lunedì 27 febbraio 2023

La cricca di Sant'Anselmo che fa la guerra al rito antico




Dal segretario Viola ai sottosegretari García Macías e Marcjanowicz, fino a Ravelli e Midili che guidano le celebrazioni pontificie: provengono tutti dall'Ateneo Sant’Anselmo e si muovono animati soltanto da un accecamento ideologico e cieco di fronte alla realtà. Ecco chi fa la guerra alla Messa antica.



ROCHE E GLI ALTRI

ECCLESIA

Luisella Scrosati, 27-02-2023

Qualsiasi persona, anche se intellettualmente poco dotata, è in grado di comprendere che la crociata intrapresa contro il rito antico, a partire da Traditionis Custodes fino al recente Rescriptum, altro non è che un desiderio di vendetta, un accanimento cieco e pieno di livore. E’ questione di semplice osservazione: la Chiesa cattolica si ritrova quasi esangue, con vescovi che osannano all’omosessualità, preti “coccolati” che abusano di suore e vengono protetti dalle più alte sfere, conventi chiusi a forza, chiese e seminari sempre più vuoti, cattolici che fuggono dalla Chiesa.

Se si esclude la Polonia, nei Paesi occidentali la frequenza almeno settimanale alla Messa è abbondantemente al di sotto del 50%: l’Italia è vergognosamente al 34%, ma pare persino fare una bella figura in confronto alla Spagna (27%), all’Austria (17%), alla Germania (14%), e ai due fanalini di coda, Francia e Paesi Bassi, dove nemmeno un cattolico su dieci va alla Messa domenicale.

Con questo scenario, il Dicastero del Culto Divino pensa bene di sprecare tempo e risorse per martellare quelli che alla Messa ci vanno, ma secondo un rito che a loro non è congeniale. In una qualsiasi azienda, il Prefetto del suddetto Dicastero, Mons. Arthur Roche, sarebbe stato licenziato in tronco: non solo incapace di rivitalizzare il mercato, ma anche sufficientemente incompetente da sterilizzare le poche filiali sane.

A ben vedere, l’unico problema di Roche è di essere l’uomo sbagliato al posto sbagliato, il che non è cosa da poco. Non è un mistero la sua radicale impreparazione liturgica; ma all’epoca, l’unico posto libero per collocare le proprie consacrate membra era il Culto Divino, lasciato libero dal cardinale Sarah; e così Roche si è dovuto accomodare lì, come un barcaiolo a presiedere l’unione delle guide alpine.

Il risultato è che al Culto Divino comandano altri; e questi altri hanno tutti una caratteristica comune: provengono dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. A partire dal Segretario, Mons. Vittorio Viola, che dal 2000 insegna vi insegna Liturgia e mantiene tutt’ora la docenza in qualità di Professore Lettore di Liturgia Sacramentale. Viola, in quanto Professore Lettore, ha il diritto di partecipare al Consiglio di Istituto, diritto che solleva un problema di conflitto di interessi. Poi i due sottosegretari, Mons. Aurelio García Macías e Mons. Krzysztof Marcjanowicz, entrambi con dottorato in Liturgia conseguito proprio a Sant’Anselmo; Macías risulta tra l’altro ancora docente. Una situazione decisamente insolita in un Dicastero della Curia Romana, dove dovrebbero trovare rappresentanza le diverse scuole teologiche, filosofiche e liturgiche e che si trova invece blindato al vertice dalla cricca di Sant’Anselmo. Attraverso i suoi ex alunni e professori in posizione apicale al Culto Divino, Sant’Anselmo esercita un’influenza unilaterale sulla liturgia a livello mondiale e tesse legami decisamente troppo stretti con la Curia, terreno assai fertile per le scalate personali in nome dei “servizi” resi alla Santa Chiesa.

Ma l’invasione di Sant’Anselmo è ancora più ampia. A sostituire Mons. Guido Marini, ordinato vescovo e nominato alla guida della diocesi di Tortona, troviamo il brianzolo Mons. Diego Giovanni Ravelli, anche lui con licenza e dottorato a Sant’Anselmo. E poi non poteva mancare l’Ufficio liturgico del Vicariato di Roma. A ricoprire l’incarico di direttore, dal 2011, e di responsabile delle celebrazioni liturgiche della diocesi (dal 2019), è il carmelitano P. Giuseppe Midili, grande amico di P. Marko Ivan Rupnik, anch’egli licenza e dottorato presso l’Ateneo, dove è Professore Ordinario di Pastorale liturgica.

Il caso di Midili solleva domande anche sull’osservanza degli Statuti stessi di Sant’Anselmo, i quali, seguendo Veritatis Gaudium, 29, dispongono che, «per essere “stabili” […] i docenti devono essere liberi da incombenze incompatibili con i loro compiti di ricerca e di insegnamento». Vi sono, a dire il vero, anche altri personaggi che difficilmente si può dire che rispettino questo principio: P. Francesco De Feo, che è Abate del Monastero di Grottaferrata, P. Stefano Visentin, Abate di Praglia e S.E. Mons. Manuel Nin, Esarca apostolico di Grecia e vescovo di Carcabia.

Per questi signori di Sant’Anselmo la liturgia dev’essere stata qualcosa di molto teorico, dal momento che non riescono a guardare in faccia alla realtà che affligge le nostre chiese; ed anche di molto ideologico, dato l’accecato accanimento contro giovani, bambini, famiglie, che nella loro testa finiscono tutti sotto l’etichetta di “avversari del Concilio”, solo perché amano il Rito antico.

Christophe Dickès, storico e giornalista francese, fratello del poeta Damien, tenta di far tornare alla realtà questi liturgisti da scrivania, con uno splendido articolo comparso nientemeno che sulle colonne di Le Figaro. Dickès fa notare che il problema di questo pontificato pare essere il piccolo mondo tradizionalista, che in Francia, dove è particolarmente diffuso, rappresenta circa il 4% dei cattolici; dunque, «una minoranza nella minoranza». Una minoranza evidentemente ritenuta sovversiva, dal momento che pericolosamente chi vi fa parte insegna «il catechismo ai loro bambini, facendogli imparare i dieci comandamenti e le preghiere che i cattolici devono conoscere», e con notevoli sacrifici cerca di preservare i propri figli dalla “cancel culture”, mandandoli in scuole private o parentali, che si devono autofinanziare.

Queste famiglie amano andare alla Messa antica. Tutti snob? Tutti anti-conciliari? Tutti lefebvriani? In verità, dopo le ordinazioni sacerdotali del 1988, queste persone «hanno voluto mostrate la propria fedeltà alla Santa Sede, manifestando i loro bisogni spirituali, come permesso dal diritto canonico (can. 212 § 2)». Fedeltà che oggi viene ripagata con sonori schiaffi.

Ma cosa trovano nella Messa in rito antico? Lì, riconosce Dickès, c’è «una verticalità ed una sacralità» che è meno evidente nel rito approvato da Paolo VI. Inoltre è decisamente un «un rito meno clericale», un rito nel quale è bandito ogni «personalismo: i fedeli pregano in un a tu per tu con Dio», senza che il sacerdote pretenda di fare il loro interfaccia.

E’ in effetti curioso che proprio durante il pontificato che ha fatto della sinodalità il suo chiodo fisso - all’insegna del motto “Allargare lo spazio della tua tenda”! - e dell’anticlericalismo la sua divisa, siano proprio loro ad essere colpiti. E senza alcuna pietà. Nessuno ha pensato di riceverne una delegazione, per poter ascoltare le loro richieste, venire incontro alle loro necessità, come è preciso dovere dei pastori fare. Nulla. Solo due rappresentanti della Fraternità San Pietro sono stati ricevuti. «Quanto ai laici, le madri dei sacerdoti, dai 50 ai 65 anni d’età, che hanno fatto 1500 km a piedi, da Parigi a Roma, per deporre ai piedi del Vicario di Cristo una supplica, sono state ricevute per appena 3 minuti. 1500 chilometri per un pugno di secondi».

Un comportamento che svela la falsa retorica che a Roma è ormai divenuta la regola: si dice che tutti devono trovare uno spazio nella Chiesa, ma non i “tridentini”; si parla di valorizzare i laici, ma non quelli che vanno alla Messa antica; si sgomita per mostrare quanto si apprezzino e si amino le famiglie e i bambini, ma solo quelli che vanno alla “Messa nuova” o magari neppure mettono piede in chiesa. Niente accoglienza, niente misericordia, niente ascolto per quelli che ogni settimana si sentono dare dell’”indietrista”; nei confronti di quelli della Messa in latino pare esista un unico comando: «rieducarli. Con le buone o con le cattive. La sinodalità sembra essere di moda, ma “loro” non hanno che un solo diritto: quello della sofferenza in silenzio», conclude Dickès.

Sembra che in quel di Roma esista una versione singolare della parabola del figliol prodigo, dove il padre caccia via il figlio maggiore, perché stanco di averlo sempre con lui.







domenica 26 febbraio 2023

sabato 25 febbraio 2023

Abu Dhabi: apertura della Casa della Famiglia Abramitica






23 FEBBRAIO 2023

La Casa è un centro interreligioso situato nel Distretto Culturale Saadiyat ad Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti (UAE): è stato inaugurato ufficialmente giovedì 16 febbraio 2023 dallo sceicco Saif bin Zayed al-Nahyan, Vice Primo Ministro e Ministro dell'Interno, e lo sceicco Nahyan bin Mubarak al-Nahyan, ministro della tolleranza e della coesistenza.

Il centro comprende una chiesa dedicata a San Francesco d'Assisi; una moschea, dedicata ad Ahmed El-Tayeb; e una sinagoga, dedicata a Mosè Maimonide (1138-1204), autorità rabbinica del Medioevo. L'inaugurazione è stata seguita: venerdì dalla preghiera islamica, sabato dalla celebrazione del sabato ebraico e Domenica dalla messa cattolica.

