «sorprendentemente, il sondaggio mostra la forza del conservatorismo tra i giovani cattolici». La sorpresa è solo per chi ha dovuto attendere i risultati di un sondaggio per comprendere i tratti di una realtà che aveva già sotto gli occhi.

C’è un altro elemento di interesse, ad emergere: «Fatto nuovo, i giovani cattolici di destra hanno più esperienza militante di chi si dice di centro o di sinistra. Si permettono di condurre battaglie conservatrici, ad esempio facendo campagne su questioni di bioetica (35%) o di moralità sessuale (32%)», spiega ancora du Cleuziou. «Nella misura in cui il cambiamento sociale rimane molto apprezzato nella società, questo conservatorismo non li rende guardiani dell'ordine stabilito, ma paradossalmente dei contestatori». Una realtà ben diversa da quella che il sociologo francese chiama di centro-sinistra ed ecologista, e che si autodefinisce come «la generazione papa Francesco», caratterizzata da un maggiore conformismo.

E tuttavia questo spirito di contestazione che caratterizza i giovani “di destra” non li porta all’anarchia, ma li attacca ancora di più all’istituzione: «tra le diverse risposte proposte, la rappresentazione della Chiesa che raccoglie consensi maggioritari è quella di una Chiesa che, nella società, deve essere un “faro che indica la strada nelle tenebre” (59%)». Questi giovani evidentemente concordano con l’idea che Gesù stesso aveva della sua Chiesa e dei suoi pastori. Ed è per questa ragione che «non appena entrano in gioco le posizioni più conformi al magistero, sono sempre le sensibilità maggioritarie di destra a sostenerle, mentre la sinistra mantiene una posizione più distaccata». Al contrario solo il 7% identifica la Chiesa come «ospedale da campo».

Per esempio, sulla questione del ruolo delle donne nella Chiesa il 64% chiude definitivamente al diaconato e al sacerdozio femminile. E ben il 33% afferma che nella Chiesa si sentono più che riconosciute, mentre è la società civile, che non le tutela come madri di famiglia.

Chapeau all’onestà della redazione de La Croix. Questa è la realtà, questo è il futuro. Riusciranno prima o poi i nostri pastori a far pace con quello che lo Spirito opera nella Chiesa? Lo Spirito Santo, non lo spirito del Concilio.





venerdì 26 maggio 2023

L’iniqua 194 compie 45 anni: ha raggiunto il suo obiettivo?





24 Maggio 2023 ore 10:37



di Fabio Fuiano

La legge n. 194 intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza” è stata varata il 22 maggio del 1978 e abrogò il Titolo X del Codice Penale che sanzionava la pratica abortiva. Lunedì scorso sono dunque ricorsi i 45 anni dalla sua approvazione, dunque, urge ricordare il reale fine di tale norma e condurre un bilancio sulla misura in cui sia stato effettivamente raggiunto.

Nella stesura della 194, contrariamente a quanto si pensi, il legislatore aveva come scopo quello di legalizzare l’aborto volontario nella massima ampiezza possibile. Appare necessario specificare che cosa si intenda per “aborto volontario”, così da non confonderlo col cosiddetto “aborto spontaneo”. Il primo è la diretta ed intenzionale soppressione del concepito nel grembo materno, con relativa espulsione del medesimo (F. Roberti, P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Editrice Studium, 1955, pp. 9-10), il secondo è un evento che si verifica naturalmente, senza il concorso della volontà di qualcuno, per cui l’organismo della madre, ordinariamente a causa di una disfunzione patologica, non riesce a portare a termine la gravidanza.

Da un punto di vista morale, nel primo caso l’oggetto (o fine prossimo) dell’atto è la soppressione di un essere umano innocente, nel senso che (a) il concepito e la madre condividono la medesima natura o “sostanza” umana, per cui il fatto che nella madre vi sia una accidentale maggiore quantità di essere non le conferisce un maggior valore rispetto al figlio (R. Amerio, Iota Unum, Lindau, Torino, p. 384-386) e (b) il concepito non si trova nel grembo materno per procurare un danno alla madre: l’aggettivo “innocente” deriva infatti dal latino in-nocere, letteralmente “non nuocere” (M. Palmaro, Aborto & 194, Sugarco, Milano 2008, p. 226).

Nel secondo caso, propriamente, non si può parlare di “atto umano”, perché manca la libera volontà, ma solo di “atto dell’uomo” (similmente al respirare, digerire ecc.) e pertanto «cade al di fuori del dominio della morale» (R. Jolivet, Trattato di Filosofia, Tomo V, Morcelliana, Brescia 1959, p. 13).

Un atto umano, al contrario, viene moralmente identificato dal suo fine prossimo (Trattato di Filosofia, pp. 200-201). Vi possono essere poi dei fini ulteriori (o soggettivi) – dipendenti cioè dal soggetto agente – e delle circostanze in cui il soggetto agisce – che aiutano a definire le condizioni in cui tale atto si effettua, ma che, nel caso dell’aborto, non hanno il potere di cambiare la sua natura intrinsecamente malvagia (Trattato di Filosofia, pp. 204-205). Di fatto, anche se l’aborto venisse compiuto come mezzo per il fine ulteriore di “tutelare la salute della gestante”, il suo oggetto intrinseco, seppur subordinatamente, sarebbe comunque positivamente voluto da chi compie l’atto e ciò non è moralmente lecito.

La 194, sfruttando anche la confusione dei termini, ha legalizzato l’aborto volontario e favorito un contesto culturale in cui l’eliminazione del concepito innocente è considerata perfettamente normale. Perciò, essa è a tutti gli effetti una norma gravemente contraria all’ordine della ragione e alla legge morale naturale. Non avendo ragione di legge, cessa perciò stesso il suo carattere obbligante. San Tommaso d’Aquino direbbe che la 194 è piuttosto una corruzione della legge (Ia-IIae, q. 95, a. 2).

Ad oggi la 194 ha ottenuto tre principali macro-effetti che rientrano pienamente nella sua finalità:

1) ha legittimato la pratica abortiva, definendo una specie di “dogma laico” per cui la donna vanta un diritto di vita e di morte nei confronti del figlio. Ciò, come effetto immediato, ha prodotto circa 6 milioni di aborti, cifra mastodontica, ottenibile sommando gli aborti annuali ufficialmente riportati nelle relazioni del Ministero della Salute sull’applicazione della 194 dal 1978 ad oggi. Praticamente, da sola, è riuscita a spazzare via l’equivalente dell’intera popolazione della Danimarca (secondo i dati del Ministero degli Esteri Danese, 5.9 milioni di abitanti nel 2021).

