mercoledì 23 gennaio 2013

La credibilità della Chiesa



Autentica per natura




di Inos Biffi

Si sente molte volte parlare di Chiesa che deve essere “credibile”, e non raramente si invita a pregare perché lo sia, specialmente nell'orazione dei fedeli, ch'è stata assunta da non pochi come l'occasione propizia per manifestare i propri pensieri e le proprie parole in libertà. Ma, esattamente, che cosa si intende dire quando si chiede a Dio che la Chiesa sia credibile?

Se per credibilità della Chiesa si intende la sua autenticità e verità, allora si deve osservare che la Chiesa è autentica e vera per la sua stessa natura e istituzione, ed è Cristo stesso a garantire e conferire tali imperdibili prerogative. Diversamente, non sarebbe più la Chiesa di Cristo; non rappresenterebbe più il suo Corpo e la sua Sposa, cesserebbe di essere intimamente animata e guidata dallo Spirito Santo. In breve: non esisterebbe più oggettivamente come Chiesa.

Ma, se il compito della Chiesa non è propriamente quello di rendersi valida e attendibile, forse sarebbe più illuminato domandare a Dio che quanti vi appartengono si distinguano per il fervore della fede, visto che la Chiesa è per definizione una comunità di fedeli.

E infatti si diventa Chiesa in virtù dell'adesione al Vangelo, dell'accoglienza della Parola di Dio e quindi della sequela di Gesù Cristo.

Ricorre anche un altro diffuso modo di esprimersi, quando si dice della Chiesa che dev'essere “persuasiva”. Anche al riguardo viene da chiedersi: che cosa significa “persuasiva”? Sembra ovvio che l'autentica Chiesa di Cristo possegga le ragioni puntuali e idonee a mostrare la propria verità e validità; tuttavia sembrerebbe più pertinente parlare dei suoi membri che devono essere “persuasi” e manifestare tale persuasione ancora una volta con la loro fede.

Questo linguaggio ne richiama un altro allo stesso modo ripetuto, quello relativo alla profezia, che deve distinguere la Chiesa e quindi i cristiani, fedeli e pastori, che devono essere dei profeti. Probabilmente ci si dimentica che il profeta è Gesù Cristo nel quale risiede in pienezza la Verità, e che si è profeti nella misura in cui si crede in Lui e si compiono opere dettate dalla fede. I cosiddetti profeti che vengono auspicati ed esaltati sono di solito segnati da spirito critico, da risentimento e da sapore antiecclesiale.

Possiamo aggiungere un altro rilievo. Ai linguaggi a cui abbiamo accennato sembra soggiacere la convinzione che, se il mondo non crede, sarebbe appunto perché la Chiesa non è abbastanza credibile e persuasiva, o non abbastanza profetica. In realtà, verrebbe da notare che Gesù stesso, in sé sommamente credibile, persuasivo e profetico, non ha suscitato l'adesione di tutti; ma soprattutto osserveremmo che a importare primariamente non è se si riesca a persuadere, ma se si è persuasi; come non è se si pervenga a ispirare la fede, ma se si possegga veramente la fede. Senza dubbio i discepoli del Signore devono offrire i segni della loro sequela, dei quali quello proprio -- secondo Gesù -- è l'amore vicendevole (cfr. Giovanni, 13, 35); allo stesso modo, essi non possono non desiderare che «il mondo creda», ma sono certi che la Chiesa, di cui fanno parte, ha in sé la grazia della testimonianza convincente, che essi condividono esattamente nella misura in cui sono credenti.

D'altra parte, e più radicalmente, non va dimenticato che non è la nostra santità a rendere santa la Chiesa ma è la santità della Chiesa che rende santi noi; non è la nostra fede a rendere la Chiesa credente, ma è la fede della Chiesa che ci fa credenti.

Noi siamo nativamente privi di grazia: la riceviamo, entrando a far parte della Chiesa, che della stessa grazia è il sacramento, essendo il “luogo” dello Spirito Santo. In altri termini: sono le prerogative della Chiesa a riflettersi nei singoli che in essa si trovano.

Oggi si va continuamente citando il passo della Prima Lettera di Pietro: «pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi» (3, 15), che secondo il contesto non significa che i cristiani devono sapere apologeticamente spiegare i motivi della loro fede, ma che nella loro condotta sono chiamati a offrire ai pagani la testimonianza della loro speranza.

L'apologetica illuminata fa parte della fede cristiana, che non è un'adesione cieca e immotivata, anche se in questi anni se ne è fatto un attacco spesso sconsiderato. E certamente tutti i veri credenti hanno dentro sé ragioni “evidenti” della loro fede. Non è detto però che tutti siano in grado di esprimerle adeguatamente o, come si dice, scientificamente, anche se la ricerca critica appartiene all'educazione della fede. Non senza, tuttavia, avvertire che ci può essere una profonda maturazione della stessa fede sul piano dell'esperienza, senza che essa comporti necessariamente uno sviluppo della capacità riflessiva e argomentativa. Tommaso d'Aquino parlerebbe appunto di esperienza della realtà divina (divina pati), da cui viene la conoscenza teologica «per inclinazione» (Summa Theologiae, i, 1, 6, 3m): una conoscenza, cioè, «connaturale», di cui fruiscono tutti coloro che sono in grazia e di conseguenza tutti coloro che sono vitalmente nella Chiesa.
C'è nel cristiano una tranquillità profonda, sicuro com'è che la Chiesa cui appartiene è indefettibilmente credibile e persuasiva, poiché non cesserà mai di essere il Corpo di Cristo e la sua Sposa fedele.


(©L'Osservatore Romano 23 gennaio 2013)

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