Posta sull'isola di Saadiyat, la Casa doveva originariamente aprire nel 2022, ma la costruzione ha richiesto più tempo del previsto.
La Casa della Famiglia Abramitica è scaturita dal Documento sulla Fraternità Umana firmato da Papa Francesco e dall'Imam di al-Azhar, Ahmed el-Tayeb, allo scopo di promuovere la coesistenza tra i popoli e di lottare contro l'estremismo.

La struttura è opera dell'architetto Sir David Adjaye ed è stata concepita per favorire la solidarietà e l'incontro, preservando il carattere distintivo di ciascuna delle tre religioni con la discendenza comune a partire da Abramo.

Le attività della Casa sono supervisionate da un Alto Comitato della Fraternità Umana, che ha dedicato i suoi primi sforzi all'allestimento di questa struttura. Interpellato dal Times of Israel, il rappresentante ebreo del comitato, il rabbino M. Bruce Lustig, membro anziano della Congregazione ebraica di Washington , ha parlato di una "significativa opportunità" per coloro che "credono nel potere della fede e dell'umanità".


Da Abu Dhabi ad Assisi

Parlando del progetto Casa della Famiglia Abramitica, in Corrispondenza romana del 20 novembre 2019, la storica Cristina Siccardi ha mostrato le radici profonde della crisi attuale: “Non si creda che la cittadella interreligiosa sia un'idea originale d'avanguardia. del pontificato di papa Bergoglio".

"Essa proviene “dallo 'spirito di Assisi' – che non era, non è, e non potrà mai essere lo spirito di San Francesco d'Assisi – nel 1986, quando Giovanni Paolo II aveva radunato tutti i maggiori rappresentanti delle religioni del mondo per pregare, in fratellanza umana, per la pace nel mondo".

“Ma questo 'spirito di Assisi' trova le sue radici nel Concilio Vaticano II, come si può riscontrare nel documento Nostra Ætate (28 ottobre 1965), che ha aperto il dialogo interreligioso, cancellando la missione docente della Chiesa di condannare gli errori religiosi: “ La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che lei stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (NA, 2).

“Il liberalismo ha traghettato la Chiesa degli uomini alla libertà religiosa; la libertà religiosa l'ha condotta all'ecumenismo e alla volontà interreligiosa, confondendo, con criterio laico, le carte: nessuna religione possiede la Verità, ma tutte sono portatrici plurali di verità che possono condurre, con la fratellanza umana, alla pace mondiale.

Lo “spirito di Assisi” crea oggi la Casa Famiglia Abramitica, ma tale “spirito di Abu Dhabi” ha però il merito di fare chiarezza fra chi sceglie di appartenere esclusivamente a Cristo Vivo, reale ed eterno nella sua umanità e divinità, e chi, invece, sceglie degli dèi (siano essi di origine religiosa e/o laica) impostori, diabolici ed irreali».



(Asianews/Atalayar/FSSPX.News – FSSPX.News)
Illustrazione: © Atalayar




Considerazioni storiche sul Patriarcato di Mosca (2° parte)





CHIESA CATTOLICA | CR 1783 22 Febbraio 2023 

di Roberto de Mattei

Nella Chiesa cattolica l’origine dei Patriarcati risale al Concilio di Nicea (325), che riconobbe una speciale supremazia ai vescovi di Alessandria d’Egitto e di Antiochia, sottomessi a quello di Roma. Nel Concilio di Costantinopoli (381) fu aggiunto al numero dei patriarchi il vescovo di Costantinopoli e nel Concilio di Calcedonia (451) il vescovo di Gerusalemme. La decisione sulla legittimità del titolo di Patriarca fu sempre riconosciuta al Sommo Pontefice e, ancor oggi, il Codice delle Chiese orientali, riserva alla suprema autorità della Chiesa di Roma l’istituzione, il ripristino e il mutamento di Chiese patriarcali (canoni 55-62).

Il patriarcato di Costantinopoli, che già nell’867, con Fozio, aveva scomunicato il Papa, per l’inserzione nel Credo della formula «filioque», nel 1054, con Michele Cerulario, ruppe definitivamente l’unità con la Chiesa di Roma. Lo scisma fu ricomposto nel 1439 quando, al Concilio di Firenze, il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II ritornò, con la chiesa di Bisanzio, alla fede romana. I suoi successori Metrofane II e Gregorio III Mammas rimasero fedeli all’unione con Roma. Poche notizie si hanno sopra Atanasio II, ultimo patriarca, prima della caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi nel 1453, ma sappiamo che Maometto II, in odio alla Chiesa cattolica, ripristinò nel 1454 il Patriarcato scismatico, imponendo Gennadio II come capo dei cristiani bizantini nell’Impero ottomano.

Anche in Russia, i princìpi di Mosca, da Basilio II a Ivan IV, che nel 1547 assunse il titolo di Zar, imposero la religione greco-scismatica. Dopo la morte di Ivan IV, nel 1584, e l’ascesa dello zar Fëdor I, il consigliere di quest’ultimo, Boris Godunov, si propose di consolidare il prestigio del regno, costituendo un Patriarcato di Mosca. L’occasione si verificò quando giunse a Mosca il patriarca di Costantinopoli Ieremias II, per chiedere aiuto contro gli oppressori turchi. Il patriarca fu messo agli arresti domiciliari e gli fu detto che non sarebbe stato liberato se non avesse riconosciuto canonicamente la nuova sede patriarcale. Nel gennaio 1589, in un Concilio locale convocato al Cremlino alla presenza dello Zar e della Duma dei Bojari, Ieremias fu costretto ad elevare il metropolita Iov (Giobbe) a primo patriarca di Mosca e di tutta la Russia. Padre Stefano Caprio osserva che con questo atto venne formalmente istituita la prima forma di autocefalia all’interno dell’Ortodossia, cambiandonela natura ecclesiologica, da ecumenica a etnica. «Considerando che le altre Chiese ortodosse si trovavano in condizioni di sottomissione ai turchi ottomani, si capisce perché Mosca si sia da allora considerata non semplicemente uno dei tanti patriarchi nazionali, ma la chiesa più rappresentativa di tutto il mondo ortodosso»(Russia: fede e cultura, Roma 2010, p. 97).

L’istituzione del Patriarcato di Mosca fu un atto eminentemente politico, nella prospettiva ideologica di una “Terza Roma”, che raccoglieva l’eredità del cesaropapismo bizantino, contro Roma e contro i Turchi. Ma se il Patriarcato di Costantinopoli era stato subordinato allo Stato, a Mosca fu creato dallo Stato stesso.

La risposta della Chiesa cattolica non tardò ad arrivare. Nel 1569 aveva visto la luce, con l’Unione di Lublino, un vasto Stato, che univa il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania. La Confederazione polacco-lituana accoglieva al suo interno anche esponenti dell’episcopato ortodosso che, sotto la spinta missionaria della Contro-Riforma, avevano iniziato a guardare a Roma, come punto di riferimento religioso. Essi erano chiamati ruteni (da Rus’), perché provenienti dalle regioni della Russia Bianca e della Piccola Russia, corrispondenti alle attuali nazioni della Bielorussia e Ucraina.

Il patriarca greco Ieremias, dopo essere stato obbligato a riconoscere Iov come patriarca di Mosca, tornato a Costantinopoli, lo disconobbe e nell’agosto del 1589 consacrò come metropolita di Kyiv, Galizia e tutta la Russia l’arcivescovo Michal Rahoza. Nel 1590 Rahoza sottoscrisse, con i vescovi ruteni, un documento in cui auspicava l’unione con la Chiesa cattolica, con la condizione che il rito bizantino, e le norme canoniche per i chierici fossero state preservate.

Le trattative con la Santa Sede andarono felicemente in porto. Il 23 dicembre 1595, papa Clemente VIII radunò nella Sala di Costantino del Palazzo Apostolico i cardinali presenti a Roma, la corte intera ed il corpo diplomatico per una solenne cerimonia. I due vescovi nationis Russorum seu Ruthenorum, Ipazio Potij e Cirillo Terletskyi, che rappresentavano il metropolita Rahoza e gli altri vescovi ruteni, dopo aver abiurato lo scisma, fecero una pubblica professione di fede cattolica secondo una formula che comprendeva quelle dei Concili di Nicea, di Firenze e di Trento. Negli occhi del Papa scrive lo storico Ludwig von Pastor brillavano lacrime di gioia. «La letizia ricolma oggi il Nostro cuore, che per il vostro ritorno alla Chiesa, disse egli, non si può esprimere con parole. Noi rendiamo grazie speciali a Dio immortale, il quale per mezzo dello Spirito Santo ha guidato la vostra mente così da farvi cercare il vostro rifugio nella Santa Chiesa romana, madre vostra e di tutti i credenti, la quali vi accoglie di nuovo con amore tra i suoi figli» (Storia dei Papi, vol. XI, Desclée, Roma 1942, p. 418). Una medaglia commemorativa eternò l’importante avvenimento per il quale, un secolo e mezzo dopo l’unione di Firenze, veniva di nuovo riallacciato il vincolo dell’unità tra la Chiesa russa e la Chiesa romana.

Clemente VIII, con la Costituzione apostolica Magnus Dominus et laudabilis nimis, ne diede l’annuncio alla Chiesa intera e con la Lettera apostolica Benedictus sit Pastor del 7 febbraio 1596, dichiarò che si potevano conservare inviolati gli usi e i legittimi riti della chiesa rutena, già permessi dal Concilio di Firenze. L’unione venne ufficialmente proclamata a Brest sul fiume Bug il 16 ottobre 1596 (cfr. Oscar Halecki, From Florence to Brest (1439-1596), Fordham University Press, New York1958, per un’ampia esposizione delle vicende storiche).

