L'ANNO DELLA FEDE - SAPERE E CREDERE
È considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi. Lui di sé dice: «Sono un cattolico che fa il filosofo». Dialogo con ROBERT SPAEMANN su cosa salva la ragione dall’autodistruzione: la conoscenza e l’amore. Perché «mettere in dubbio Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa»
Presentando Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, il cardinale Camillo Ruini ha detto: «Considero questo libro, assieme a Persone. Sulla differenza fra “qualcosa” e “qualcuno”, il capolavoro di Robert Spaemann». Per chi volesse conoscere il pensiero di questo ottantacinquenne pensatore tedesco considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi (anche se di sé preferisce dire: «Sono un cattolico che fa il filosofo»), vale la pena menzionare almeno altri due suoi lavori: Natura e ragione. Saggi di antropologia (a cura di Luca F. Tuninetti, Edusc) e Cos’è il naturale: natura, persona, agire morale (a cura di Ugo Perone, Rosenberg & Sellier).
Fini naturali esce in una collana intitolata “La ragionevolezza della fede”, cui il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione ha concesso l’utilizzo del logo ufficiale dell’Anno della Fede. Spaemann era a Roma nei giorni scorsi. Tracce l’ha incontrato.
Mi sembra significativa la pubblicazione in Italia di questo suo libro durante l’Anno della Fede. Lei denuncia il dualismo del pensiero contemporaneo tra naturalismo e spiritualismo, per Benedetto XVI il problema della cultura positivistica è la frattura tra sapere e credere. La fede non c’entra più con la ragione, quindi con la vita. La fede può aiutare la ragione moderna a rimettere al centro l’uomo, il suo bene e non il suo possesso e il suo uso?
Effettivamente oggi è la fede cristiana che difende la ragione dalla sua autodistruzione. Già Cartesio lo aveva visto. Lui ha mostrato che, se lo vogliamo, possiamo sempre dubitare del risultato della nostra comprensione razionale, anche di ciò che è evidente: secondo Cartesio, infatti, potrebbe trattarsi dell’inganno di un genio maligno. Oggi non abbiamo bisogno dell’ipotesi di un genio maligno, ma la verità in quanto risultato di una evidenza è soltanto una condizione mentale soggettiva condizionata dal processo evolutivo che, stando alla fede evoluzionistica, ci offre un vantaggio rispetto al resto della natura. Cartesio aveva bisogno dell’idea di Dio per giustificare la fiducia nella ragione umana.
In questo senso Joseph Ratzinger sfida i suoi contemporanei a «vivere come se Dio esistesse»?
Le scienze naturali si limitano a ricostruire la realtà empirica con l’aiuto di simulatori. Ma se la ragione proibisce a se stessa di riflettere sul rapporto che questi modelli hanno con la realtà, il Papa la considera un’automutilazione della ragione. Di fronte al metodico «etsi Deus non daretur» della scienza, egli postula un liberatorio «etsi Deus daretur» che è un rifiuto del dimezzamento della ragione. In questa situazione è la fede cristiana che difende la pretesa elementare della ragione di essere aperta a ciò che “è in verità”, la pretesa di una conoscenza dell’assoluto, di Dio.
Una fede come forma di conoscenza...
Benedetto XVI riprende una concezione anti-fideistica e insiste sul fatto che la fede cristiana non è una fede cieca, un fanatismo, ma una fede che vede, un “rationabile obsequium”. Quando Gesù dice ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi», mostra che la discepolanza cristiana non è un’imitazione cieca, ma intelligente obbedienza.
Lei fa vedere come le posizioni della modernità si rovescino spesso nel loro opposto. Il tentativo naturalista di spiegare i gesti umani riconducendoli ai procedimenti fisiologici del cervello finisce per negare l’uomo concreto come essere che agisce. La sua posizione filosofica, invece, è stata definita di «ingenuità istituzionalizzata». Forse è questo il problema di noi moderni, l’incapacità di stupirsi per le cose presenti?
Sì, è così. In nome della scienza viene tolta all’uomo la sua capacità di agire. Avviene una colonizzazione del nostro mondo vitale. Ma, tornando alla domanda precedente, mettere in dubbio la realtà di Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa. Non va mai dimenticato che affermare qualcosa come reale significa affermare tale realtà come verità eterna.