2) ha legittimato la pratica contraccettiva, strettamente legata al primo punto, giacché aborto e contraccezione nascono da una radice comune: il sovvertimento del fine della sessualità umana, la quale è stata donata da Dio all’uomo non per il piacere creato, ma primariamente per cooperare con Lui all’opera della creazione (da qui il termine pro-creazione). Dom Francesco Pollien (1853-1936) nel suo capolavoro, Cristianesimo Vissuto (Edizioni Fiducia, Roma, p. 52) spiega ad un interlocutore ideale che il piacere creato è come l’olio per le ruote di una macchina: serve a facilitare il meccanismo.

Per tale motivo, esso ha la funzione di facilitare l’atto coniugale, ma non è di per sé un fine del medesimo. Così che, per dirla con Dom Pollien, «colui che si trastulla coi piaceri sensuali, ohimè! Diventa un bruto», fino al punto di uccidere i propri figli per rimuovere la naturale conseguenza di quell’atto.

Con l’avvento della cultura abortista e della 194, è anche aumentata la pratica contraccettiva, in special modo tramite pillole (come quella del giorno dopo – Norlevo – e quella dei cinque giorni dopo – EllaOne) che agiscono secondo meccanismi non solo contraccettivi, ma anche abortivi (R. Puccetti, G. Carbone, V. Baldini, Pillole che uccidono, ESD, Bologna pp. 29ss, 63ss, 115ss). Il risultato è che si verificano una quantità indefinita di aborti nascosti che perciò non possono essere conteggiati dalle relazioni ministeriali, le quali forniscono solo dati circa il numero di scatole vendute (Ministero della Salute, Relazione sulla legge 194/78, dati 2020, pp. 23-25, nel 2020 sono state vendute 283.503 e 266.567 scatole di Norlevo e EllaOne, rispettivamente). I sei milioni di aborti sono in realtà una sottostima.

3) ha legittimato la pratica della fecondazione artificiale, che è l’altra faccia della medaglia rispetto al punto precedente: se prima infatti si è voluto slegare la sessualità dalla procreazione, con questa pratica si slega la seconda dalla prima. La fecondazione artificiale in Italia è disciplinata dalla legge 40 del 2004, a tutti gli effetti figlia della 194, tanto da citare quest’ultima nell’art. 14, commi 1 e 4, quando la si propone come eccezione al divieto di soppressione di embrioni e di riduzione embrionaria di gravidanze plurime.

Negli anni, la Corte Costituzionale ha rimosso i limiti introdotti dalla legge 40, svelandone tutto il potenziale distruttivo (sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014, nn. 96 e 229 del 2015). Anche questa legge è intrinsecamente omicida: il tecnico di laboratorio ben sa che le sue azioni libere producono esseri umani quasi certamente destinati alla morte e tali morti sono persino desiderate in un’ottica di prevenzione delle gravidanze plurigemellari (Aborto & 194, pp. 82-90). Non è dato conoscere il numero esatto di tali perdite, ma per un tentativo di stima si veda C. Chiessi, F. Fuiano, F. Scifo, Una difesa della vita senza compromessi, Aracne, Roma, 2020, pp. 228ss. L’aspetto ancor più inquietante della fecondazione artificiale sta nell’immenso numero di embrioni sovrannumerari crioconservati che rimangono imprigionati in quelli che, il grande genetista Jérôme Lejeune (1926-1994), definiva “campi di congelamento” (per un approfondimento sulla crioconservazione si veda G. Brambilla, Riscoprire la Bioetica, Rubbettino, Catanzaro 2020, pp. 269ss).Si può dunque rispondere alla domanda iniziale con le parole del compianto prof. Mario Palmaro (Aborto & 194, p. 47): «Occorre sgomberare il campo da un equivoco piuttosto clamoroso […]. Mi riferisco all’idea in base alla quale la legge 194 sarebbe stata voluta originariamente con ottime intenzioni, e quindi possederebbe in sé un nucleo sostanzialmente “buono”; e che solo nella sua applicazione concreta si sarebbe verificato un equivoco che ne avrebbe capovolto scopi e risultati. Questo giudizio è semplicemente, oggettivamente falso. La lettura della legge 194, la conoscenza degli atti parlamentari che hanno affiancato la sua approvazione, le modalità della sua applicazione, le decisioni della Corte costituzionale e del giudice di merito confermano un dato inconfutabile: la legge 194 voleva legalizzare l’aborto con la massima ampiezza, e questo risultato è stato obiettivamente raggiunto».





Avvenire pubblicizza il 5 per mille a favore dell'ARCI




Una delle molteplici incongruenze del quotidiano dei vescovi. Avvenire pubblicizza il 5 per mille a favore dell'ARCI





di Mauro Faverzani, 26 maggio 2023

Viene da chiedersi se la CEI sa che l'Arci promuove il gender, l'aborto, l'eutanasia, l'afflusso dei clandestini, la droga libera, i gay pride, i rave party, ecc. ecc.

Di nuovo. È successo di nuovo. Non a caso, non per una svista, né per un errore. Bensì deliberatamente, consapevolmente, pervicacemente. Il quotidiano della Cei, Avvenire, che ama definirsi genericamente «di ispirazione cattolica», quasi la sua non fosse sequela, apostolato, testimonianza, missione, bensì un tenue sentimento, un timido stato d'animo, un'intuizione senza impegno, dallo scorso 3 maggio ha ripreso a pubblicare in prima pagina, come manchette, accanto alla testata, a destra ed a sinistra, quindi con la massima evidenza possibile, la pubblicità del 5 per mille a favore dell'Arci.

Era già capitato l'anno scorso e già qui, con un articolo, evidenziammo l'anomalia: con tutte le associazioni e le realtà cattoliche benemerite, cui invitare i lettori a destinare il 5 per mille, sponsorizzare proprio l'Arci ha dell'incredibile. E proprio in quell'articolo ne sintetizzammo i motivi, ripercorrendo la storia di quest'organizzazione impregnata ancora oggi di Sinistra col pugno chiuso, di immigrazionismo spinto, di ideologia Lgbtqa+, di genderismo fatto di schwa e asterischi per Statuto e poi ancora di aborto, di suicidio assistito, di eutanasia, stracciando così pagine e pagine di Catechismo della Chiesa cattolica, infischiandosene della sua Dottrina con una foga che non fa certo rima con "accoglienza" dei valori altrui, con "ascolto" di chi solo la pensi diversamente, con un autentico "rispetto" di tutte le posizioni.

L'Arci ne ha per tutti coloro che non cantino col (suo) coro: sul suo sito, bolla senza mezzi termini e senza appello il governo Meloni d'esser «a trazione post-fascista», «pericoloso per la nostra Costituzione e per la nostra democrazia», si scaglia contro il decreto «anti-rave», monopolizza il 25 aprile, promuove la «Giornata internazionale della visibilità transgender» con tanto di «Carriera Alias» nelle scuole e via elencando.