Con l’Unione di Brest, l’episcopato ucraino e bielorusso volle rompere il rapporto di soggezione al Patriarcato di Costantinopoli e invece di imboccare la strada dell’autocefalia, come aveva fatto il Patriarcato di Mosca, si sottomise all’autorità del Romano Pontefice. Giovanni Codevilla ricorda giustamente che la Chiesa di Kyiv non si era mai staccata formalmente da Roma e che l’aspirazione alla riunione delle Chiese non era mai venuta meno (Chiesa e Impero in Russia, Jaca Book, Milano 2011, p. 66). L’accordo siglato tra la Chiesa rutena e la Santa Sede diede inizio alla Chiesa cattolica di rito orientale, di cui oggi fanno parte la Chiesa greco-cattolica ucraina e la Chiesa greco-cattolica bielorussa. Il ristabilimento della piena comunione con la Sede di Roma fu ricordato da molti pontefici, tra i quali Pio XII, nell’enciclica Orientales omnes del 23 dicembre 1945, e Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica del 12 novembre 1995 per il IV centenario dell’Unione di Brest.

Non molti anni dopo, il ritorno a Roma fu consacrato dal sangue di un martire. Il 12 novembre 1623, Giosafat Kuncevyc, arcivescovo di Polotsk e di Vitebsk, fu colpito da frecce e con una grossa scure fu ucciso dagli scismatici. Il 29 giugno 1867 nella basilica Vaticana in presenza di circa 500 vescovi, arcivescovi, metropoliti e patriarchi dei diversi riti radunati da ogni parte del mondo, Pio IX lo proclamò santo, affermando: «Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo». Il corpo di san Giosafat, come quello dell’altro campione della fede Isidoro di Kyiv, attende la risurrezione dei morti nella basilica di San Pietro, dove riposa nell’altare di san Basilio Magno. (continua)





venerdì 24 febbraio 2023

Cinque rischi e tre contromisure urgenti. L’allarme di un grande canonista sul progetto di Chiesa sinodale





Settimo Cielo
di Sandro Magister

21 feb 23

*

Proprio mentre si concludono i sinodi continentali che confluiranno nel sinodo mondiale sulla sinodalità in programma a Roma nell’ottobre di quest’anno e poi ancora dell’anno prossimo, uscirà il 24 febbraio in libreria, in Italia, un saggio di un insigne canonista che mette allo scoperto, con rara competenza, sia le ambizioni, sia i limiti e i rischi di questo progetto capitale del pontificato di Francesco.

Il saggio, edito da Marcianum Press, ha per titolo: “Metamorfosi della sinodalità. Dal Vaticano II a papa Francesco”. E l’autore è Carlo Fantappiè, professore di diritto canonico all’Università di Roma Tre e alla Pontificia Università Gregoriana, membro dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales e autore di libri importanti anche di storia della Chiesa, sotto il profilo del diritto.

In poco più di cento pagine, agili ma documentatissime, Fantappiè ripercorre anzitutto la nascita e lo sviluppo dell’idea di sinodalità, a partire dal Concilio Vaticano II e dai turbolenti sinodi nazionali degli anni Settanta in Olanda, in Germania e in altri paesi. Ne descrive la successiva elaborazione ad opera di teologi e canonisti di vari paesi e di varia scuola, compresa la commissione teologica internazionale col suo documento “ad hoc” del 2018. E infine ne valuta l’attuazione nel “processo” che Francesco ha messo in moto.

Che Francesco abbia in mente “un nuovo modello di Chiesa” è fuori dubbio, a giudizio di Fantappiè. “Dopo il modello gregoriano, quello tridentino, quello giuridico-societario, quello di popolo di Dio, ecco affacciarsi il modello di Chiesa sinodale”. Di cui però è difficile comprendere che cosa sia, sottoposto com’è a continue variazioni da parte dello stesso papa, “quasi di mese in mese”.

“Sembra di capire – scrive Fantappiè – che papa Francesco intenda costituire un asse preferenziale, permanente, fra sinodalità e sinodo dei vescovi”, fino al punto, forse, di “attuare il transito da una ‘Chiesa gerarchica’ a una ‘Chiesa sinodale’ in stato permanente, e quindi di modificarne la struttura di governo facente perno da un millennio sul papa, sulla curia romana e il collegio cardinalizio”.

È sulla soglia di questa incombente mutazione della struttura stessa della Chiesa, messa in moto da Francesco, che Fantappiè conclude il suo saggio. Ma è anche utile passare in rassegna “i cinque rischi maggiori” che egli individua nella nuova sinodalità, così come oggi si configura.

Il primo rischio, scrive, è l’estensione della sinodalità a “criterio regolativo supremo del governo permanente della Chiesa”, superiore sia alla collegialità episcopale che all’autorità primaziale del papa.

Sarebbe questo, né più né meno, un ritorno alla “via conciliarista” di Costanza e Basilea della prima metà del Quattrocento, un vero e proprio “stravolgimento dell’assetto costituzionale della Chiesa”. Col quale avremmo “una Chiesa assembleare” e quindi “ingovernabile e debole, esposta a condizionamenti del potere politico, economico e mediatico”, al cui riguardo “dovrebbe insegnarci qualcosa la storia delle Chiese riformate e delle Chiese congregazionaliste”.

Un secondo pericolo, scrive Fantappiè, è “una visione idealistica e romantica della sinodalità”, che non prende in seria considerazione “la realtà del dissenso e del conflitto nella vita della Chiesa” e quindi rifiuta di predisporre norme e pratiche adatte a governarli. Quando invece sarebbe “necessario non soltanto fissare principi e regole circa la modalità della rappresentanza elettorale delle varie classi di fedeli e le procedure adatte per gestire i dibattiti e le votazioni, ma garantire a tutti i partecipanti le informazioni necessarie per valutare i problemi e poter prendere decisioni realistiche”.

Un terzo rischio è “una visione plastica, generica e indeterminata, della sinodalità”. Proprio perché senza una precisa configurazione concettuale, “il termine ‘sinodalità’ rischia ormai di divenire, a seconda dei casi, uno slogan (un termine improprio ed abusato per indicare il rinnovamento della Chiesa), un ‘refrain’ (un ritornello cui si ricorre in ogni occasione, quasi per moda) o un mantra (un’invocazione miracolosa capace di sanare tutti i mali presenti nella Chiesa)”.

Ciò che manca, scrive Fantappiè, è “un discrimine per poter distinguere e differenziare quel che è ‘sinodale’ da quel che non lo è”. Col risultato che “la nuova sinodalità si risolve in incontri, assemblee o convegni ai vari livelli dell’organizzazione ecclesiale”, molto simili, per l’organizzazione e le modalità, “ai sinodi nazionali tenuti nei primi anni Settanta in diversi paesi d’Europa, il cui esito è stato sostanzialmente fallimentare”. Quei sinodi erano “una sorta di trasposizione nella vita della Chiesa del movimento assembleare che si è affermato, dopo il 1968, in alcuni ambiti delle società democratiche dell’Occidente e che si fondava sul principio che la ‘base’ partecipasse direttamente al processo decisionale”.

Sta di fatto, osserva Fantappiè, che gli attuali consessi non hanno niente a che vedere con i “concili particolari” celebrati ininterrottamente nella Chiesa a partire dal II secolo e tra i cui compiti, dal Concilio Lateranense IV del 1215 in poi, c’è “l’applicazione e l’adattamento delle norme comuni dei concili generali alle realtà delle Chiese particolari”. Questi concili particolari sono tuttora prescritti dal diritto canonico, sia pure senza scansioni temporali prefissate, ma il loro abbandono è “una grave perdita per la vita della Chiesa”, tutt’altro che compensata dalla congerie di meeting e di forum oggi di moda.

E siamo al quarto rischio, identificato da Fantappiè “nella prevalenza del modello sociologico anziché teologico-canonico del processo sinodale”. Già il documento della commissione teologica internazionale sulla sinodalità “usa una terminologia tipicamente sociologica (‘strutture’ e ‘processi ecclesiali’) anziché giuridico-canonistica (‘istituzioni’ e ‘procedure’)”, ma ancor più marcata appare questa deriva “se andiamo a leggere il ‘Vademecum per il sinodo sulla sinodalità’ predisposto dal segretariato generale del sinodo dei vescovi”, oppure la sollecitazione a una “leadership collaborativa, non più verticale e clericale, ma orizzontale e cooperativa”, formulata dalla sottosegretaria del sinodo dei vescovi, suor Nathalie Becquart.

“Alla luce di questi riferimenti – osserva Fantappiè – si potrebbe supporre che, più o meno larvatamente, dietro il processo sinodale vi sia un tentativo di reinterpretare l’ufficio ecclesiastico dei vescovi, dei parroci, degli altri collaboratori nei termini di una funzione di animazione pastorale piuttosto che di ministeri sacri cui sono riservati determinati compiti istituzionali”.

Un quinto e ultimo equivoco da evitare, scrive Fantappiè, è appunto “l’identificazione del concetto di sinodalità con la dimensione pastorale”. Quando il programma della nuova sinodalità viene indicato “nella triade comunione, partecipazione, missione”, le si affidano compiti così smisurati “la cui realizzazione non può che apparire utopica”.

All’enumerazione di questi cinque rischi del presunto “farmaco” della sinodalità, al quale molti attribuiscono la capacità “di rimediare a tutti i mali della Chiesa”, Fantappiè aggiunge inoltre i suggerimenti di tre “precauzioni per l’uso”.