Con la sua “ingenuità” lei rivendica la possibilità di dire quello che sta sotto gli occhi di tutti, l’evidenza del reale. Oggi sembra quasi impossibile. Chesterton diceva: «Tutto sarà negato, fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Si riconosce in questo ruolo di difensore dell’esperienza elementare dell’uomo comune?
Di nuovo, le posso solo dare ragione. Lei cita Chesterton. Io desidero menzionare un altro testimone, Clive S. Lewis con il suo libretto L’abolizione dell’uomo, che fu scritto durante la Seconda Guerra mondiale e che Hans Urs von Balthasar ha tradotto in tedesco. Ne ha scritto anche Joseph Ratzinger, segnalando come il problema dei tempi moderni additato come pericolo mortale da Lewis, cioè il problema morale della nostra epoca, sta nell’essersi separata da quell’evidenza originaria di cui si è detto. Diceva Lewis già nel 1943, usando l’immagine del vecchio patto con il mago: «Dammi l’anima tua, e riceverai in cambio potere. Ma una volta che avremo ceduto l’anima, cioè noi stessi, il potere che ce ne viene in cambio non ci apparterrà più... È nella potestà dell’uomo concepire se stesso come mero “oggetto naturale”... L’obiezione pertinente è questa: l’uomo che vuole concepirsi come materiale grezzo, materiale grezzo diventa».
L’uomo vuole conoscere la realtà, ha l’esigenza della verità. Lo scientismo contemporaneo (con le sue applicazioni sociali e politiche) vuole dominarla per usarla. Questo potere, lei dice, si estende anche sull’uomo. Come mai, nell’epoca che ne esalta i diritti, l’uomo finisce per essere un oggetto programmabile, rifiutabile e alla totale mercé del potere di altri uomini?
Viviamo, in un certo senso, in un mondo schizofrenico. Per un verso, la libertà umana dovrebbe emanciparsi da ogni presupposto naturale. E quelli che lo chiedono sono spesso gli stessi che propugnano un’immagine straordinariamente elevata di dignità umana e di libertà. Ma appena un attimo dopo spiegano che l’uomo non è affatto libero e le sue azioni sono processi causali privi di senso guidati dal cervello. La civiltà moderna è imprigionata in una dialettica di naturalismo e spiritualismo.
Lei dice che senza un fine il fenomeno della vita umana non è conoscibile; la ricerca delle cause spiega solo metà del reale. L’uomo percepisce che non può vivere senza uno scopo, senza un senso, allora lo decide lui. Per lei invece il fine è intrinseco, c’è una natura da riconoscere. Come spiegarlo, ad esempio, a chi sostiene la teoria del gender e afferma che la persona si sceglie l’identità sessuale?
Vivere, dice Aristotele, è «l’essere del vivente», non è una qualità determinata. L’uomo morto non è un uomo che ha perduto una qualità, ma con lui è il soggetto di possibili qualità che è scomparso dal mondo. L’essere del vivente è un processo continuo di assimilazione. Quando questo cessa, cessa l’essere dell’organismo vivente e comincia il processo privo di senso della corruzione. Ma non esiste la “vita” in quanto tale. Ogni vivente appartiene a una specie e la sua tendenza alla conservazione di sé è la tendenza alla conservazione di questa specie. «Ciascuno secondo la sua specie», si dice nel racconto della creazione nel libro della Genesi. La fame, la sete, l’attrazione per l’altro sesso hanno questo fine. L’uomo supera il fine della conservazione grazie all’auto-trascendenza che è a lui propria nella duplice forma della conoscenza e dell’amore. Ci dicono che noi dovremmo scegliere il nostro genere sessuale. Libera scelta, responsabilità, colpa, virtù, punizione, perdono eccetera, sono poi però soltanto finzioni. Ma la nostra vita associata poggia su tali finzioni. Per questa mentalità, dialogare razionalmente intorno alle verità razionali è, appunto, una finzione, la copertura di lotte di potere. Insomma, il nostro vero desiderio non sarebbe conoscere noi stessi e la realtà, ma soltanto una volontà di potenza.
Lo diceva già Nietzsche...
Sì, ma mi sembra più conoscitore dell’uomo Benedetto XVI, che ha indetto un Anno della Fede che è anche un anno della ragione. Oggi è chi ha fede che difende le capacità della ragione. Se trovate qualcuno che afferma con forza la capacità della ragione di raggiungere la verità, allora si può quasi essere certi che si tratti di un cattolico. Ripeto, la ragione ha bisogno di Dio e della fede, perché dove Dio è negato, alla fine anche la ragione è negata.