L'Arcigay


Del passato l'Arci non rinnega nulla, anzi: anche nell'ultima redazione dello Statuto, approvata al XVIII Congresso nazionale del dicembre 2022, ribadisce di rappresentare «la continuità storica e politica» dell'«Associazione Ricreativa Culturale Italiana delle origini, fondata a Firenze il 26 maggio 1957», quella che affondava le proprie radici nel Pci, nel Psi e nella Cgil, come evidenziato da Vincenzo Santangelo, ricercatore presso l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, nel suo libro Le Muse del popolo. Nell'alveo dell'Arci sorse il 9 dicembre 1980 l'Arcigay, voluto da un sacerdote omosessuale, un teologo della liberazione sospeso a divinis, don Marco Bisceglia (riammesso nella Chiesa solo poco prima di morire, malato di Aids, dopo la supplica da lui inviata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, supplica in cui si pentì di quelli che chiamò «i miei errori e traviamenti»). Con lui collaborò a quest'avventura anche un allora giovane obiettore di coscienza in servizio civile, Nicola Vendola detto Nichi, che poi divenne suo convivente. Con la sua adesione al World Social Forum, l'Arci ha fatto sue le bandiere dell'antagonismo e della «globalizzazione alternativa» terzomondista, ribadendo la propria natura «antiliberista» ed «antimperialista».

Insomma, ce n'è abbastanza per indurre chi si dichiari cattolico a prender le distanze da posizioni tanto estremizzate e tanto lontane dal proprio credo. Anche quando si tratti di contratti pubblicitari, specie quando i messaggi contrastino con i propri ideali (ammesso che contrastino davvero)...Perché a Vespasiano, che sentenzia «pecunia non olet» («il denaro non puzza»), risponde Orazio, che argomenta «Est modus in rebus» («v'è una misura nelle cose») ed aggiunge: «Sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum» («Vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi ciò ch'è giusto»). Allora, perché insistere, un anno dopo, riproponendo la medesima pubblicità a scapito delle realtà cattoliche, che più e meglio l'avrebbero meritata? Allora è un vizio, verrebbe da commentare... Esattamente. Come conferma il Catechismo.


Aversio a DEO, conversio ad creaturas


Secondo San Tommaso d'Aquino, infatti, il peccato è «aversio a Deo» ovvero allontanamento cosciente e volontario da Dio, da Colui che infonde l'essere e la vita, aderendo viceversa alle creature, al mondo («conversio ad creaturas»). Coincide con quanto recepito nel Catechismo della Chiesa cattolica, che, al n. 1849, definisce il «peccato» come «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il prossimo». Richiamando Sant'Agostino - e lo stesso San Tommaso, non a caso citato - bolla il peccato come «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna».

Ora, promuovere pubblicamente chi sostenga aborto, eutanasia e tutto quanto sopra richiamato allontana indubbiamente da Dio sé stessi ed, ahimè, anche il prossimo, essendo manifestamente contrario alla Legge eterna.

Il peccato inizia come seduzione e, specie quando ripetuto, diviene schiavitù. Come scrive ancora il Catechismo al n. 1876, «la ripetizione dei peccati, anche veniali, genera i vizi». Ed ecco, dunque, per quale motivo non appaia né sbagliato, né esagerato ritenere un «vizio» la promozione di ideologie contrarie alla fede, alimentando la confusione tra credenti e non. Nelle sue parole di commiato, Marco Tarquinio, che ha recentemente lasciato la direzione di Avvenire al collega Marco Girardo, ha scritto d'aver voluto «offrire a tutti un'informazione sempre limpida e libera, ancorata ai grandi valori cristiani e civili del nostro umanesimo». Certamente la scelta degli inserzionisti non è stata oculata, né coerente: lascia anzi una brutta eredità ed una pesante ipoteca sulla linea editoriale del giornale della Cei, linea che sarebbe bene a questo punto chiarire: infatti, «nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc 16, 13).


Titolo originale: L'Arci e Avvenire: quando a Vespasiano risponde Orazio
Fonte: Radio Roma Libera, 8 maggio 2023 - Pubblicato su BastaBugie n. 821


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3 commenti:
I Santi: esempio e intercessione ha detto...

26 maggio. San Filippo Neri
Ammiro, o san Filippo, il gran prodigio operato in voi dallo Spirito Santo, allorché diffuse nel vostro cuore con tanta pienezza la sua carità da dilatarlo anche fisicamente sino a spezzarvi due costole. Ammiro l’ardente e puro amore di Dio, di cui eravate acceso, tantoché il vostro volto s’illuminava di luce celestiale e rapito in estasi desideravate di dare la vita per farlo riconoscere ed amare dai popoli pagani. Quanto mi confondo nel constatare la freddezza del mio cuore verso Dio, che pure so essere il Bene infinito. Amo il mondo, che mi alletta, ma non può farmi beato; amo la carne, che mi tenta, ma non può appagare il mio cuore; amo le ricchezze, che non possono essere da me godute, se non per pochi momenti. Quando imparerò da voi a non amare altro che Dio, unico e incomprensibile Bene? Fate, mio santo Avvocato, che, mediante la vostra intercessione, io cominci ad amarlo almeno da questo giorno con tutta la mia anima, con tutta la mia mente, con tutte le mie forze sino al momento felice in cui lo amerò nella beata eternità.26 maggio, 2023 07:13

GESUITI: UNA SPENSIERATA DECADENZA





The Society of Jesus: a carefree decline.




La situazione in cui versa la Compagnia di Gesù, almeno in Europa, non deve per nulla rallegrare i cattolici; ogni ordine religioso che non vive il suo carisma arreca una ferita alla Chiesa, oltre che un impoverimento. I carismi sono donati dallo Spirito proprio per le necessità del popolo di Dio, e ogni volta che essi vengono snaturati i credenti, specie i piccoli, vengono defraudati di qualcosa. La fedeltà al carisma è per un ordine religioso non è solo una questione di autenticità personale e collettiva, bensì una responsabilità ecclesiale. Con affetto per i gesuiti che abbiamo avuto l’onore di incontrare – e per il grande dono degli Esercizi che ci hanno fatto – stendiamo queste note nella speranza che se ne possa riflettere pacificamente. Sì perdonerà quel po’ di ironia che non guasta mai.

La Compagnia di Gesù – solo un cieco può nasconderselo – versa in una condizione miserevole (come altri istituti religiosi), almeno in Europa. Le vocazioni pochissime, le defezioni sproporzionate. Sono gli stessi gesuiti a dirselo tra loro, quando gli altri non ascoltano. Tra l’altro, più salgono in alto nella gerarchia ecclesiastica più mostrano le carenze della compagine da cui provengono! Ma non basta lamentarsi, bisogna stimolare un tentativo di analisi sincera. Qualche provocazione.