La prima è di stabilire per la sinodalità “confini precisi nell’ambito della sua operatività”, anche aprendo nuovi spazi alla “partecipazione di tutti i fedeli al ‘munus regendi’, ossia al governo della Chiesa nelle tre funzioni tradizionalmente distinte in legislativa, esecutiva e giudiziaria”, fermo restando che “non tutte le potestà di governo richiedono di essere congiunte con l’ordine sacro; anzi, talune di esse sarebbero piuttosto da collegare, in via dei requisiti di specifica competenza e di testimonianza cristiana, con il sacerdozio regale di tutti i fedeli”, in particolare nel settore giudiziario.

La seconda precauzione è di “sottrarsi alla confusione tra sinodalità e democratizzazione”. E la terza? È la più irrinunciabile: “evitare che la nuova sinodalità modifichi gli assetti della costituzione divina della Chiesa”. Spiega Fantappiè:

“Anche se condotta in avanti da minoranze ecclesiali, non deve essere sottovalutata la pericolosità che deriva da una visione desacramentalizzata della Chiesa, la quale si propone, più o meno coscientemente, la sua omologazione a una comunità democratica pienamente inserita nel contesto delle forme moderne del governo rappresentativo. Per questo i fautori di tale versione della sinodalità tendono a contestare la struttura gerarchico-clericale, a ridurre il ruolo della dottrina di fede e del diritto divino, a trascurare la centralità dell’eucaristia e a concepire l’organizzazione ecclesiale sul modello congregazionale (una Chiesa di Chiese)”.

Insomma, scrive Fantappiè rivolgendosi ai lettori e in particolare ai teologi e ai canonisti:

“Le speranze di un nuovo orizzonte aperto dal ‘cammino sinodale’ nella vita della Chiesa non devono essere né bruciate nei tempi brevi, né stravolte nelle loro intenzioni, né edulcorate nella loro attuazione. Quel programma attende piuttosto di essere sottoposto a verifica nelle sue premesse dottrinali, e di essere ponderato nella sua complessa articolazione, in modo da venire rafforzato quanto a coerenza teologica, solidità canonistica ed efficacia pastorale. Metterne a nudo i punti deboli, proporre le necessarie integrazioni è un compito di critica costruttiva e non di critica distruttiva, in piena sintonia – si direbbe – con lo ‘spirito sinodale’ della Chiesa”.






giovedì 23 febbraio 2023

Rescritto sulla Messa tradizionale: comunicato stampa della Società di Messa Latina e della FIUV







Rescritto sulla Messa tradizionale: comunicato stampa della Società di Messa Latina e della FIUV


Gareth Copping, Mer, 22/02/2023 


Martedì 21 febbraio la Sala Stampa della Santa Sede ha pubblicato un Rescritto che conferma, per il Dicastero del Culto Divino, alcuni punti giuridici in relazione all'interpretazione della Lettera Apostolica Traditionis Custodes di Papa Francesco .

Il punto chiave è che d'ora in avanti il ​​permesso per l'uso di una chiesa parrocchiale per le celebrazioni del Messale del 1962 potrà essere concesso solo dal Dicastero. Il Rescritto fa riferimento al canone 87.1 che afferma che i vescovi possono revocare gli obblighi del diritto universale per il bene delle anime nella loro diocesi: ciò non vale più, in quanto la materia è «riservata alla Santa Sede».

L'effetto di questa sentenza dipenderà dal grado in cui l'attuale disposizione per la celebrazione del Messale del 1962 dipende dall'uso delle chiese parrocchiali in una determinata località; la disponibilità dei vescovi a chiedere al Dicastero il permesso per continuare le celebrazioni in tali chiese; e la risposta del Dicastero a queste richieste.

Se i vescovi di tutto il mondo chiederanno il permesso per tutte le celebrazioni della Messa del 1962 che si svolgeranno nelle parrocchie delle loro diocesi, il Dicastero dovrà affrontare molte centinaia di casi da considerare, sollevando la questione della fattibilità del loro adempimento.

La Latin Mass Society e la FIUV vorrebbero esprimere il loro sgomento per il fatto che l'autorità su una materia di tale delicatezza pastorale sia stata centralizzata in questo modo.

Seguirà un grave danno pastorale se non viene concesso il permesso dove non sono prontamente disponibili luoghi di culto alternativi per l'uso delle comunità collegate alla forma più antica della Messa.

Invece di integrarli nella vita parrocchiale, la restrizione all'uso delle chiese parrocchiali emarginerà e spingerà verso le periferie i fedeli cattolici che desiderano solo adorare, in comunione con i loro vescovi, con una forma di liturgia consentita dalla Chiesa. Questo desiderio è stato descritto come una 'giusta aspirazione' da papa Giovanni Paolo II, e questa liturgia è stata descritta come rappresentazione delle 'ricchezze' da papa Benedetto XVI.

Invitiamo tutti i cattolici di buona volontà a offrire preghiere e penitenze in questa Quaresima per la risoluzione di questo problema e la libertà dell'antica Messa latina.
Punti pratici

Il Rescritto non ha effetto automatico: le celebrazioni precedentemente fissate avranno luogo, salvo diversa comunicazione da parte del Vescovo della diocesi a sacerdoti e fedeli. Il Rescritto chiarisce o modifica il significato della Traditionis Custodes, che si rivolge ai vescovi, e sono i vescovi che hanno il compito di attuarla.

Sarà lecito proseguire le celebrazioni durante la preparazione e l'evasione delle richieste.

Il Rescritto non riguarderà le celebrazioni in luoghi di culto non formalmente classificati come 'chiese parrocchiali'. Vedi sotto per una spiegazione completa.

Ulteriori spiegazioni


Il Rescritto contiene altri due punti: la riserva alla Santa Sede del permesso per l'erezione di nuove parrocchie personali, e il permesso ai sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione della Traditionis Custodes (17 luglio 2021) di celebrare il Messale del 1962. Questi semplicemente confermano il significato riconosciuto della legislazione originaria.

Per contro, è stato ampiamente rilevato che i vescovi hanno il diritto, ai sensi del can. ha chiaramente causato una certa insoddisfazione al Dicastero.

Le chiese parrocchiali sono la chiesa principale di una parrocchia geografica: molte parrocchie contengono più di un luogo di culto, e molte no. Altri luoghi di culto includono le "cappelle dell'agio" (conosciute con vari nomi in diversi paesi), che sono chiese secondarie in una parrocchia servite dal clero della parrocchia. Comprendono anche chiese e cappelle annesse a comunità religiose e case private; chiese designate come santuari; e chiese dedicate a servire un particolare gruppo non identificato con riferimento ai confini geografici di una parrocchia, cioè parrocchie personali e cappellanie (comprese le cappellanie etniche).

Lo status di una chiesa come chiesa parrocchiale è una questione che spetta al vescovo determinare (secondo procedure stabilite) nell'istituire, abolire o unire parrocchie.

Alcune diocesi hanno molte chiese non parrocchiali; altri, molto pochi. In alcuni paesi non ci sono chiese parrocchiali, perché la struttura parrocchiale non è stata stabilita. In alcuni casi le cattedrali sono pievi, in altri no.

Il fatto che l'esistenza di chiese non parrocchiali sia così varia per motivi di storia e circostanze locali rende perplesso l'accento posto sulla celebrazione del Messale del 1962 nelle chiese parrocchiali, e le restrizioni a queste celebrazioni potenzialmente molto arbitrarie e ingiuste. Le restrizioni all'uso delle chiese parrocchiali saranno molto più sentite negli Stati Uniti d'America, ad esempio, che in Italia.

Le parrocchie personali sono una possibile struttura legale attraverso la quale si può provvedere formalmente al Messale del 1962. In alcuni paesi in cui attualmente è diffusa l'offerta per la messa del 1962, come l'Inghilterra e il Galles, questa struttura è stata utilizzata molto poco. Le alternative includono l'istituzione di un santuario per la celebrazione di questo Messale, o la sua celebrazione accanto alla Messa riformata in una chiesa parrocchiale o non parrocchiale. La struttura legale di una parrocchia personale attribuisce al sacerdote incaricato molti dei doveri e dei privilegi di un parroco, ma non rende la chiesa in cui ha sede una "chiesa parrocchiale" . Una parrocchia personale può avere sede in una chiesa santuario, una chiesa condivisa con una parrocchia geografica o qualsiasi altro luogo di culto.



22 febbraio 2023, Mercoledì delle Ceneri







mercoledì 22 febbraio 2023

Ultimo disperato contrasto al principio "sacro e grande" di Benedetto XVI




mercoledì 22 febbraio 2023


Peter Kwasniewski

Naturalmente molti saranno preoccupati dalle ultime notizie dal Vaticano, il "rescritto" ottenuto dal Card. Roche da Papa Francesco, che lo autorizza (legittimamente o no) a continuare l'assalto ai membri del Corpo Mistico legati all'antico rito romano.

Continuo a pensare a questi versetti nei Vangeli: "Gesù gli disse [a Giuda]: quello che devi fare, fallo al più presto... Egli quindi, avendo ricevuto il boccone, uscì immediatamente. E fu notte" (Gv 13:27.30). "Questa è la tua ora e il potere delle tenebre" (Lc 22:53).

I nemici del rito romano sanno che il loro tempo è breve e che devono agire rapidamente per fare ogni danno possibile al culto tradizionale della Chiesa e ai fedeli ad essa legati, prima che Dio li chiami al giudizio e lasci il campo spalancato alle giovani generazioni tradizionaliste. E Nostro Signore nella Sua imperscrutabile Provvidenza gli permette di agire, come ha permesso a Giuda di tradirlo nella Sua Passione.