Tracce N.2, Febbraio 2013
È considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi. Lui di sé dice: «Sono un cattolico che fa il filosofo». Dialogo con ROBERT SPAEMANN su cosa salva la ragione dall’autodistruzione: la conoscenza e l’amore. Perché «mettere in dubbio Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa»
Presentando Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, il cardinale Camillo Ruini ha detto: «Considero questo libro, assieme a Persone. Sulla differenza fra “qualcosa” e “qualcuno”, il capolavoro di Robert Spaemann». Per chi volesse conoscere il pensiero di questo ottantacinquenne pensatore tedesco considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi (anche se di sé preferisce dire: «Sono un cattolico che fa il filosofo»), vale la pena menzionare almeno altri due suoi lavori: Natura e ragione. Saggi di antropologia (a cura di Luca F. Tuninetti, Edusc) e Cos’è il naturale: natura, persona, agire morale (a cura di Ugo Perone, Rosenberg & Sellier).
Fini naturali esce in una collana intitolata “La ragionevolezza della fede”, cui il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione ha concesso l’utilizzo del logo ufficiale dell’Anno della Fede. Spaemann era a Roma nei giorni scorsi. Tracce l’ha incontrato.
Mi sembra significativa la pubblicazione in Italia di questo suo libro durante l’Anno della Fede. Lei denuncia il dualismo del pensiero contemporaneo tra naturalismo e spiritualismo, per Benedetto XVI il problema della cultura positivistica è la frattura tra sapere e credere. La fede non c’entra più con la ragione, quindi con la vita. La fede può aiutare la ragione moderna a rimettere al centro l’uomo, il suo bene e non il suo possesso e il suo uso?
Effettivamente oggi è la fede cristiana che difende la ragione dalla sua autodistruzione. Già Cartesio lo aveva visto. Lui ha mostrato che, se lo vogliamo, possiamo sempre dubitare del risultato della nostra comprensione razionale, anche di ciò che è evidente: secondo Cartesio, infatti, potrebbe trattarsi dell’inganno di un genio maligno. Oggi non abbiamo bisogno dell’ipotesi di un genio maligno, ma la verità in quanto risultato di una evidenza è soltanto una condizione mentale soggettiva condizionata dal processo evolutivo che, stando alla fede evoluzionistica, ci offre un vantaggio rispetto al resto della natura. Cartesio aveva bisogno dell’idea di Dio per giustificare la fiducia nella ragione umana.
In questo senso Joseph Ratzinger sfida i suoi contemporanei a «vivere come se Dio esistesse»?
Le scienze naturali si limitano a ricostruire la realtà empirica con l’aiuto di simulatori. Ma se la ragione proibisce a se stessa di riflettere sul rapporto che questi modelli hanno con la realtà, il Papa la considera un’automutilazione della ragione. Di fronte al metodico «etsi Deus non daretur» della scienza, egli postula un liberatorio «etsi Deus daretur» che è un rifiuto del dimezzamento della ragione. In questa situazione è la fede cristiana che difende la pretesa elementare della ragione di essere aperta a ciò che “è in verità”, la pretesa di una conoscenza dell’assoluto, di Dio.
Una fede come forma di conoscenza...
Benedetto XVI riprende una concezione anti-fideistica e insiste sul fatto che la fede cristiana non è una fede cieca, un fanatismo, ma una fede che vede, un “rationabile obsequium”. Quando Gesù dice ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi», mostra che la discepolanza cristiana non è un’imitazione cieca, ma intelligente obbedienza.
Lei fa vedere come le posizioni della modernità si rovescino spesso nel loro opposto. Il tentativo naturalista di spiegare i gesti umani riconducendoli ai procedimenti fisiologici del cervello finisce per negare l’uomo concreto come essere che agisce. La sua posizione filosofica, invece, è stata definita di «ingenuità istituzionalizzata». Forse è questo il problema di noi moderni, l’incapacità di stupirsi per le cose presenti?
Sì, è così. In nome della scienza viene tolta all’uomo la sua capacità di agire. Avviene una colonizzazione del nostro mondo vitale. Ma, tornando alla domanda precedente, mettere in dubbio la realtà di Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa. Non va mai dimenticato che affermare qualcosa come reale significa affermare tale realtà come verità eterna.
Con la sua “ingenuità” lei rivendica la possibilità di dire quello che sta sotto gli occhi di tutti, l’evidenza del reale. Oggi sembra quasi impossibile. Chesterton diceva: «Tutto sarà negato, fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Si riconosce in questo ruolo di difensore dell’esperienza elementare dell’uomo comune?