Un pensiero teologico incompleto


La teologia dei grandi teologi gesuiti del secolo scorso ha fatto sicuramente la storia e ha preparato ed accompagnato la riflessione del Vaticano II. Le fonti della teologia sono: la Scrittura, la Liturgia e la Dottrina dei Padri e Dottori della Chiesa, che insieme al Magistero formano la Tradizione vivente. Il tutto reso comprensibile alla luce dei segni dei tempi. Questo è il metodo teologico cattolico. Sant’Ignazio fondò la compagnia per la difesa e la propagazione della fede. La Formula dell’Istituto approvata da Giulio III lo dichiara solennemente. Il ‘modo di procedere’ in teologia della Compagnia si è sempre rifatto ad un metodo di ispirazione tomista, anche in altri ambiti del sapere (si pensi a Lonergan, o alla elaborazione della cosiddetta ‘psicologia del profondo’).

Cosa è successo? Che oggi, per lo più, in Compagnia, i segni dei tempi (assunti in senso hegeliano naturalmente, e non biblico) sono diventati la prima fonte della loro teologia; il principio ermeneutico con cui si setaccia perfino la Bibbia, per cui ciò che risponde ai segni dei tempi si tiene, ciò che non risponde si elimina. Lo sforzo intellettuale di comprendere la serietà del dogma è per i gesuiti un’impresa non interessante. La Tradizione non è più normativa, il paradosso cristiano declassato a pietra d’inciampo da rimuovere (Rahner è stato un maestro nel ridurre il cristianesimo a ciò che solo si può spiegare… in barba al grande K. Barth). Ma la domanda – alla quale non sanno rispondere – è: con quali strumenti si discernono i segni dei tempi? Chi decide che un evento, un pensiero, e quant’altro è un segno dei tempi oppure no? E chi ha l’autorità di operare questo discernimento in nome del popolo di Dio? Silenzio totale….



Un senso di colpa collettivo


La Compagnia di Gesù che vediamo oggi non è esattamente l’ordine fondato da Ignazio, ma un tentativo discutibile di ripristinare il carisma originario. Soppressi nel 1773 con il breve Dominus ac Redemptor da Papa Clemente XIV, i membri vennero dispersi. Sopravvissero nella Russia Bianca di Caterina la Grande che li chiamò a dirigere le scuole. Ma questi membri superstiti non riuscirono nel 1814 – quando l’ordine fu ‘restaurato’ – a trasmettere la ricchezza della tradizione precedente. L’anello mancante della trasmissione viva del carisma si fa oggi ancora sentire. I gesuiti rinacquero ma senza radici solide, senza anziani provati a guidarli. Il Preposito Generale Jan Roothaan fece molto per riconsegnare all’ordine lo spirito originario, sia dottrinale che pastorale. Ma i gesuiti rimasero comunque degli orfani, dei ‘personaggi in cerca d’autore’. E così si buttarono a capofitto nella difesa della struttura ecclesiastica papale, nella difesa dello Stato Pontificio, nella condanna cieca di ogni filosofia dissonante con l’impianto tomistico: il caso della condanna di Rosmini ne rende ragione. Con l’Unità d’Italia gli orfani di Pio IX cercarono di ridarsi un nuovo tono, cercando nuove battaglie da fare. Gli orfani divennero, dunque, adolescenti: e così arrivò il tempo di negare tutto. Crisi da sviluppo! La XXXII Congregazione Generale del 1974-75 svoltò verso la giustizia sociale, i rifugiati, il dialogo con l’ateismo raccomandato da San Paolo VI (e totalmente fallito!), l’opzione preferenziale per i poveri…. Dall’estrema destra – per così dire – alla sinistra. Che cosa li guidò in questa operazione di trasformismo? Non certo l’equilibrio ignaziano, ma il senso di colpa per essere stati i cani da guardia dell’ortodossia cattolica più intransigente durante il secolo XIX. Bisognava ripulirsi la coscienza collettiva dalla legenda nera (operazione ancora maldestramente in corso). Oggi molti dicono che la Compagnia sia “progressista” in campo sociale e teologico. Non è corretto: i gesuiti sono solo semplicemente trasformisti!



Un sentire con la Chiesa assente


La ‘nuova’ Compagnia ci tiene tantissimo a ‘non sentire con la Chiesa’! I gesuiti pensano di essere avanti: lo credono loro, da soli, ma nessuno gli ha dato questa patente in tempi recenti. Lo spirito del quarto voto (obbedienza al Papa per la missione) è diventato una medaglietta di latta. Quando danno gli esercizi le “Regole per sentire con la Chiesa” non sono mai offerte; loro dicono che Ignazio le scrisse per sfuggire all’Inquisizione e che quindi sono condizionate dal contesto storico. In realtà la devozione alla Chiesa gerarchia fu un tratto distintivo della biografia del Basco. Ma, anche qui, l’ermeneutica del fondatore è soggetta ai segni dei tempi! I gesuiti generalmente commettono una svista notevole: confondono la profezia con l’originalità! Come gli adolescenti si credono grandi solo perché si ribellano ai genitori. Il loro magis non è più individuato nel servizio alla Chiesa, bensì nell’essere diversi a tutti i costi, a servizio di una Chiesa del futuro che pensano di intravedere.

IL CASO RUPNIK


La lontananza dal popolo di Dio


Uno dei motivi molto concreti della deriva strutturale della Compagnia è la pressoché totale perdita del contatto quotidiano col popolo di Dio. Quando fu eletto Bergoglio al soglio di Pietro, un amico gesuita ci disse: “non rappresenta l’eccellenza della Compagnia, perché troppo popolare, spiega ancora il catechismo alla gente”. Giusto per ricordare… In Italia si sono ridotti a pochissime parrocchie (che gestiscono ignorando la partecipazione alla vita della riscoperta Chiesa locale, quest’ultima sì un segno dei tempi che però non vogliono accettare); le loro scuole – in cui figurano nell’organico con presenze irrisorie e che sono in mano a fondazioni di esperti laici – costano tanto, tanto, tanto… e certo non sono frequentate dal popolo. Non sono più presenti nei seminari, tranne che a Posillipo. Uno degli impegni dei gesuiti professi di quarto voto era quello di impegnarsi nel catechizzare i fanciulli (San Francesco Saverio lo faceva a Campo de’ Fiori), ma un gesuita di oggi non saprebbe fare nemmeno il catechismo della prima comunione. Loro – dicono – formano le elite (solitamente progressiste) …. Fa chic frequentare i gesuiti: si imparano tante cose belle sul «sociale da salotto». Molte di meno sulla fede. Alla ‘sinistra bene’ – alla pariolina, o alla San Babila – piacciono tanto. Un professore laico di una scuola italiana della Compagnia ci raccontava che ha pregato in ginocchio i Padri dell’istituto per intraprendere qualche iniziativa di pastorale scolastica: niente da fare. E pensare che il contatto con la gente è stato assicurato per secoli nella Compagnia dai sacerdoti cooperatori spirituali (cioè senza quarto voto, e quindi non eleggibili come superiori) che hanno offerto la vita nelle missioni popolari e nel confessionale. Si pensi al grande San Giovanni Francesco Régis. Ma oggi tutti, Spadaro in primis, sperano di diventare ‘membri professi’ (che però nella mente di Ignazio dovevano essere pochissimi), nello spirito – ovviamente – dei tre gradi dell’umiltà!!!