Ma quella sofferenza, quella morte, quella sepoltura, non erano la fine della storia. Questo lo sappiamo.
E sappiamo anche che questo crescente attacco alla liturgia tradizionale e al clero, religiosi e laici che adorano Dio e santificano le loro anime attraverso di essa non sarà la fine della storia. Stiamo assistendo all'ultimo disperato contrasto al principio "sacro e grande" di Benedetto XVI (che non è sua invenzione, ma semplicemente mens cattolica), ed è destinato a crollare nella sua cattiveria frettolosa e autodistruttiva - anzi, così come Giuda si è impiccato nel "campo del sangue".

Siate forti. Siate fedeli. Sostenete i vostri preti. Pregate per il vostro vescovo. Soffriremo e lotteremo per quest'ostruzionismo, come Dio ci ha dato la grazia di fare affrontando gli innumerevoli ostruzionismi negli ultimi sessant'anni.

(Peter Kwasniewski su Fb - Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio)
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Eloquente sine glossa, nelle due immagini a confronto, l'evidente contrasto tra ciò che è contestato e ciò che è permesso... Possiamo ben dire che la Tradizione è viva e vince sul culto del progresso.



Aggiungo un commento di un lettore: IMMAGINE ELOQUENTE
Sopra: la Chiesa cattolica apostolica, una e santa, a cui io appartengo, mentre celebra in modo sempre uguale nei secoli la Messa ("ite, missa est")
Sotto la neochiesa modernista, mondialista, ecumenica, umanitaria, mentre rappresenta in modo innovativo la mensa ("... di partecipare alla tua mensa").
Non cambia solo il rito, ma è proprio il contenuto della fede che è diverso in tutto. Lo scisma c'è già, solo che i secondi detengono il potere nella gerarchia temporale, hanno occupato le diocesi e non hanno la minima intenzione di andarsene per i fatti loro.




La guerra alla Messa antica svela il bluff della sinodalità




Dalla Santa Sede arriva un nuovo sottile colpo al rito tradizionale depotenziando ulteriormente i vescovi (liberi di negare ma non di concedere). Nella Chiesa del sinodo permanente solo di fronte alla tradizione liturgica si rialzano i muri che altrove si dice di voler abbattere.


RESCRITTO

EDITORIALI

Stefano Chiappalone, 22-02-2023

Mentre si parla e si straparla ovunque di sinodalità, lasciando che ciascuno scelga il cammino che preferisce, se “alla francese” o “alla tedesca” o “in salsa amazzonica”, la Santa Sede su un punto non transige: quella Messa non s’ha da fare. “Quella” Messa, vale a dire la forma della liturgia celebrata per secoli fino al 1970, quando d’improvviso – dopo qualche anno di sperimentazioni selvagge – un nuovo rito fu composto e imposto a tavolino e il precedente destinato a estinguersi. Tuttavia quel rito non si estinse, e ora provano a risolvere con la... misericordia (tra gli altri significati, la misericordia era anche il nome del pugnale con cui si soleva dare il colpo di grazia all'avversario ferito).

La nuova stilettata al rito romano tradizionale ha assunto la forma di un rescritto reso noto ieri e datato 20 febbraio, che praticamente sottrae al vescovo diocesano proprio quel ruolo di «moderatore, promotore e custode» della liturgia pur affermato all’articolo 2 e sin dalle prime parole del motu proprio Traditionis custodes («Custodi della tradizione» è infatti riferito ai vescovi). Ruolo che ora viene improvvisamente meno riguardo a due aspetti che la Santa Sede da ieri ha avocato a sé. Il rescriptum ex audientia Sanctissimi stabilisce infatti che nell’udienza del 20 febbraio il Santo Padre ha riservato «in modo speciale alla Sede Apostolica» la concessione dell’uso di chiese parrocchiali o l’istituzione di nuove parrocchie personali e l’autorizzazione a celebrare secondo il Missale Romanum del 1962 per i presbiteri ordinati dopo Traditionis Custodes. Il Papa conferma la linea ulteriormente “chiusurista” già espressa (e applicata) dal cardinale Arthur Roche con i Responsa del 18 dicembre 2021, che infatti sono esplicitamente citati e approvati nel rescriptum.

All’indomani del motu proprio alcuni vescovi avevano derogato al divieto di celebrare in rito antico nelle chiese parrocchiali – altri edifici di culto come cappelle, oratori, eccetera sono diffusi in Italia, ma non in tutti i Paesi – mentre la possibilità di autorizzare i nuovi sacerdoti a far uso del messale precedente le riforme era stabilita dallo stesso Traditionis Custodes come prerogativa del vescovo (art. 4), assegnando alla Santa Sede un ruolo di consultazione, non di decisione ultima – in tal senso si può parlare di una modifica ancora più restrittiva al motu proprio del luglio 2021. Ma Roche aveva parlato e agito diversamente e l’appoggio del Papa è ora esplicito. Non si salvano neanche le decisioni già prese, poiché il rescriptum stabilisce che «qualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi». In quale direzione valuterà sembra abbastanza chiaro, visti i precedenti, per esempio a Savannah, in Georgia, dove l’anno scorso il vescovo, benché favorevole, ha dovuto "consultare" il dicastero che gli ha imposto una “data di scadenza” per le celebrazioni.

Almeno ora è scritto nero su bianco: vescovi liberi, sì, ma solo di negare, con buona pace della sinodalità. Quelli troppo benevoli faranno i conti con Roche, la cui ostilità verso il rito antico è ben nota sin dai tempi del Summorum Pontificum di Benedetto XVI, come ricordava recentemente il blog Messainlatino. Resta un mistero il perché l’allora pontefice nel 2012 lo avesse chiamato a Roma proprio a occuparsi di liturgia (fatto curioso, che dimostra quanto fossero più libere le voci in dissenso proprio nel pontificato del cosiddetto “pastore tedesco”). Apprezziamo (si fa per dire) quantomeno la furbizia: rispetto alla vociferata “costituzione apostolica” (che potrebbe comunque arrivare) o a qualsiasi documento più eclatante, questo breve rescritto arriva felpato, quasi in sottotono, ma colpisce più a fondo, lasciando in mano al cardinal Roche i possibili spiragli rimasti a fedeli e sacerdoti legati alla liturgia tradizionale. Avete bisogno di preti? E io non li autorizzo. La più vicina chiesa non parrocchiale è a 50 km? E io nego la deroga. Puntano all’estinzione, come del resto già dichiarato esplicitamente, dall’art. 6 del motu proprio alle reiterate dichiarazioni del pontefice e del cardinale.

La ricca molteplicità del poliedro è sconfitta dall’uniformità della sfera (per usare uno dei mantra più ricorrenti nel linguaggio papale) in barba alla sinodalità più proclamata che praticata e persino alla «realtà superiore all’idea» (altro mantra risalente a Evangelii gaudium, n. 233). Dal 2021 viene reiterata l’idea – fissa e anche antistorica – che l’unica forma della lex orandi sia quella post-conciliare (l’unica e sola, neanche la prevalente, la principale o la “forma ordinaria”, ma l’unica). E c’è una realtà che in nome di quell’idea è volutamente calpestata e ignorata, ovvero i reali e concreti fedeli, con le loro storie personali, di ricerca e conversione, che in molti casi proprio quel rito ha contribuito a riavvicinare alla Chiesa. Sono spesso giovani, per i quali la liturgia tradizionale non è nostalgia, semmai una gioiosa scoperta.

Beninteso, a giorni alterni il poliedro si riattiva. Per esempio, il 2 febbraio quando il Santo Padre ha elogiato il rito zairese con i gesuiti di Congo e Sud Sudan («Il rito congolese mi piace, perché è un’opera d’arte, un capolavoro liturgico e poetico»). Rito che ha più volte apprezzato, e anche presieduto in San Pietro nel luglio 2022, e addirittura definito «una via promettente anche per l’eventuale elaborazione di un rito amazzonico». Rito congolese? Rito amazzonico? E come la mettiamo con l’insistenza sull’unica forma della lex orandi? Converrà guardare verso Oriente, dove i riti sono ancora più variegati, eppure il Papa a Cipro disse: «Non ci sono e non ci siano muri nella Chiesa cattolica, per favore! È una casa comune, è il luogo delle relazioni, è la convivenza delle diversità: quel rito, quell’altro rito…». Ma quel che si dice a Oriente viene smentito a Occidente, tornando a innalzare quei muri solo di fronte ai fedeli che dalla liturgia tradizionale romana traggono nutrimento spirituale. Di fronte a questi viene ammainata persino la bandiera del «Chi sono io per giudicare?»: il cardinal prefetto li ha giudicati eccome, definendoli «più protestanti che cattolici» e il Santo Padre ha appositamente coniato uno dei suoi neologismi: «indietristi», da abbinare ai più consueti: «rigidi», «pelagiani», e via apostrofando.

Non sappiamo se il rito antico effettivamente sparirà come auspicano le attuali gerarchie, in un curioso parallelismo con la “caccia alle streghe” dell’amministrazione Biden (e proprio i “cattolici tradizionali” erano nel mirino del documento trapelato e poi ritrattato dall’FBI). Di sicuro un risultato è raggiunto: quello di suscitare perplessità anche in cattolici “ordinari” che magari non frequentano quel rito. Cresce infatti il numero di quanti non riescono a spiegarsi un tale accanimento da parte della Santa Sede verso ciò che «per le generazioni anteriori era sacro e grande» e «non può essere... proibito o addirittura giudicato dannoso». Così scriveva Benedetto XVI nell’ormai remoto 2007, quando la “pace liturgica” veniva intessuta, non infranta – con buona pace del “popolo” che ora ne resta ferito.






Messe vetus ordo e sacerdoti. Bergoglio ordina: i vescovi devono ottenere l’autorizzazione dalla Santa Sede




21 FEB 2023


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by Aldo Maria Valli

La sala stampa della Santa Sede ha diffuso questa mattina il testo di un nuovo Rescriptum circa l’implementazione di Traditionis custodes.