Di nuovo, le posso solo dare ragione. Lei cita Chesterton. Io desidero menzionare un altro testimone, Clive S. Lewis con il suo libretto L’abolizione dell’uomo, che fu scritto durante la Seconda Guerra mondiale e che Hans Urs von Balthasar ha tradotto in tedesco. Ne ha scritto anche Joseph Ratzinger, segnalando come il problema dei tempi moderni additato come pericolo mortale da Lewis, cioè il problema morale della nostra epoca, sta nell’essersi separata da quell’evidenza originaria di cui si è detto. Diceva Lewis già nel 1943, usando l’immagine del vecchio patto con il mago: «Dammi l’anima tua, e riceverai in cambio potere. Ma una volta che avremo ceduto l’anima, cioè noi stessi, il potere che ce ne viene in cambio non ci apparterrà più... È nella potestà dell’uomo concepire se stesso come mero “oggetto naturale”... L’obiezione pertinente è questa: l’uomo che vuole concepirsi come materiale grezzo, materiale grezzo diventa».
L’uomo vuole conoscere la realtà, ha l’esigenza della verità. Lo scientismo contemporaneo (con le sue applicazioni sociali e politiche) vuole dominarla per usarla. Questo potere, lei dice, si estende anche sull’uomo. Come mai, nell’epoca che ne esalta i diritti, l’uomo finisce per essere un oggetto programmabile, rifiutabile e alla totale mercé del potere di altri uomini?
Viviamo, in un certo senso, in un mondo schizofrenico. Per un verso, la libertà umana dovrebbe emanciparsi da ogni presupposto naturale. E quelli che lo chiedono sono spesso gli stessi che propugnano un’immagine straordinariamente elevata di dignità umana e di libertà. Ma appena un attimo dopo spiegano che l’uomo non è affatto libero e le sue azioni sono processi causali privi di senso guidati dal cervello. La civiltà moderna è imprigionata in una dialettica di naturalismo e spiritualismo.
Lei dice che senza un fine il fenomeno della vita umana non è conoscibile; la ricerca delle cause spiega solo metà del reale. L’uomo percepisce che non può vivere senza uno scopo, senza un senso, allora lo decide lui. Per lei invece il fine è intrinseco, c’è una natura da riconoscere. Come spiegarlo, ad esempio, a chi sostiene la teoria del gender e afferma che la persona si sceglie l’identità sessuale?
Vivere, dice Aristotele, è «l’essere del vivente», non è una qualità determinata. L’uomo morto non è un uomo che ha perduto una qualità, ma con lui è il soggetto di possibili qualità che è scomparso dal mondo. L’essere del vivente è un processo continuo di assimilazione. Quando questo cessa, cessa l’essere dell’organismo vivente e comincia il processo privo di senso della corruzione. Ma non esiste la “vita” in quanto tale. Ogni vivente appartiene a una specie e la sua tendenza alla conservazione di sé è la tendenza alla conservazione di questa specie. «Ciascuno secondo la sua specie», si dice nel racconto della creazione nel libro della Genesi. La fame, la sete, l’attrazione per l’altro sesso hanno questo fine. L’uomo supera il fine della conservazione grazie all’auto-trascendenza che è a lui propria nella duplice forma della conoscenza e dell’amore. Ci dicono che noi dovremmo scegliere il nostro genere sessuale. Libera scelta, responsabilità, colpa, virtù, punizione, perdono eccetera, sono poi però soltanto finzioni. Ma la nostra vita associata poggia su tali finzioni. Per questa mentalità, dialogare razionalmente intorno alle verità razionali è, appunto, una finzione, la copertura di lotte di potere. Insomma, il nostro vero desiderio non sarebbe conoscere noi stessi e la realtà, ma soltanto una volontà di potenza.
Lo diceva già Nietzsche...
Sì, ma mi sembra più conoscitore dell’uomo Benedetto XVI, che ha indetto un Anno della Fede che è anche un anno della ragione. Oggi è chi ha fede che difende le capacità della ragione. Se trovate qualcuno che afferma con forza la capacità della ragione di raggiungere la verità, allora si può quasi essere certi che si tratti di un cattolico. Ripeto, la ragione ha bisogno di Dio e della fede, perché dove Dio è negato, alla fine anche la ragione è negata.
Tracce N.2, Febbraio 2013
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