Autoreferenzialità esasperante.


La Compagnia in Europa sta morendo di asfissia. In che senso? Siccome i gesuiti dicono – ancora oggi – di essere l’eccellenza non hanno bisogno di imparare da nessuno. “Non ci sono preti più preparati dei gesuiti”, disse qualche anno fa un gesuita ad un gruppo di seminaristi. L’adolescenza è così: il selfie narcisistico è inevitabile. Altro che ‘minima’ Compagnia, come la voleva Ignazio! I gesuiti anche qui confondono l’eccellenza con il conformismo. Questa autoreferenzialità non consente loro di aprirsi e confrontarsi con altre esperienze di vita religiosa. Non chiedono mai consiglio ad altri, loro di consigli ne danno solamente. Ma chi si ‘accoppia’ tra parenti stretti – anche intellettualmente – prima o poi mette al mondo figli con patologie congenite. I gesuiti non dialogano, dirigono il dialogo. Tendono a perpetuarsi, avvitati su loro stessi come sono. Nel noviziato di Genova – anche se sei serio, colto e motivato nella fede – puoi essere spedito a casa semplicemente se non riconoscono in te un certo ‘spirito’. Un gesuita, scherzando, ci raccontava che se un giovane vuole entrare in Compagnia deve aver partecipato almeno tre volte a qualche manifestazione di piazza trendy o frendly (leggi: ‘battaglie facili’!!!). Una piccola nota che non tutti conoscono: ai gesuiti è vietato parlare con esterni dei problemi interni alla Compagnia. Come più volte evidenziato da Padre Dysmas De Lassus, questo è una delle derive della vita religiosa. Nel tempo questo principio si è trasformato in attitudine a coprire gli abusi da loro perpetuati: la Bolivia ne è un caso macroscopico, con otto superiori provinciali sospesi per copertura di abusi (e la polizia che ha sequestrato l’archivio della curia provinciale per indagini).

HANS ZOLLNER


Individualismo narcisista


Il defunto Preposito Generale Padre Adolfo Nicolás diceva che i suoi religiosi erano come animali esotici e rari, chiusi dentro lo stesso zoo ma ognuno appollaiato ben bene nella sua gabbia. I gesuiti tra loro non si amano, al più hanno qualche amicizia elettiva. Tutto lecito ovviamente. Ma chi ha lavorato con loro conosce bene il clima, soprattutto nei grandi centri del loro apostolato. La competizione è all’ultimo sangue. Forse perché revisioni di vita comunitarie in Compagnia non se ne fanno: ciascuno nell’apertura di coscienza annuale riferisce al superiore eventuali scontentezze riguardo agli altri, e poi il superiore si regola. In altre parole: ci si parla dietro con la benedizione di Dio. Questa forma di pudore non favorisce certamente un clima trasparente. Ora bisogna anche dire una cosa: le forme di riservatezza orizzontale con i confratelli e di apertura verticale con i superiori – prevista dallo stesso Ignazio nelle Costituzioni – funzionavano sì, ma solo in un contesto di disciplina e di abnegazione. La retta intenzione e il rinnegamento di sé facevano in modo che le ruote girassero ben oleate. Ma queste attitudini oggi non si possono più pretendere. Vi è che ogni gesuita si sente un piccolo genio, abituato com’è ad autosuggestionarsi con il mito dell’eccellenza della Compagnia e del suo ruolo di compagine profetica posta all’interno della Chiesa. Le comunità – o meglio ‘residenze’ – della Compagnia sono poco più che alberghi. E così abbiamo una sfilza di personaggi ‘mine vaganti’ in cerca di scoop: esperti di abusi come Hans Zollner, artisti manipolatori come Marko Rupnik, direttori di riviste (in via di chiusura) e conferenzieri à la page la cui unica originalità consiste nel ridicolizzare il Magistero (Antonio Spadaro).



Un deficit di autorità


La Compagnia si fonda sull’obbedienza alle mozioni dello Spirito sottoposte al giudizio dei superiori. Tutto funziona finché questi ultimi sono ben preparati. Ed è qui il segreto più pregnante della decadenza dei gesuiti: religiosi in grado di discernere l’ispirata elezione dei singoli membri non ne hanno più. A forza di giocare a fare i profeti, quando gli viene chiesto di fare i ‘pastori’ dei confratelli si trovano spaesati. I superiori della Compagnia mostrano molto bene come i gesuiti siano dei religiosi mediocri come tutti noi. Il re è nudo. Sintomo inequivocabile di questa carenza di autorità è la gestione degli abusi: i gesuiti battitori liberi non hanno nessuna voglia di stare sotto l’obbedienza. Ricevono una missione (una ‘miss’ come dicono fra loro) e dopo un po’ ne fanno una roccaforte personale intronizzandovi dentro il personaggio che si sono creati. Tutti vedono, ma si lascia fare. Poi però, quando questi religiosi combinano guai o commettono abusi, i superiori giocano a fare i sorpresi, gli scandalizzati. La lista è lunga, troppo lunga, per chi gioca a spacciarsi come l’elite della Chiesa: Padre Pica in Bolivia, Renato Poblete e Felipe Berríos in Cile. Se poi sono vere le dichiarazioni recenti di un noto attore e regista italiano circa gli abusi subiti dai gesuiti dell’Istituto Leone XIII di Milano, allora siamo a cavallo… E poi c’è Padre Rupnik in attesa di ulteriore giudizio dopo la prescrizione e la remissione della scomunica (e che ha il terrore che la Compagnia non lo espella per poterlo poi controllare e limitare); anche un gesuita di Barcellona è in attesa di sentenza con l’accusa di abusi su alunni di una scuola dell’ordine nel 2005…

Quando, la Chiesa – custode e responsabile del carisma della Compagnia – prenderà in mano la situazione? O dobbiamo vivere ad oltranza nella nostalgia di gesuiti come padre Peter Hans Kolvenbach, Bartolomeo Sorge, Herbert Alfonso, Giacomo Martina, Giandomenico Mucci, Robert Taft?