In base al documento, l’uso delle chiese parrocchiali per i gruppi che celebrano con il rito preconciliare, come pure l’uso del messale antico da parte di sacerdoti ordinati dopo il 16 luglio 2021, può essere concesso dal vescovo soltanto dopo aver ottenuto l’autorizzazione dalla Santa Sede.


Dopo aver sostenuto che i due casi in questione sono “dispense riservate in modo speciale alla Sede Apostolica”, e che quindi i vescovi sono obbligati a chiedere l’autorizzazione alla Santa Sede, Bergoglio dispone: “Qualora un vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato a informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi”. Infine, con il nuovo rescritto Francesco “conferma quanto stabilito” nelle risposte ai dubia emersi dopo la pubblicazione di Traditionis Custodes.

Ecco il testo del Rescriptum.

*

Il Santo Padre, nell’Udienza concessa il 20 febbraio u.s. al sottoscritto Cardinale Prefetto del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha confermato quanto segue circa l’implementazione del Suo Motu Proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021.

Sono dispense riservate in modo speciale alla Sede Apostolica (cfr. C.I.C. can. 87 §1):


­ l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 3 §2);

­ la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 4).



Come stabilito dall’art. 7 del Motu proprio Traditionis custodes, il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti esercita nei casi sopra menzionati l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di quanto disposto.

Qualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi.



Inoltre, il Santo Padre, conferma – avendo già manifestato il suo assenso nell’udienza del 18 novembre 2021 – quanto stabilito nei Responsa ad dubia con le annesse Note esplicative del 4 dicembre 2021.

Il Santo Padre ha altresì ordinato che il presente Rescritto sia pubblicato su L’Osservatore Romano e, successivamente, nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.

Dal Vaticano, 20 febbraio 2023

Arthur Card. Roche

Prefetto

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Fonte: press.vatican.va





martedì 21 febbraio 2023

Mercoledì 22 febbraio 2023: Santa Messa delle Ceneri V.O. a Pistoia

 



Mercoledì 22 febbraio 2023

ore 18:00

 Santa Messa delle Ceneri 

in rito antico 



nella chiesa di San Vitale 

a Pistoia 
(in via della Madonna 2)





Le regole per il digiuno e l’astinenza da osservare durante la Quaresima





21 FEBBRAIO 2023


Offriamo uno specchietto sulle regole da osservare durante la Quaresima

Durante la Quaresima sono di precetto:


Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo: digiuno e astinenza

Tutti i venerdì: astinenza

Questi precetti obbligano gravemente, ovvero: se volontariamente si omettono, causano peccato mortale

Come C3S consigliamo di osservare, laddove fosse possibile, la tradizione del digiuno tutti i venerdì della Quaresima e dell’astinenza tutti i venerdì dell’anno.

In cosa consiste il digiuno ecclesiastico?


Nel fare un solo pasto senza carne, a cui è permesso di aggiungere la colazione del mattino e della sera o della metà del giorno (a seconda delle proprie abitudini).

In generale, la colazione del mattino consiste in una bevanda e un po’ di pane, e quella della sera o della metà del giorno in circa ¼ di un pasto normale.

Secondo la legge della Chiesa sono tenute

al digiuno: le persone dai 18 anni ai 60 iniziati.

all’astinenza: le persone dai 14 anni compiuti.

(E’ vivamente consigliato abituare i bambini fin da piccoli al rispetto dell’astinenza e ad un minimo di digiuno adatto alla loro età).

In cosa consiste l’astinenza?


Nel non mangiare carne, sughi e estratti di carne, né alimenti conditi con la carne.

Sono esentati dal digiuno e dall’astinenza:

i malati, le donne incinte e gli addetti a lavori pesanti

i viaggiatori (lunghi viaggi)

per altri casi, conviene consultare un sacerdote








lunedì 20 febbraio 2023

Maritain, pensiero contraddittorio e superato




Prima antimoderno, poi dialogante col modernismo, infine "pentito" dei suoi errori. Di certo c'è che ha contribuito alla secolarizzazione della Chiesa. Il 50esimo anniversario della morte permette di considerare quanto sia relegato a un'epoca trascorsa il filosofo Jacques Maritain, che pure ha entusiasmato molti nell'epoca conciliare.




ANNIVERSARIO


EDITORIALI

Stefano Fontana, 20-02-2023

In questo 2023 ricorrono 50 anni dalla morte di Jacques Maritain (1882-1973). Non si può dire che sia passato molto tempo, ci sono ricorrenze molto più lunghe e ciononostante i personaggi ricordati dimostrano una sorprendente attualità. Non è così per Maritain, che appare invece un esempio di un’epoca ormai trascorsa. Ricordarlo comporta quindi una certa stanca tristezza, anche di tipo intellettuale.

La sua biografia filosofica dice che purtroppo ha finito per scontentare tutti. Era partito come antimoderno, poi con Umanesimo integrale (1936) ha preso le distanze dalla cristianità, quindi ha pensato ad una nuova cristianità che si interfacciava col modernismo, infine ne Il contadino della Garonna (1966) ha fatto ammenda di alcuni errori, compreso quest’ultimo. Aveva entusiasmato molti, ma ne ha delusi altrettanti perché non esiste un solo ed unico Maritain. L’esame di coscienza del Contadino della Garonna non era così radicale da riconquistare la fiducia degli antimoderni, e non era nemmeno così di maniera da soddisfare i modernisti. Oggi ci si guarda intorno e non si vede quasi nessuno che si rifaccia al suo pensiero. Circoli intitolati a Maritain ce ne sono ancora in giro per l’Italia ma sono esempio di una infatuazione di un tempo.

Eppure, la sua vicenda è stata un passaggio molto importante nella cultura cattolica e nella filosofia cristiana. Ha provocato una transizione che oggi appare superata solo perché si è andati ormai molto oltre. La sorte di Maritain è stata di fare da tramite, di provocare un transito, di favorire un passaggio ad una fase post-maritainiana nella quale era fatale egli venisse dimenticato. Una volta effettuato il guado, la barca che lo ha permesso non serve più a nulla e viene abbandonata, dato che indietro è impossibile tornare dopo il nuovo approdo.

Una volta ricusato senza appello e in modo decisamente frettoloso l’ideale della cristianità in Umanesimo integrale (1936), Maritain fece una proposta impossibile: una nuova cristianità senza Cristo e fondata sull’uomo, meglio: sulla persona. Cristianesimo e democrazia (1943) e L’uomo e lo Stato (1951) sono due testi insostenibili, la loro tesi centrale non regge. Riletti oggi dicono di una ingenuità sorprendente. Su quelle basi non si poteva costruire nulla, solo fare da ponte verso altro.

La persona, secondo Maritain, era frutto del cristianesimo ma non tanto come religione quanto come animatore di civiltà. Prodotta dal cristianesimo, essa comportava una dimensione laica. Poteva essere condivisa da appartenenti ad altre religioni e anche da atei. Sulla persona era quindi possibile fondare una morale politica democratica, una fede secolare, che egli chiamava “nuova cristianità” appunto nel senso della sua laicità. La religione cristiana, dopo aver prodotto quel concetto, doveva come ritirarsi dalla vita pubblica, pena il ritorno alla vecchia e vituperata cristianità, e lasciare che i cristiani, non più da cristiani ma solo da cittadini come tutti gli altri, quindi in modo anonimo e invisibile, testimoniassero il loro impegno.

Il progetto presentava evidenti falle. Per esempio, se il concetto di persona ha avuto bisogno della religione cristiana per nascere e consolidarsi, come avrebbe potuto sopravvivere integro se la religione cristiana si fosse ritirata? Il principio di qualche cosa non è solo l’inizio, ma soprattutto il fondamento. Romano Guardini corresse questo grave errore sostenendo ne La fine dell’epoca moderna (1950) che il concetto di persona nato dal cristianesimo è destinato a corrompersi con il ritiro del cristianesimo dalla scena pubblica a seguito della secolarizzazione della modernità.

Un secondo esempio: le altre religioni e l’ateismo non possono convergere in un concetto di persona conforme a quello generato dal cristianesimo. Una idea di persona neutra, pre-religiosa o pre-atea non esiste. Maritain avrà forse pensato al concetto naturale di persona, quello cui anche la ragione umana da sola può arrivare e avrà ritenuto che siccome questa ragione umana è presente in tutti gli uomini, è possibile convergere su di essa mettendo da parte le rispettive religioni. Ma così si dimentica che la natura è sì autonoma nel proprio ordine, ma solo in teoria, dato che per esserlo realmente dovrebbe essere una natura pura, che non esiste e affermarlo è una eresia. Su questo ed altri punti fondamentali il grande e acutissimo confutatore di Maritain è stato Étienne Gilson.

Nonostante la sua fragilità, il progetto di Maritain abbagliò molti e divenne una allucinazione molto diffusa nella Chiesa dell’epoca conciliare. Ma non fece che accelerare il processo di secolarizzazione, ridusse l’impegno sociale e politico ad un fatto di coscienza individuale del credente e non più un fatto di Chiesa, preparò la ben più devastante “scelta antropologica” della teologia postconciliare e, con la pretesa di distinguere, finì per separare fede e impegno politico. Oggi la Chiesa è andata molto oltre queste posizioni, ed è per questo che di Maritain nessuno si ricorda più, tranne qualche nostalgico come Giovanni Cucci su La Civiltà Cattolica del 4 febbraio.






