di Sandro Magister
In una recente intervista alla rivista “Liturgia, ‘culmen et fons’”, il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie Guido Marini, nel commentare il canto del “Gloria” nella messa natalizia del papa, ha tirato una stoccata contro una tendenza musicale diffusa:
“Vale la pena ricordare la struttura innica del “Gloria”, che pertanto non dovrebbe essere mai eseguito nella forma responsoriale”.
In effetti, l’introduzione di un ritornello, nel “Gloria” come in altri canti che di per sé non lo prevedono, è una pratica largamente entrata in uso, giustificata dalla volontà di facilitare la “partecipazione attiva” dei fedeli.
All’origine di questa e di altre pratiche simili c’è la dissociazione del testo di un canto liturgico dalla “forma” musicale che la stessa liturgia gli ha dato.
Con la conseguenza che il maestro Fulvio Rampi, grande gregorianista, così illustra:
“L’immediata e logica conseguenza è inevitabile: nell’attuale situazione – che ha via via consolidato un grave malinteso circa il significato di partecipazione attiva dell’assemblea al rito – è scontato che al ‘come’ venga anteposto il ‘chi’ canta. E quindi è all’assemblea dei fedeli che si assegna il primato, subordinando il ‘come’ cantare alle possibilità concrete ed esigue dell’assemblea stessa, incuranti di distruggere con ciò la forma originaria, e quindi il significato autentico, del canto consegnatoci dalla Chiesa”.
Rampi ha analizzato in profondità, in più occasioni, la crisi che il canto sacro attraversa da decenni. Tra i molti suoi testi, www.chiesa ha pubblicato integralmente la relazione tenuta il 19 maggio 2012 a Lecce nel convegno “Colloqui sulla musica sacra. Cinquant’anni dal Concilio Vaticano II alla luce del magistero di Benedetto XVI”:
> Il canto gregoriano: un estraneo in casa sua
Ma ora egli torna sul tema con un nuovo ampio intervento che è il seguito di quello ora citato:
> Il canto dell’assemblea liturgica fra risorsa ed equivoco
In esso, Rampi orienta la riflessione sulle conseguenze pratiche che occorrerebbe far derivare dalla diagnosi da lui fatta in precedenza: “conseguenze che interessano i nodi centrali del canto liturgico, primo fra tutti il rapporto fra assemblea e canto della liturgia”.
La proposta di Rampi è di consolidare l’affidamento a una “schola” del canto del proprio della messa, cioè dell’introito, del communio eccetera, da eseguirsi in gregoriano “o in forme elevate polifoniche di antica o nuova composizione sui medesimi testi propri”.
Assicurata questa priorità, all’assemblea dei fedeli spetterebbe sia il canto dell’ordinario della messa, cioè del Kyrie, del Gloria, eccetera (”non in forme responsoriali”), sia l’accompagnamento di altri momenti come l’ingresso o la comunione con canti “in stile semplice e con testi diversi da quelli del proprio”, in particolare nella forma dell’inno, già presente nell’ufficio divino e simile al corale della tradizione protestante tedesca.
Se questo riordino della musica liturgica prendesse corpo nelle cattedrali, nelle basiliche, nei santuari, Rampi confida che anche le più umili parrocchie troverebbero lì dei modelli esemplari. Anche “in vista della formazione di un nuovo repertorio specifico per il canto del popolo”.
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