Per ora rimane vero solo il maccheronico: si cum jesuitis, sine Jesu itis! Se andate con i gesuiti, andate senza Gesù!

P.P.



Silere non possum



Articolo pubblicato il 23 maggio 2023






giovedì 25 maggio 2023

Crisi usate per imporre transizioni rivoluzionarie





Per una nuova insorgenza contro il regime delle emergenze rivoluzionarie




Di Guido Vignelli, 25 MAG 2023

Crisi usate per imporre transizioni rivoluzionarie

Da molto tempo, la nostra società sta subendo crisi, lacerazioni e conflitti sempre più numerosi, vasti e duraturi – siano essi spontanei o favoriti o provocati – i quali diventano l’occasione per avviare un processo sovversivo che solitamente progredisce lungo le seguenti quattro fasi.

Prima fase. Lo scoppio di una crisi permette alle autorità di proclamare uno stato di emergenza, ingigantito dalla propaganda mass-mediatica, che getta la popolazione nella paura e la spinge a esigere una soluzione immediata e rapida della crisi. Allora, le autorità se ne approfittano per convincere la cittadinanza a una obbedienza cieca e assoluta che la dispone a subire passivamente restrizioni e sacrifici sproporzionati, esorbitanti e rovinosi (spesso anche assurdi o contraddittori), che non sarebbero stati tollerati in condizioni normali.

Seconda fase. Questo stato di emergenza permette alle autorità costituite di avviare una mobilitazione generale della cittadinanza che – in nome della “solidarietà sociale” – sottopone ogni settore della vita civile a un controllo di sorveglianza e a un regime di repressione che possono diventare più rigorosi di quelli previsti per lo stato di guerra. Paradossalmente, la sorveglianza repressiva colpisce non tanto gli agenti esterni che distruggono la società, quanto quell’interni che la fanno sopravvivere. Chi osa eludere o addirittura opporsi alla mobilitazione è condannato come complice del nemico e finisce privato di molti diritti civili ed emarginato dalla società.

Terza fase. Questa mobilitazione vara una legislazione di eccezione, a volte applicata da poteri e tribunali speciali, al fine d’imporre alla società un comportamento uniforme mediante provvedimenti che impiegano forze, applicano metodi e usano mezzi drastici e liberticidi. Spesso questi provvedimenti sono non solo sproporzionati, assurdi e contraddittori, ma anche pericolosi e dannosi, perché esigono un costo psicologicamente, socialmente ed economicamente rovinoso. Ciò è dovuto al fatto che quei provvedimenti servono non a risolvere la crisi, ma a controllarla e a pilotarla per ottenere un risultato che appare chiaro solo nella fase successiva del processo.

Quarta fase. Questa legislazione impone alla società una serie di radicali cambiamenti che mirano a compiere una transizione epocale non solo nel settore economico-politico ma anche in quello psicologico-morale. Infatti, essa mira a suscitare una rivoluzione nella vita quotidiana della popolazione, costringendola a sostituire i modelli, stili e condizioni di vita “consumistici, sfruttatori e discriminatori” con quelli “sostenibili, liberatori ed egualitari”, i quali renderanno tutti felici obbligandoli a liberarsi da pregiudizi, superstizioni e legami.

Una volta compiuto questo processo, le autorità proclamano che la crisi ormai risolta è stata fattore di progresso per la civiltà. Tuttavia, esse preannunciano l’arrivo di nuove crisi, finalizzate a mantenere la società in quella condizione di rivoluzione permanente che – come auspicava il Sessantotto – libererà sempre più la popolazione da tutti i pregiudizi, le superstizioni e i legami di dipendenza che rendono gli uomini infelici.

Esempi recenti di crisi rivoluzionarie


Il processo tendenzialmente totalitario sopra descritto si è già sviluppato più volte in pieno regime democratico. Difatti, almeno dagli anni Sessanta in poi, si sono succedute o accavallate molte crisi di lunga durata che, spesso, da provvisorie sono diventate definitive. Tra queste crisi, ci limitiamo a ricordarne le seguenti.

1. Crisi suscitata dalla sovrappopolazione, la cui emergenza avviò la transizione alla politica governativa antinatalista e anti-familiare.

2. Crisi suscitata dalle lotte sindacali e da speculazioni internazionali, la cui emergenza avviò la politica economica e fiscale contro la proprietà e l’imprenditoria.

3. Crisi suscitata dal terrorismo rosso, la cui emergenza accelerò la transizione al “compromesso storico” DC-PCI e ai “Governi di unità nazionale”.

4. Crisi suscitata dalla immigrazione afro-asiatica clandestina, la cui emergenza ha avviato la transizione al tribalismo della “società multietnica, multiculturale, multireligiosa”.

5. Crisi suscitata dalla infiltrazione islamica, la cui emergenza ha avviato la transizione a una cultura risacralizzata in senso anticristiano.

6. Crisi suscitata dalla diffusione della pedofilia, la cui emergenza sta favorendo la transizione alla psico-pedagogia del pansessualismo.

7. Crisi suscitata dall’inquinamento ambientale e dal riscaldamento climatico, la cui emergenza sta favorendo la transizione alla “ecologia della vita quotidiana”.

8. Crisi suscitata dall’epidemia virale, la cui emergenza sta favorendo la transizione al controllo capillare e alla gestione globale della salute, del lavoro, degli spostamenti e della vita sociale.

9. Crisi suscitata dal fallimento sia dello Stato assistenziale che di quello liberista, la cui emergenza sta favorendo la transizione a un regime di anarchia pilotata.

10. Crisi suscitata dalla globalizzazione economico-politica, la cui emergenza sta preparando la transizione al great reset (“grande azzeramento”).

11. Crisi suscitata dal dilagare della comunicazione elettronica, la cui emergenza sta favorendo la transizione al controllo e alla censura della libera informazione.

12. Crisi suscitata dalla guerra tra Russia e Ucraina, la cui emergenza sta favorendo la transizione dalla “globalizzazione monopolistica” a quella “multipolare”.

13. Crisi suscitata dalla chiusura o dall’esaurimento d’importanti fonti energetiche, la cui emergenza sta favorendo la transizione a una società dell’austerità (ossia della miseria indotta).

14. Crisi suscitata dalla caduta di credibilità e di efficacia della Chiesa, la cui emergenza sta preparando la transizione a una “riforma sinodale” che rivoluzionerà il governo ecclesiale consegnando il potere alle anarchiche “comunità di base” ma sotto il controllo di un Papato accentratore.

Come si vede, ognuna di queste crisi suscita una propria emergenza che giustifica una mobilitazione generale che impone una transizione capace di sovvertire un settore della vita civile. Ciò presuppone il dogma della “crisi risanatrice”, ossia la paradossale pretesa che un male possa essere risanato non da quegli agenti e fattori che sono capaci di contrastarlo, ma da quelle procedure che s’impegnano a favorirlo.