Dalle viscere di Sant’Anselmo a Santa Marta. All’attenzione di Francesco due bozze di documento per dare il colpo finale alla Messa Vetus Ordo




20 FEB 2023

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by Aldo Maria Valli

Sono sempre più insistenti le voci secondo cui Francesco sarebbe esaminando un documento il cui scopo è di ampliare e rafforzare la portata del suo motu proprio Traditionis custodes del 2021. L’obiettivo sarebbe affermare che l’unica liturgia ufficiale del rito latino è il Novus Ordo e regolamentare in modo restrittivo le comunità ex Ecclesia Dei.

La bozza del documento, che avrebbe la forma di costituzione apostolica, sarebbe da circa un mese all’esame del papa. La provenienza è il dicastero vaticano per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, presieduto dal cardinale Arthur Roche.


Redatta da funzionari del dicastero sotto la supervisione del segretario, l’arcivescovo Vittorio Francesco Viola, la futura costituzione apostolica darebbe un duro colpo alle comunità ex Ecclesia Dei. Vieterebbe infatti le ordinazioni diaconali e sacerdotali nel Vetus Ordo, così come l’amministrazione dei sacramenti ai fedeli. Inoltre potrebbe spingersi a vietare la celebrazione delle Messe Vetus Ordo la domenica.

Monsignor Viola, dell’ordine dei frati minori, ha compiuto gli studi presso l’Istituto teologico di Assisi e il Pontificio istituto liturgico Sant’Anselmo di Roma, dove ha ottenuto licenza e dottorato in sacra liturgia.


Il “salto di qualità” è evidente: se Traditionis custodes vuole contrastare la crescita della Messa apostolica tra il clero diocesano, il nuovo documento vuole invece colpire le comunità ex Ecclesia Dei.

Ma non basta. Come scrive Diane Montagna, sul tavolo del papa, accanto a questa bozza di documento, ve ne sarebbe un’altra, apparentemente meno dura nella forma ma in realtà più radicale nella sostanza, con la quale si vorrebbe demolire definitivamente la possibilità di celebrare la liturgia tradizionale.


Caratteristica di questa seconda bozza sarebbe quella di non menzionare mai il Vetus Ordo ma di celebrare il cinquantaquattresimo anniversario della costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI (3 aprile 1969), con la quale fu promulgato il Messale Romano rinnovato “per ordine del Concilio Vaticano II”.

Il nuovo documento, che per solennizzare l’anniversario verrebbe pubblicato il lunedì della prossima Settimana Santa (3 aprile, appunto), metterebbe in luce le “benedizioni” ottenute con la riforma liturgica di Paolo VI e i “frutti abbondanti” prodotti nella Chiesa dal Missale Romanum, con la proposta di “coronare e completare” la riforma. Come? Semplice: dichiarando che l’unico rito ufficiale della Chiesa cattolica latina è appunto quello previsto dal Messale Romano di Paolo VI e che nessuna alternativa sia possibile al Novus Ordo.


Questa seconda bozza porterebbe all’applicazione di tutto ciò che è contenuto nella prima, ma in modo più subdolo, evitando di mettere esplicitamente nel mirino la Messa apostolica. In questo modo sia i vescovi ostili alla liturgia tradizionale sia quelli che, pur non essendo ostili in linea di principio, sono disposti a sacrificarla per quello che viene visto come un bene più grande, avrebbero a loro disposizione lo strumento giuridico per sradicare la Messa Vetus Ordo nelle loro diocesi.

A quanto si apprende, contro l’una e l’altra bozza ci sarebbe una forte resistenza da parte di alcuni ambienti della Curia romana che vedono nel provvedimento un atto ingiusto e crudele nei confronti di una liturgia, il Vetus Ordo, che in tutto il mondo sta attirando un numero crescente di fedeli, per lo più giovani. Senza contare che una simile costituzione apostolica sconfesserebbe totalmente la linea tenuta da Benedetto XVI con Summorum pontificum, e tutto ciò solo a pochi mesi dalla morte di papa Ratzinger.


In un’intervista di un anno fa l’allora monsignor Roche (poi creato cardinale da papa Francesco nel concistoro dell’agosto 2022) spiegò che l’obiettivo del suo dicastero è “perseguire l’attuazione del documento del Concilio Vaticano II sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium”, per lui la “Magna Carta” in campo liturgico. “Non posso sapere – aggiunse – se la vecchia forma della Messa finirà per cadere in disuso”, ma certamente lo scopo di Traditionis custodes è “avvicinare le persone alla comprensione di quanto chiesto dal Concilio”.

A proposito del gruppo di lavoro che starebbe dietro le due bozze consegnate al papa, il sito The Wanderer, che i lettori di Duc in altum ben conoscono, spiegava tempo fa che l’elemento comune è il Pontificio istituto liturgico dell’ateneo Sant’Anselmo, i cui studiosi si considerano, insieme alla Scuola di Bologna, gli eredi legittimi dello “spirito conciliare” in materia liturgica. Parliamo dunque del professor Andrea Grillo, ben introdotto e ascoltato a Santa Marta, del già citato monsignor Viola, anch’egli “uscito dalle viscere di Sant’Anselmo”, di don Corrado Maggioni e altri: una “élite di illuminati che riconoscono come capostipiti monsignor Annibale Bugnini e il suo segretario, monsignor Piero Marini”, già maestro delle cerimonie liturgie pontificie (1987-2007) per Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

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Fonti:

remnantnewspaper.com

thetablet.co.uk

caminante-wanderer.blogspot.com





domenica 19 febbraio 2023

La Perla Preziosa: Domenica di Quinquagesima

 








A cura dell'Associazione Madonna dell'Umiltà, Domenica 19 febbraio 2023















sabato 18 febbraio 2023

Ci fanno paura le malattie del corpo, ma non ci preoccupiamo di quelle più gravi dell’anima






Siamo disposti a molto, a tanto, pur di farci curare dal migliore specialista; ma poi non facciamo alcun sacrificio per curare la nostra anima.

Le penitenze le abbiamo dimenticate. Le rinunce anche. Di impegno per migliorare e santificare la nostra anima, neanche a parlarne.

Ovviamente ci diciamo “cristiani” e non ci accorgiamo che, in questo modo di fare, di cristiano non c’è nulla.

Certo, il corpo va curato… eccome. La salute fisica va salvaguardata non solo per sé, ma anche per gli altri a cui la nostra persona serve, nel senso letterale di “servire”. Ma l’anima l’abbiamo quasi completamente dimenticata. Non c’impegniamo più di tanto per eliminare e odiare il peccato. E in questo modo viviamo da pagani, da pagani-cristiani, ma da pagani.

Eppure, se noi pensassimo prima alla nostra salute spirituale e poi a quella del corpo, il Signore ci darebbe grazie tanto per l’anima quanto per il corpo. L’importante è gerarchizzare.

Sentiamo cosa ci dice Jean-Baptiste Saint-Jure nel suo “Fiducia nella divina Provvidenza. Segreto di pace e felicità”:

(…) tu hai dei mali segreti molto più considerevoli di quelli di cui ti lamenti, mali da cui, nondimeno, non chiedi di essere liberato; se, per ottenere ciò, avessi rivolto la metà delle preghiere che hai fatto per essere guarito dai mali esteriori, già da lungo tempo il Signore ti avrebbe liberato dagli uni e dagli altri. 
La povertà ti serve per tenere il tuo spirito, naturalmente orgoglioso, nell’umiltà, l’attaccamento estremo che hai per il mondo rende necessarie quelle maldicenze che ti affliggono; le malattie sono in te come una diga per proteggerti dalla tendenza che hai per piaceri, quella tendenza che ti trascinerebbe in mille malanni. (…) Se il Signore vedesse in te qualche premura per acquistare queste virtù, te le concederebbe senz’altro e non sarebbe più necessario chiedere il resto.”





venerdì 17 febbraio 2023

La Messa cattolica: Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia




Questo sabato e questa domenica mons. Athanasius Schneider presenterà con il coautore Aurelio Porfiri il libro “La Messa Cattolica” : Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia. Appuntamento a Napoli e a Modena.



 Martin Mosebach,17 febbraio 2023

La liturgia è al centro della nostra vita di cattolici. Abbiamo ricevuto questo grande dono da Dio, il nostro Creatore, che ci dà l'opportunità di lodarlo in bei riti, preghiere e canti, durante le belle cerimonie che la Chiesa deve conservare per il bene dei suoi fedeli. Questo libro del Vescovo Athanasius Schneider, coadiuvato dal M° Aurelio Porfiri, è una grande risorsa per riscoprire la bellezza della Messa e per metterci in guardia dai tanti abusi che la liturgia della Chiesa deve subire in troppe chiese nel mondo. È un libro che ci fa pensare a ciò che possiamo avere e anche a ciò che potremmo aver perso. Card. Joseph Zen


«La liturgia non riguarda noi, ma Dio», scriveva nel 2004 il cardinale Ratzinger. Questo non è ancora più vero per quello che riguarda al Santo Sacrificio della Messa: è opera di Dio, non nostra―anche se per grazia del Battesimo noi siamo partecipanti privilegiati alla sua azione salvifica. La profonda riverenza del vescovo Schneider per la Messa e la Santissima Eucaristia è nata dalla sua esperienza della loro privazione nella persecuzione. Se riusciremo ad assorbire anche un po' della fede e dell'amore da cui è emerso questo libro, non solo capiremo perché è essenziale restituire la centralità di Dio alla liturgia, ma ci occuperemo noi stessi di questo necessario lavoro senza ulteriori indugi. Card. Robert Sarah


Con la Santa Eucaristia o Santa Messa è sempre con noi il Signore Gesù, Colui che sulla Croce ha trasformato l'atto di violenza compiuto dagli uomini contro di Lui in atto di donazione e di amore. Quello che gli uomini hanno fatto a Cristo è il culmine del male che si commette in ogni tempo: un male più grande non sarà mai commesso. Questo libro è un aiuto prezioso per entrare in un così grande Mistero. Mons. Nicola Bux


Questo libro proclama un messaggio che tutti noi abbiamo bisogno di ascoltare. Ed è questo: vivere con la nostra vita centrata su Dio è l'unico modo sicuro di vivere. Lo facciamo nel modo più completo quando preghiamo la Messa con profonda riverenza, in cui ogni dettaglio proclama la grandezza e la misericordia di Dio. Il vescovo Athanasius Schneider attinge abbondantemente dalla Sacra Scrittura, dai santi e dai Dottori della Chiesa. Leggere e meditare su questo libro sarà trasformativo e unitivo. Scott Hahn


Il vescovo Athanasius Schneider, che trascorse i primi anni nella Chiesa clandestina sovietica, presenta con grande chiarezza il nucleo della missione della Chiesa: permettere ai fedeli, in questo mondo, di prendere parte alla liturgia celeste. Ciò avviene principalmente attraverso i sacramenti della Chiesa e si manifesta in modo particolarmente espressivo attraverso la tradizionale liturgia della Santa Messa. Nella presente opera, Mons. Schneider sottolinea in modo convincente la forza di questa liturgia cristocentrica, che è in grado di superare ogni ostacolo in un ambiente fissato su questo mondo. La Chiesa del nostro tempo non può che essere grata per la voce di questa coraggiosa testimonianza.