Verso la rivoluzione globale permanente


Stando così le cose, è prudente sospettare che molte delle crisi finora scoppiate siano state, se non causate, almeno aggravate e pilotate da quella galassia di potentati, autorità e istituzioni (soprattutto internazionali) che stanno tentando d’imporre ai popoli un nuovo regime globale, nella incertezza se far prevalere il modello del despotismo orientale o quello dell’anarchia occidentale.

I potentati occidentali stanno avviando quel grande azzeramento (“great reset”) che tenta di realizzare una grande transizione al fine d’imporre all’umanità un grande esperimento, consistente non in mutamenti settoriali e temporanei della vita economico-politica, ma in una globale e definitiva rivoluzione permanente che sovvertirà la stessa natura umana. Questo esperimento verrebbe tentato da una bio-politica che, applicando una “ingegneria sociale”, realizzerebbe una “mutazione antropologica” capace di violentare l’umanità per adattarla alle pretese della Rivoluzione, nella speranza di dissolvere l’umana natura per impedirle di essere fecondata dalla soprannaturale Grazia divina.

Questi potentati non hanno scrupolo di favorire crisi rovinose, aggravare conflitti laceranti e minacciare pericoli futuri che suscitano nella popolazione generale incertezza, insicurezza e paura, al fine di convincerla che non potrà mai più tornare a fare una vita normale. Come diceva lo slogan diffuso tre anni fa all’inizio della epidemia: “niente sarà più come prima!”

Quei potentati stanno costruendo un nuovo tipo di regime che, a differenza di quelli antichi, non viene logorato e distrutto da crisi o da conflitti interni o esterni, ma anzi se ne nutre e se ne rafforza, perché è fatto per galleggiare su una sorta di rivoluzione permanente controllata. Infatti, questo regime sopravvive non grazie al consenso popolare, ma grazie al dissenso che divide il campo avverso e alla incapacità degli oppositori di superare le crisi realizzando riforme credibili e fattibili.

Secondo lo studioso francese Lucien Cerise, nel suo opuscolo Gouverner par le chaos (Max Milo, Paris 2014), ormai le classi dirigenti della società hanno tradito la loro missione di proteggere l’ordine civile dalle periodiche crisi che lo mettono in pericolo. Le autorità politiche e sociali declinanti s’illudono di sopravvivere “governando mediante il caos”, mentre quell’emergenti sperano d’imporsi suscitando un “nuovo disordine mondiale”. Comunque sia, per tutti loro, come il vero nasce dal falso, il bene dal male, la vita dalla morte e la giustizia dall’ingiustizia, così la salvezza nasce dal caos.

Il regime globale già in costruzione usa una strategia solo apparentemente contraddittoria ma in realtà convergente verso un unico fine. Infatti, da una parte, alla base, si favorisce un decentramento fino all’anarchia che permette alle masse licenza sufficiente per soddisfarne le passioni disordinate e per farle sopportare i disagi di una società ingiusta; ma dall’altra, al vertice, si favorisce un accentramento fino alla tirannia che impone alle masse oppressione sufficiente per impedire che si ribellino al sistema vigente e (soprattutto) che tentino di restaurare l’ordine civile.

Crescente sfiducia nelle classi dirigenti


Nel 1792, volendo costringere i Francesi a mobilitarsi per difendere la Repubblica Giacobina dai nemici interni ed esterni, il dittatore Robespierre minacciò che chiunque disobbedisce al Comitato di Salute Pubblica è un “nemico del popolo” indegno di vivere. Nel 1920, volendo costringere i Russi a mobilitarsi per difendere la traballante Repubblica socialista sovietica, il plenipotenziario Trotzki minacciò che chiunque disobbedisce al Partito Comunista è contro il proletariato, quindi non ha diritto di vivere.

Analogamente, dal 2020 al 2022, volendo costringere gl’Italiani a mobilitarsi per superare un’emergenza sanitaria, due capi del Governo (prima Conte e poi Draghi) hanno minacciato: “Chi non si vaccina è fuori dalla società”. Di conseguenza, chi non aveva adempiuto agli obblighi della “solidarietà sanitaria” era condannato alla morte civile, perché gli veniva negata quella “tessera verde” che concedeva il diritto di circolare e lavorare, quindi di mangiare e di vivere.

Date queste premesse, domani un’analoga punizione potrà colpire chiunque, non avendo adempiuto agli obblighi dovuti alla “solidarietà sociale” – sia essa sanitaria o ecologica o energetica o sessuale o di altro tipo – imposta dal regime sulla base del “politicamente corretto”, perderà la tanto celebrata dignità umana e verrà condannato a morte.

Da molto tempo, dirigenti, autorità e istituzioni nazionali e internazionali si approfittano delle crisi in corso al fine di spaventare la popolazione, ricattarla psicologicamente e avvilirla moralmente, fino a sottoporla a regole, comportamenti e divieti non solo sproporzionati, prevaricatori e dannosi, ma anche giuridicamente illegittimi e moralmente illeciti.

Questa situazione ci pone il grave problema di capire quale credibilità e fiducia possiamo oggi concedere a quelle istituzioni politiche e a quelle classi dirigenti e professionali che si sono dimostrate così cedevoli alle imposizioni e ai ricatti del regime. La fiducia popolare nella classe docente forse non c’è mai stata, quella nella classe politica è sparita, quella nella classe giudiziaria è perduta, quella nel clero è in crisi; per giunta, le recenti vicende di politica sanitaria hanno gravemente compromesso perfino la fiducia nella classe medico-farmaceutica, la cui correttezza morale ormai dev’essere posta in dubbio e verificata.

Basti qui ricordare i seguenti fatti recenti. L’antico giuramento etico d’Ippocrate non è più obbligatorio per esercitare la professione sanitaria; molti medici non valutano né agiscono più secondo la vecchia massima “in scienza e coscienza”, ma secondo conformismo, interessi e perfino ideologia; inoltre, gli ordini sanitari non si sono seriamente opposti alla legalizzazione di quelle pratiche criminali (aborto, contraccezione abortiva, sterilizzazione, fecondazione artificiale, trapianti ex vivo, eutanasia) che rischiano di coinvolgerli come complici.

Come sappiamo, una delle condizioni che permettono alla Rivoluzione di sottomettere la società civile si realizza quando un popolo – avendo perso la propria autentica rappresentanza politica e non trovando una credibile classe dirigente alla quale affidarsi fiduciosamente – rimane privo di guida e si arrende alla oligarchia impostagli dal nemico. Questo pericolo potrà essere evitato solo se la società civile riuscirà a emanare una nuova élite, prima che le forze rivoluzionarie riescano ad avvelenarne la radice, a soffocarne l’anelito, a spegnerne la fiamma sotto la cenere.

Tentativi d’insorgenza contro il regime


Tuttavia, per quanto la maggioranza della popolazione, lasciandosi ingannare dalla propaganda e intimorire dai soprusi, finisca col cedere alla Rivoluzione, rimarrà comunque una valorosa minoranza che conserverà saggezza di giudizio e volontà di reagire. Questa minoranza erediterà la missione di opporsi al regime che impone la gestione emergenziale del controllo e della repressione sociali.

La storia insegna che, per quanto sia abilmente propagandata e ferocemente imposta, alla fine la falsità viene smentita dalla evidenza del reale e deve cedere alla verità, come confermato dal fallimento dell’utopia comunista. Per giunta, essendo la falsità non solo menzognera ma anche causa di sciagure, quanto più un popolo ne subirà le conseguenze, tanto più si disilluderà dalle promesse ricevute, si disintossicherà dalla ideologia propagandata e si libererà dalle complicità contratte col potere.

A questo punto, il popolo perderà la fiducia non solo nei Governi e nelle istituzioni del regime, ma anche in quegli apparati burocratici e in quelle classi dirigenti e professionali che hanno giustificato le menzogne e favorito i soprusi imposti dal regime. Di conseguenza, il popolo tenterà non solo di resistere passivamente alle imposizioni del regime, ma anche di ribellarsi attivamente alla sua dittatura, animando una irrazionale e pericolosa reazione che susciterà un devastante conflitto sociale, facilmente strumentalizzabile dalle forze sovversive per indirizzare la rivolta non verso il risanamento e la ricostruzione politica ma verso una “guerra civile tra oppressi”. Ne deriverà un’anarchia che potrà offrire al regime un comodo pretesto per spaventare ulteriormente l’opinione pubblica allarmandola su una nuova emergenza (questa volta reale) e proponendole di salvare la pace sociale al prezzo d’imporre un regime ancor più oppressivo.

Oggi stiamo assistendo a un significativo esempio di una incipiente ribellione popolare rispettosa dell’ordine e della pace sociali. A partire dal 2020, in reazione alla politica sanitaria repressiva delle primarie libertà civili, sono spontaneamente sorte – e stanno tutt’oggi continuando – una serie di manifestazioni di pubblica protesta che costituiscono chiaro segnale ammonitore di una insofferenza che potrebbe crescere e maturare fino a diventare una insorgenza popolare organizzata.

Questa insorgenza non è fanatica, settaria e teleguidata come quella dello storico “Sessantotto”, alla quale è stata paragonata, ma anzi è ragionevole, sociale e spontanea. Di conseguenza, a differenza di quello vecchio, il “nuovo Sessantotto” non è stato favorito dai poteri culturali, mass-mediatici e politici; al contrario, esso è stato (ed è tutt’oggi) ostacolato da loro con tutti i mezzi. Infatti, il diritto alla contestazione viene benevolmente concesso dalle autorità ai violenti movimenti ecologisti, no-global e anarchici, ma viene invece negato ai pacifici movimenti che denunciano inganni e soprusi (non solo sanitari) del regime. I loro seguaci vengono trattati da fanatici, settari, velleitari e “complottisti”, vengono accusati di aggravare le crisi e d’impedirne la soluzione, si propone di condannarli alla morte civile, ad esempio rinchiudendoli in ospedali psichiatrici o in “campi di rieducazione” sul modello di quelli sovietici.

Purtroppo, proprio perché spontanea, finora questa insorgenza popolare ha dimostrato di essere ancora immatura e impreparata perché priva di princìpi solidi, di capi affidabili e di strategia efficace. Infatti, essa ha commesso errori e imprudenze che hanno favorito il regime nel suo impegno a ridicolizzare, demonizzare e isolare ogni opposizione. Basti considerare che quasi tutti i movimenti del dissenso hanno dimostrato confusione ideologica, debolezza morale, superficialità nell’analizzare la situazione, velleità nel proporre misure di risanamento, perfino permeabilità alla infiltrazione di agenti provocatori. Inoltre, dimostrando eccessiva ambizione, i promotori della insorgenza si sono illusi, a solo un anno dalla sua nascita, di poter ottenere un qualche risultato elettorale.

Per una vincente riscossa popolare


Se vuol davvero vincere, una insorgenza popolare deve passare dalla generosa spontaneità alla efficace organizzazione, in modo da diventare capace di compiere un’azione multiforme, capillare e profonda, cioè operando in vari settori, ambienti e livelli, al fine di risvegliare le forze dormienti della società, rianimare quelle intimorite e risanare quelle malate, al fine d’invertire la tendenza alla rovina e avviare la soluzione delle crisi.

Quest’azione dev’essere innanzitutto psicologica. Bisogna che le organizzazioni insorgenti ottengano credibilità, fiducia e prestigio presso la popolazione, al fine d’incoraggiare gli ambienti incerti e intimoriti a reagire alle pressioni, ai soprusi e ai ricatti; in pratica, bisogna restituire al popolo la perduta fiducia in sé stesso e nella propria missione.

Quest’azione dev’essere anche culturale. Bisogna che le organizzazioni insorgenti non si limitino a “diffondere contro-informazione” per denunciare falsità e soprusi, come oggi accade, ma s’impegnino anche e soprattutto a rianimare nelle coscienze quei perenni princìpi e valori morali, giuridici e politici insegnati dal diritto naturale e dalla dottrina sociale della Chiesa.

Parallelamente, l’azione dev’essere anche sociale. Bisogna che le organizzazioni insorgenti contattino quei ceti che sono stati o saranno presto danneggiati dall’emergenze e dalle transizioni imposte dal regime; inoltre, bisogna incoraggiare quelle classi produttive a riprendere la loro missione di risanamento socio-economico, disilluderle sulle vane promesse ricevute dalla politica statale, esortarle a liberarsi dai compromessi che le vincolano alle rappresentanze politiche e sindacali che le stanno tradendo vendendole al nemico.

Infine, l’azione dev’essere anche politica. Bisogna dapprima esortare i “corpi intermedi” a ritornare a svolgere i loro ruoli e ad adempiere alle loro responsabilità; poi bisogna collegare e coordinare le sacche di resistenza e i moti di opposizione al regime dotandoli di una vera rappresentanza sindacale, politica e istituzionale.

Se si realizzerà questo programma, la valentior pars della società potrà affidare il potere a una vera rappresentanza politica, ossia a quella componente saggia, libera e volenterosa della nazione che ancora è capace di lottare per il bene comune, al fine di restaurare nella vita civile il diritto naturale e cristiano.

Guido Vignelli