Sull’insensatezza di quel “non abbandonarci alla tentazione”

  


17 FEB 2023

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by Aldo Maria Valli



di Piergiorgio Cesario

A distanza ormai di più di due anni dall’introduzione della frase “Non ci abbandonare alla tentazione” mi chiedo ancora come sia stato possibile arrivare al punto di cambiare le parole di Nostro Signore, e addirittura in ciò che di più grande ci ha consegnato: il Pater noster.

Sono un docente di matematica e, come tale, amo la logica, il ragionamento rigoroso e la precisione. Se da un canto una lingua non è una formula di matematica, è pur vero che le regole della grammatica hanno un loro grado di precisione e i termini e i verbi un loro chiaro significato.


Nemmeno un mediocre studente di greco di un qualsiasi liceo classico d’Italia si sognerebbe di tradurre il verbo eisenenkai (da eisferein, che vuol dire letteralmente portare, condurre dentro) con “abbandonare”. Sarebbe un errore da evidenziare con la matita blu, come i professori facevano in un tempo ormai lontano.

Trattandosi di un verbo di movimento, la traduzione corretta è “Fa’ che non entriamo nella tentazione”, che potrebbe essere reso meglio dicendo “Fa’ che non cadiamo nella tentazione”.


Ci vogliono due minuti per spiegare ai fedeli in un’omelia questo significato dell’espressione “non indurci in tentazione”, con la quale generazioni di fedeli hanno pregato il Pater. Né occorrono conferenze per far comprendere che in greco, latino e anche ebraico esistono verbi dotati di senso causativo-fattivo o permissivo i quali, tradotti, necessitano di due parole anziché una. Caesar pontem fecit, per esempio, non significa “Cesare fece il ponte” ma Cesare fece fare il ponte.


Ora una breve riflessione sulla sfumatura del verbo di movimento “entrare”. Nel linguaggio semitico la condizione morale dell’uomo era vista e descritta come un luogo, infatti quando ci si riferiva al peccato si usava l’espressione “tenda del peccato” in contrapposizione alla “tenda dei giusti”. Ovvio che si trattava di una metafora. Pertanto aderire al peccato, acconsentire alla tentazione, veniva reso anche con un verbo di movimento, “entrare nel peccato”, e del resto anche noi usiamo l’espressione “cadere in peccato”.


In conclusione “non ci indurre in tentazione” esprime esattamente il significato descritto, ovvero “non permettere che entriamo dentro la tentazione”, in quanto non indurre significa “non permettere che entriamo” o, come detto prima, in modo più breve “fa’ che non cadiamo”. Per cui, se proprio si voleva cambiare il testo, bisognava usare un’espressione magari più precisa e non, come arbitrariamente è stato fatto, stravolgere il senso e il significato della richiesta di Gesù a Dio Padre!

Come possiamo dire a Dio “non abbandonarci”? Come pensare che sia possibile che il Signore ci lasci soli e ci abbandoni, andando così contro la sua stessa parola che in decine di passi ci assicura che non ci abbandona mai e mai lo farà? “Non si addormenterà il tuo custode, non prenderà sonno… il Signore è il tuo custode, è come ombra che ti copre, e sta alla tua destra…il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri da ora e per sempre” (salmo 121). “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò” (Ebrei 13,5).


La prova definitiva e incontrovertibile di quanto affermo la troviamo in un testo che dovrebbe essere la guida sicura non solo dei fedeli ma anche dei ministri e dei pastori, ma che da molti anni sembra totalmente dimenticato. Parlo del Catechismo della Chiesa cattolica, che ai numeri 2846 e 2847 chiarisce in modo limpidissimo la questione.


… i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non «indurci» in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza [n. 2846].

Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore 134 in vista di una «virtù provata», e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte.

Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere […]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere [n. 2847].

Notiamo: è quasi come se il Padre ci “accompagnasse” verso la prova; del resto lo Spirito Santo condusse Gesù nel deserto “per essere tentato dal diavolo”, cioè esattamente per essere sottoposto alla prova, cioè alla triplice tentazione (Mt. 4, 1-11).

Tutta la tradizione della Chiesa insegna che è dovere di ogni cristiano affrontare la tentazione, combatterla e vincerla con la Grazia di Dio. Questo non è un mio pensiero, ma lo dice chiaramente la Parola di Dio in molti passi.


«Perché tu eri accetto a Dio bisognava che ti provasse la tentazione» (Tobia, 12, 13).

«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione, non ti smarrire nel tempo della prova» (Siracide 2; 1,3).

La Chiesa ha sempre insegnato che la tentazione ha una sua utilità, come afferma e spiega chiaramente il numero 2847 del Catechismo e come possiamo ascoltare dalla voce dei santi e dei padri della Chiesa.

Ascoltiamo sant’Agostino:


«La nostra vita in questo luogo di esilio non può essere senza tentazioni perché il nostro avanzamento avviene soltanto per la tentazione. Nessuno può arrivare a conoscere sé stesso finché non è tentato, né essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento presuppone un nemico, una prova, una tentazione».

In un altro bellissimo passo tratto dal Commento ai salmi ascoltiamo che cosa ci dice parlando delle tentazioni di Gesù nel deserto, parole da rileggere e meditare:

«Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.

Se siamo stati tentai in Lui, sarà proprio in Lui che vinceremo il diavolo. Cristo avrebbe potuto tenere lontano il diavolo; ma, se non si fosse lasciato tentare, non ti avrebbe insegnato a vincere, quando sei tentato.”

Ascoltiamo San Leone Magno “Non si danno opere di virtù senza le prove della tentazione, né lotta senza avversari, né vittoria senza combattimento, se vogliamo trionfare dobbiamo venire alla lotta” (Primo discorso sulla quaresima)».

Concludo con quanto scrive la mistica Maria Valtorta. Pur non potendo avere la certezza che la donna abbia scritto sotto dettatura di Gesù, l’opera gigantesca della mistica casertana è una fonte di spiritualità apprezzata in tutto il mondo e la Chiesa non vi ha trovato il minimo errore dottrinale e teologico. Va sottolineata dunque l’assoluta concordanza di quanto scrive con quello che è affermatone nel Catechismo della Chiesa cattolica. Giudicate voi stessi: ecco il brano in cui Gesù, commentando frase per frase la preghiera del Padre nostro, arriva al “non indurci in tentazione”:


Dio Padre il male lo permette ma non lo crea, Egli è il Bene da cui sgorga ogni bene, ma il male c’è, ci fu dal momento in cui Lucifero si ribellò contro Dio, sta a voi fare del male un bene vincendolo e, implorando dal Padre la forza per vincerlo; ecco cosa chiedete con l’ultima petizione che Dio vi dia tanta forza da saper resistere alla tentazione; senza il Suo aiuto la tentazione vi piegherebbe perché essa è astuta e forte e voi siete ottusi e deboli ma la Luce del Padre vi illumina, ma la Potenza del Padre vi fortifica, ma l’Amore del Padre vi protegge onde il male muore e voi ne rimanete liberati (Gesù a Maria Valtorta, dai Quaderni del 1943. Dettato del 7 luglio).

Rivolgiamoci dunque tutti insieme con fede a Dio Padre e supplichiamolo pregando: «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen».

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A proposito del nuovo Padre nostro ricordiamo il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks), curato da Aldo Maria Valli con contributi di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta.

Non più “non ci indurre in tentazione” bensì “non ci abbandonare alla tentazione”. Questo il cambiamento deciso dai vescovi italiani per la preghiera del Padre nostro. Ma perché la nuova traduzione? In controtendenza rispetto alla spiegazione che va per la maggiore, e cioè che in questo modo il testo sarebbe più in linea con il contenuto evangelico, il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro”, a cura di Aldo Maria Valli, sostiene che il cambiamento ha origine da un indebito ammorbidimento delle parole che Gesù stesso ha insegnato ai discepoli. La nuova traduzione nasce nel clima di buonismo e misericordismo a cui si ispira la Chiesa in questa fase, ignorando però che Dio, nella Sacra Scrittura, mette più volte alla prova le persone per verificare la loro fede e che Gesù stesso, durante la permanenza nel deserto, fu esposto alle tentazioni. La smania di cambiamento è espressione del “cambio di paradigma”, o “rivoluzione culturale” che si vuole attuare nella Chiesa odierna, in nome di un “ecclesialmente corretto” che non deve disturbare la sensibilità moderna. I contributi raccolti nel libro sono di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta.