lunedì 30 dicembre 2024

LIBERALMENTE CORRETTO – La presunta “crisi climatica”





Attualità



di Michele Gelardi, 23 Dicembre 2024

L’immensa impalcatura, di dimensione mondiale, costruita intorno al c.d. cambiamento climatico – chiamato anche “crisi” dagli osservatori, sempre più numerosi, non particolarmente impensieriti dalla necessità di dare un senso alle parole e mantenere il rigore logico – poggia su una misera congettura, per di più originata da un palese inganno. 

In verità, il termine “crisi”, che allude alla penuria di qualcosa e, specialmente, di stabilità e indirizzo politico, mal si adatta al supposto “surriscaldamento globale”. E tuttavia questa perfida parola, entrata oggi nel lessico comune, è la più adatta alla suggestione voluta e tenacemente ricercata, giacché induce a pensare che la “crisi”, generata da una “mancanza” di intervento, possa infine essere risolta con l’intervento provvidenziale degli “Stati generali” dell’umanità. COP 29 è lì per questo. 

In verità pochi sanno che la teoria del global warming è fondata sulle osservazioni “scientifiche” di due illustri studiosi, il cui curriculum accademico è stato ulteriormente lustrato dalla vicenda, nota oltre confine come climategate, quasi del tutto ignorata in Italia. Dalle comunicazioni via mail dei due si evince univocamente e chiaramente che i dati immessi nel Report del 1999 furono “taroccati” per suffragare conclusioni predefinite, assolutamente gratuite. 

Phil Jones, ingegnere idraulico, direttore del Climatic Research Unit, ammetteva testualmente: “ho appena completato il trucco di Mike su Nature… per nascondere il declino”. Il trucco era diretto a confermare le precedenti conclusioni di Michael Mann (il Mike della mail) sull’attuale presunto caldo “senza precedenti”, i cui precedenti, invece, nel corso dei secoli sono facilmente rinvenibili. 

Eppure lo studio “taroccato”, il quale enuncia nella migliore delle ipotesi una congettura gratuita, è stato posto a base di tutte le successive implicazioni vestite di “scienza esatta”, all’ONU, EU e dintorni. 

Oggi l’impalcatura subisce una nuova scossa. La congettura scricchiola ulteriormente perché pare che la Co2 non incida minimamente sul supposto “cambiamento climatico”. L’astrofisica Valentina Zharkova, della Northumbria University di Newcastle, ci dice innanzitutto che il cambiamento climatico è guidato dal Sole e stiamo per entrare in una piccola era glaciale (ben diversa dal global warming). 

Ma ci dice anche qualcosa di sconvolgente sulla “cattiva” Co2, tanto cattiva che i serricultori la utilizzano per rendere le piante rigogliose e verdi. In realtà nel nostro pianeta abbiamo un deficit di Co2; la concentrazione attuale della Co2 è di 420 ppm, cioè lo 0,042; il contributo antropogenico è del 3%, cosicché l’uomo incide per lo 0,0407% alla concentrazione dell’anidride carbonica nel pianeta, la quale peraltro è deficitaria, come detto. Altro che allevamenti bovini dannosi! 

E supponiamo pure che le conclusioni tratte dalla Zharkova siano altrettanto gratuite di quelle dei “taroccatori” Phil Jones e Michael Mann. E ammettiamo pure che la credibilità intrinseca delle due tesi, ossia la coerenza puramente tecnico-scientifica, sia equivalente; non possiamo dimenticare che differisce di gran lunga la credibilità estrinseca, di contesto. 

Una tesi si basa su dati assolutamente opinabili e per di più alterati in virtù di un “trucco” (di cui si ha certezza); l’altra su dati veritieri, sottoposti al controllo della comunità scientifica; una è stata formulata per conto di un munifico committente (Organizzazione Metereologica Mondiale), in grado di offrire vantaggi economici e prebende di vario tipo; l’altra costituisce l’esito di un ricerca disinteressata, non commissionata da alcuno; la prima compiace la narrazione green, in base alla quale si è messo in moto il business gigantesco delle energie rinnovabili, automobili elettriche e quant’altro; la seconda non agevola alcun business; la prima giustifica l’interventismo umano, espresso in atti politici, e dunque compiace il potere politico; la seconda si rassegna alla potenza del Sole, indifferente alla carriera accademica e alle sorti della politica. 

Quale la più attendibile? Quella non piegata a priori a interessi economici e politici esterni? Oppure quella che costituisce (secondo il prof. Battaglia) “il più grande scandalo scientifico del secolo”?








sabato 28 dicembre 2024

Il fascino per l'immaginazione del rituale cattolico: la messa bassa di Émile Zola

Immagine: A sinistra: particolare di José Benlliure y Gil, 
Oyendo misa, Rocafort ; a destra, Edouard Manet, ritratto di Emile Zola




Peter Kwasniewski, 26 dicembre 2024

Oggi vorrei deliziare i miei lettori e ascoltatori con un delizioso passaggio tratto da un'opera della letteratura francese oggigiorno raramente letta (in traduzione, ovviamente). L'autore è Émile Zola, il romanzo è La trasgressione dell'abate Mouret, il passaggio è il capitolo 2 del libro I, molto vicino all'inizio. Ciò che trovo così sorprendente in questo capitolo è il modo vivido e meraviglioso in cui Zola riesce a narrare le parole e i rituali di una messa bassa nonostante sia un notorio non credente, lontano dalla Chiesa. In questo esercizio letterario, la messa è un po' disturbata dal trambusto della cameriera del prete, la sessantenne "La Teuse"; tuttavia, qualsiasi amante della Tradizione si troverà a casa.

Anche un francese laico e anticlericale potrebbe vedere e comprendere la (vecchia) Messa come un rituale religioso. Questo perché è oggettiva, formale, scritta, precisa e totalmente focalizzata sull'oggetto della devozione, una descrizione che può essere data per qualsiasi rito religioso noto all'uomo, e che è anche, in un modo curioso, una descrizione consona a qualsiasi processo artistico degno del nome di arte.

La nuova Messa difficilmente può essere riconosciuta come un puro rituale in questo senso: varia da (nel migliore dei casi) un rituale piuttosto debole ed esiguo a (nel peggiore dei casi) un libero per tutti che, sociologicamente parlando, non è diverso da qualsiasi riunione laica per scopi laici. Ecco perché è del tutto incapace di ispirare grande arte e, in particolare, arte letteraria. Nessuno sarebbe in grado di trovare il minimo interesse in una descrizione romanzesca o poetica della nuova Messa (immaginate Zola che ci prova!). Ma la vecchia Messa ha ispirato ogni artista che sia mai entrato in contatto con essa, come si può leggere ampiamente nel libro The Latin Mass and the Intellectuals (che ho recensito qui ).

Le epoche sane ci mostrano la stretta parentela e collaborazione tra religione e arte; le epoche malate ci mostrano il loro graduale allontanamento o il loro divorzio disordinato. A volte l'arte si trasforma in religione, come è accaduto tra i decadenti; a volte la religione tenta di fare a meno dell'arte o si rivolta contro di essa, come nelle tragiche esplosioni di iconoclastia. Ma sono sempre coinvolte in una relazione. Penso che apprezzerete il modo in cui lo stile letterario fluido di Zola rende omaggio al rituale senza tempo della Chiesa.




LA CHIESA VUOTA era completamente bianca quella mattina di maggio. La corda della campana vicino al confessionale pendeva immobile ancora una volta. La piccola lampada a mensola, con il suo paralume di vetro colorato, bruciava come una macchia cremisi contro il muro a destra del tabernacolo. Vincent, dopo aver posato le ampolle sulla credenza, tornò indietro e si inginocchiò appena sotto il gradino dell'altare a sinistra, mentre il sacerdote, dopo aver reso omaggio al Santo Sacramento con una genuflessione, salì all'altare e lì stese il corporale, al centro del quale pose il calice. Poi, dopo aver aperto il Messale, scese di nuovo. Seguì un altro piegamento del ginocchio e, dopo essersi segnato e aver pronunciato ad alta voce la formula, "Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", sollevò le mani giunte al petto ed entrò nel grande dramma divino, con il volto sbiancato dalla fede e dall'amore.
'Introibo ad altare Dei.'

«Ad Deum qui laetificat juventutem meam», farfugliava Vincent, il quale, accovacciato sui talloni, mormorava i responsori dell'antifona e del salmo, mentre osservava La Teuse che vagava per la chiesa.

La vecchia serva fissava una delle candele con sguardo turbato. La sua ansia sembrava aumentare mentre il prete, inchinandosi con le mani di nuovo giunte, recitava il Confiteor. Lei rimase immobile, a sua volta si batté il petto, con la testa china, ma tenendo sempre d'occhio la candela. Per un altro minuto la voce grave del prete e i balbettii del ministrante si alternarono:
' Dominus vobiscum.'
" Et cum spiritu tuo."

Allora il sacerdote, allargando le mani e poi ricongiungendole, disse con devota compunzione: «Oremus» (Preghiamo).

La Teuse non ne poteva più, ma si mise dietro l'altare, raggiunse la candela che gocciolava e la ritagliò con le punte delle forbici. Due grandi gocce di cera erano già state sprecate. Quando tornò di nuovo, rimettendo in ordine i banchi e assicurandosi che ci fosse acqua santa nelle fonti, il prete, le cui mani erano appoggiate sul bordo della tovaglia dell'altare, stava pregando a bassa voce. E alla fine baciò l'altare.

Dietro di lui, la piccola chiesa appariva ancora pallida nella pallida luce del primo mattino. Il sole, per ora, era solo a livello del tetto di tegole. Il Kyrie Eleisons risuonava tremolante attraverso quella specie di stalla imbiancata con soffitto piatto e travi imbrattate. Su entrambi i lati tre alte finestre di vetro semplice, la maggior parte delle quali incrinate o rotte, lasciavano entrare una luce cruda di rozzezza gessosa.

L'aria libera entrava a fiumi, sottolineando la nuda povertà del Dio di quel villaggio abbandonato. All'estremità della chiesa, sopra la grande porta che non veniva mai aperta e la cui soglia era verde di erbacce, da una parete all'altra si estendeva una galleria con assi di legno, raggiungibile con una comune scala da mugnaio. Terribili erano i suoi scricchiolii nei giorni di festa sotto il peso degli zoccoli di legno. Vicino alla scala c'era il confessionale, con pannelli deformati, dipinti di un giallo limone. Di fronte, accanto alla porticina, c'era il fonte battesimale, un'antica acquasantiera appoggiata su un piedistallo di pietra. A destra e a sinistra, a metà della chiesa, due stretti altari erano addossati al muro, circondati da balaustre di legno.

Su quella di sinistra, dedicata alla Beata Vergine, c'era una grande statua in gesso dorato della Madre di Dio, che indossava una corona d'oro regale sui suoi capelli castani; mentre sul suo braccio sinistro sedeva il Divino Bambino, nudo e sorridente, la cui piccola mano sollevava l'astro dell'universo. I piedi della Vergine erano in bilico sulle nuvole e sotto di essi spuntavano le teste dei cherubini alati.

Poi l'altare di destra, usato per le messe per i defunti, era sormontato da un crocifisso di cartapesta dipinta, un pendente, per così dire, all'effigie della Vergine. La figura di Cristo, grande quanto un bambino di dieci anni, lo mostrava in tutto l'orrore dei suoi spasimi di morte, con la testa gettata all'indietro, le costole sporgenti, l'addome incavato e gli arti distorti e spruzzati di sangue. C'era anche un pulpito, una scatola quadrata raggiungibile con un blocco di cinque gradini, vicino a un orologio con pesi mobili, in una cassa di noce, i cui tonfi scuotevano l'intera chiesa come i battiti di un enorme cuore nascosto, forse, sotto le lastre di pietra. Lungo tutta la navata le quattordici stazioni della Via Crucis, quattordici stampe rozzamente colorate in strette cornici nere, punteggiavano il biancore abbagliante delle pareti con il giallo, il blu e lo scarlatto delle scene della Passione.
« Deo Gratias », balbettò Vincent alla fine dell'Epistola.

Il mistero dell'amore, l'immolazione della Santa Vittima, stava per iniziare. Il ministrante prese il Messale e lo portò a sinistra, o lato del Vangelo, dell'altare, facendo attenzione a non toccare le pagine del libro. Ogni volta che passava davanti al tabernacolo faceva una genuflessione obliqua, che lo faceva cadere tutto di traverso. Ritornato ancora una volta sul lato destro, si mise in piedi con le braccia incrociate durante la lettura del Vangelo. Il sacerdote, dopo aver fatto il segno della croce sul Messale, si fece il segno della croce: prima sulla fronte, per dichiarare che non sarebbe mai arrossito per la parola divina; poi sulla bocca, per mostrare la sua immutabile prontezza a confessare la sua fede; e infine sul cuore, per sottolineare che apparteneva solo a Dio.
« Dominus vobiscum », disse, voltandosi verso la fredda chiesa bianca.
« Et cum spiritu tuo », rispose Vincent, che era di nuovo in ginocchio.

Dopo aver recitato l'Offertorio, il sacerdote scoprì il calice. Per un momento tenne davanti al petto la patena contenente l'ostia, che offrì a Dio, per sé, per i presenti e per tutti i fedeli, vivi e defunti. Quindi, facendola scivolare sul bordo del corporale senza toccarla con le dita, prese il calice e lo asciugò con cura con il purificatoio. Nel frattempo, Vincent aveva preso le ampolline dalla credenza e ora le presentò a turno, prima il vino e poi l'acqua. Il sacerdote offrì quindi a nome del mondo intero il calice mezzo pieno, che poi rimise sul corporale e coprì con la palla. Quindi pregò di nuovo e tornò al lato dell'altare dove il ministrante lasciò gocciolare un po' d'acqua sui suoi pollici e indici per purificarlo dalla minima macchia di peccato. Dopo essersi asciugato le mani con il panno, La Teuse, che stava lì ad aspettare, svuotò il vassoio con l'ampolla in un secchio di zinco all'angolo dell'altare.

" Orate, fratres ", riprese il prete ad alta voce mentre si trovava di fronte ai banchi vuoti, allungando e riallacciando le mani in un gesto di appello a tutti gli uomini di buona volontà. E voltandosi di nuovo verso l'altare, continuò la sua preghiera a voce più bassa, mentre Vincent cominciò a borbottare una lunga frase latina in cui alla fine si perse. Fu allora che i raggi gialli del sole cominciarono a saettare attraverso le finestre; chiamato, per così dire, dal prete, il sole stesso era venuto a messa, gettando teli dorati di luce sulla parete di sinistra, sul confessionale, sull'altare della Vergine e sul grande orologio.

Un leggero scricchiolio proveniva dal confessionale; la Madre di Dio, in un alone, nello splendore della sua corona e del suo mantello dorati, sorrideva teneramente con le labbra tinte al bambino Gesù; e l'orologio riscaldato scandiva il tempo con colpi sempre più rapidi. Sembrava che il sole popolasse le panche con i granelli polverosi che danzavano nei suoi raggi, come se la piccola chiesa, quella stalla imbiancata, fosse piena di una folla ardente. Fuori, si udivano i suoni che raccontavano del felice risveglio della campagna, i fili d'erba sospiravano contenti, le foglie umide si asciugavano al calore, gli uccelli si potavano le piume e facevano un primo giro veloce. E in effetti la campagna stessa sembrava entrare con il sole; perché accanto a una delle finestre un grande sorbo si alzò, spingendo alcuni dei suoi rami attraverso i vetri rotti e allungando le gemme frondose come per dare un'occhiata all'interno; mentre attraverso le fessure della grande porta le erbacce sulla soglia minacciavano di invadere la navata. In mezzo a tutta questa vita che si animava, il grande Cristo, ancora in ombra, da solo mostrava segni di morte, le sofferenze della carne imbrattata di ocra e macchiata di lacca. Un passero si sollevò per un momento sul bordo di una buca, diede un'occhiata, poi volò via; ma solo per riapparire quasi immediatamente quando con ali silenziose cadde tra le panche davanti all'altare della Vergine. Un secondo passero lo seguì; e presto da tutti i rami del sorbo ne uscirono altri che saltellavano tranquillamente sulle lastre.

« Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth », disse il prete a bassa voce, leggermente chinato.

Vincent suonò tre volte il campanello; e i passeri, spaventati dal tintinnio improvviso, volarono via con un ronzio d'ali così possente che La Teuse, che era appena tornata in sacrestia, ne uscì di nuovo brontolando: "Quei piccoli monelli! rovineranno tutto. Scommetto che la signorina Desirée è tornata qui a spargere loro le briciole di pane".

Il momento terribile era vicino. Il corpo e il sangue di un Dio stavano per scendere sull'altare. Il sacerdote baciò la tovaglia dell'altare, giunse le mani e moltiplicò i segni della croce sull'ostia e sul calice. Le preghiere del Canone della Messa ora cadevano dalle sue labbra in una vera estasi di umiltà e gratitudine. Il suo atteggiamento, i suoi gesti, le inflessioni della sua voce, tutto esprimeva la sua consapevolezza della sua piccolezza, la sua emozione per essere stato scelto per un compito così grande. Vincent venne e si inginocchiò accanto a lui, sollevò leggermente la pianeta con la mano sinistra, la campana pronta nella destra; e il sacerdote, con i gomiti appoggiati sul bordo dell'altare, tenendo l'ostia con i pollici e gli indici di entrambe le mani, pronunciò su di essa le parole della consacrazione: Hoc est enim corpus meum. Quindi, dopo aver piegato il ginocchio davanti ad essa, la sollevò lentamente il più in alto possibile con le mani, seguendola verso l'alto con gli occhi, mentre il servitore inginocchiato suonava la campana tre volte. Poi consacrò il vino — Hic est enim calix — appoggiandosi ancora una volta sui gomiti, inchinandosi, sollevando la coppa in alto, la mano destra attorno allo stelo, la sinistra che ne teneva la base, e gli occhi che la seguivano in alto. Di nuovo il servitore suonò la campana tre volte. Il grande mistero della Redenzione si era ripetuto ancora una volta, ancora una volta era sgorgato l'adorabile Sangue.

«Aspetta un attimo», ringhiò La Teuse, mentre cercava di spaventare i passeri con il pugno teso.

Ma i passeri erano ormai senza paura. Erano tornati mentre la campana suonava e, sfacciati, svolazzavano intorno ai banchi. I ripetuti tintinnii li risvegliavano persino alla vivacità e rispondevano con piccoli cinguettii che si incrociavano tra le parole latine della preghiera, come le risate ondeggianti di monelli liberi. Il sole riscaldava le loro piume, la dolce povertà della chiesa li catturava. Si sentivano a casa lì, come in un granaio le cui persiane erano state lasciate aperte, e strillavano, lottavano e litigavano per le briciole che trovavano sul pavimento. Uno volò ad appollaiarsi sul velo dorato della Vergine sorridente; un altro, la cui audacia mise il vecchio servitore in una furia colossale, fece una rapida ricognizione delle gonne di La Teuse. E all'altare, il sacerdote, con tutte le facoltà assorte, gli occhi fissi sull'ostia sacra, i pollici e gli indici uniti, non udì neppure questa invasione del caldo mattino di maggio, questo crescente flusso di luce solare, verde e uccelli, che traboccava fino ai piedi del Calvario, dove la natura condannata stava lottando negli spasimi della morte.
« Per omnia saecula saeculorum », disse.
«Amen», rispose Vincent.

Il Pater finì, il sacerdote, tenendo l'ostia sopra il calice, la spezzò al centro. Staccando una particella da una delle metà, la lasciò cadere nel prezioso sangue, per simboleggiare l'unione intima in cui stava per entrare con Dio. Recitò ad alta voce l'Agnus Dei, recitò dolcemente le tre preghiere prescritte e fece il suo atto di indegnità, quindi con i gomiti appoggiati sull'altare e con la patena sotto il mento, prese entrambe le parti dell'ostia contemporaneamente. Dopo una fervente meditazione, con le mani giunte davanti al viso, prese la patena e raccolse dal corporale le sacre particelle dell'ostia che erano cadute e le lasciò cadere nel calice. Una particella che si era attaccata al pollice la rimosse con l'indice. E, fattosi il segno della croce, con il calice in mano e la patena di nuovo sotto il mento, bevve tutto il prezioso sangue in tre sorsi, senza mai staccare le labbra dal bordo della coppa, ma assorbendo fino all'ultima goccia il divino Sacrificio.

Vincent si era alzato per prendere le ampolle dalla credenza. Ma all'improvviso la porta del passaggio che conduceva alla canonica si spalancò e si scostò contro il muro, per far entrare una bella ragazza di ventidue anni, dall'aspetto infantile, che portava qualcosa nascosto nel grembiule.

"Tredici", esclamò. "Tutte le uova erano buone". E aprì il grembiule e rivelò una covata di piccoli pulcini tremanti, con la peluria che spuntava e gli occhietti neri e vispi. "Guardate un po'", disse; "non sono dolci animaletti, i cari! Oh, guardate il piccolo bianco che si arrampica sulla schiena degli altri! E quello maculato che sbatte già le sue piccole ali! Le uova erano un bel gruppo; nessuna di loro era sterile".

La Teuse, che stava aiutando a servire la messa nonostante tutti i divieti, e in quel momento stava porgendo le ampolle a Vincent per le abluzioni, si voltò e esclamò ad alta voce: "State zitta, signorina Desirée! Non vedete che non abbiamo ancora finito?"

Attraverso la porta aperta ora giungeva il forte odore di un cortile, che effondeva come un fermento generativo nella chiesa in mezzo alla calda luce del sole che si insinuava sull'altare. Desirée rimase lì per un momento deliziata dai piccoli che portava in braccio, guardando Vincent versare e suo fratello bere il vino purificatore, affinché nulla degli elementi sacri rimanesse nella sua bocca. E rimase lì immobile quando lui tornò al lato dell'altare, tenendo il calice con entrambe le mani, così che Vincent potesse versare sui suoi indici e pollici il vino e l'acqua delle abluzioni, che bevve anche lui. Ma quando la chioccia corse su chiocciando allarmata per cercare i suoi piccoli e minacciò di entrare con la forza in chiesa, Desirée se ne andò, parlando maternamente ai suoi pulcini, mentre il prete, dopo aver premuto il purificatoio sulle sue labbra, asciugò prima il bordo e poi l'interno del calice.

Poi arrivò la fine, l'atto di ringraziamento a Dio. Per l'ultima volta il servitore tolse il Messale e lo riportò sul lato destro. Il sacerdote rimise il purificatoio, la patena e il drappo sul calice; ancora una volta strinse insieme le due grandi pieghe del velo e vi pose sopra la borsa contenente il corporale. Tutto il suo essere era ora un atto di ardente ringraziamento. Implorò dal Cielo il perdono dei suoi peccati, la grazia di una vita santa e la ricompensa della vita eterna. Rimase come sopraffatto da questo miracolo d'amore, l'immolazione sempre ricorrente, che lo sosteneva giorno per giorno con il sangue e la carne del suo Salvatore.
Dopo aver letto le preghiere finali, si voltò e disse: « Ite, missa est ».
« Deo gratias », rispose Vincenzo.

E, dopo essersi voltato per baciare l'altare, il sacerdote si voltò di nuovo, con la mano sinistra appena sotto il petto e la destra tesa, mentre benediceva la chiesa, che i raggi del sole e i passeri rumorosi riempivano.
« Benedicat vos omnipotens Deus, Pater et Filius, et Spiritus Sanctus ».

« Amen », disse il ministrante facendosi il segno della croce.

Il sole era salito più in alto e i passeri si facevano più audaci. Mentre il sacerdote leggeva dall'altare di sinistra il brano del Vangelo di San Giovanni, che annunciava l'eternità del Verbo, i raggi del sole incendiavano l'altare, sbiancavano i pannelli di finto marmo e affievolivano la fiamma delle due candele, i cui corti stoppini erano ormai solo due punti opachi. L'astro vittorioso avvolgeva con la sua gloria il crocifisso, i candelabri, la pianeta, il velo del calice, tutto il lavoro d'oro che impallidiva sotto i suoi raggi. E quando alla fine il sacerdote, dopo aver preso il calice tra le mani e fatto una genuflessione, si coprì il capo e si voltò dall'altare per seguire il servitore, carico di ampolle e di salviette, verso la sacrestia, il globo rimase l'unico padrone della chiesa. I suoi raggi a loro volta ora si posavano sulla tovaglia dell'altare, irradiando la porta del tabernacolo con splendore e celebrando i poteri fertili di maggio. Il calore si levava dalle lastre di pietra. Le pareti intonacate, l'alta Vergine, anche l'enorme Cristo, tutto sembrava tremare come di linfa che germogliava, come se la morte fosse stata vinta dall'eterna giovinezza della terra.


[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]





Intervista a mons. Cordileone: “Il legame tra scienza e fede, antidoto al wokismo”



Dalle Olimpiadi di Parigi alle persecuzioni sotto il comunismo in Nicaragua e Cina, dalle denunce dei vescovi africani alla grande minaccia del gender. La Bussola intervista l’arcivescovo Cordileone, che sfata il mito di un’opposizione tra scienza e fede: «Sono complementari ed essenziali nella ricerca della verità. Il vero divario è tra scienza e politica».


L’intervista

Attualità 



Lorenza Formicola, 28-12-2024

Quando l’arcivescovo Salvatore J. Cordileone fu nominato alla guida dell’arcidiocesi di San Francisco, nel 2012, c’è chi commentò il fatto come «a bombshell by the Bay» (una notizia bomba nella Baia). Da parte sua, il New York Times non gradì quella nomina in una città, come San Francisco, «che ha contribuito a dar vita al movimento per i diritti gay». Colpevole di difendere il matrimonio da ogni ideologia che tenti di indebolirlo, nonché per aver rivisto il contratto degli insegnanti nelle scuole cattoliche inserendo il rispetto di alcuni punti di dottrina (cioè quelli riferiti alla morale sessuale e alle cellule staminali embrionali), nel 2015 si trovò oggetto di un “referendum” che supplicava il Papa di rimuoverlo. Ma fu un flop.

È balzato agli onori delle cronache anche per un progetto (affidato al Benedict XVI Institute) volto a ricordare i martiri sotto il comunismo; e ancora perché, un paio d’anni fa, ha dichiarato che Nancy Pelosi non sarebbe stata ammessa alla Santa Comunione salvo un passo indietro sulle posizioni pro aborto. Alcuni giorni fa, l’ex speaker della Camera ha detto che continua a ricevere l’Eucaristia nonostante il divieto esplicito dell’arcivescovo di San Francisco, che ha replicato rinnovando la richiesta di preghiere per la conversione della Pelosi.

La Nuova Bussola ha intervistato Cordileone, ripercorrendo alcuni dei fatti più significativi che hanno riguardato la cattolicità nel 2024.

Monsignor Cordileone, le Olimpiadi di Parigi sono state il segno di un’estate che ha dato al mondo un messaggio, in buona sostanza, cioè quello di farla finita con il cristianesimo (vedi la blasfemia sull’Ultima Cena) e che ci attende un futuro distopico (vedi la cerimonia di chiusura). La potenza delle ideologie di oggi non ha rivali?

La cerimonia di apertura delle Olimpiadi è stata blasfema e grottesca. La Rivoluzione francese decapitò Maria Antonietta e, tra gli applausi della folla, anche tanti sacerdoti e suore. È questo che dovrebbe rappresentare il motto Liberté, Égalité, Fraternité? È questa la luce dell’Illuminismo? Se la Rivoluzione francese ha insegnato che gli oppositori si giustiziano, quella americana ha voluto riconoscere la necessità di una robusta libertà religiosa, vedendo la religione come un aiuto per instillare virtù. La verità è che una società che vuole cancellare l’ethos giudeo-cristiano, perde la capacità di correggere i mali. E la coscienza viene sostituita dal desiderio di esercitare il potere: ecco quello a cui assistiamo oggi.

Il regime comunista di Ortega, in Nicaragua, continua a soffocare la libertà religiosa perseguitando sacerdoti e consacrati, che spariscono o vengono arrestati. Secondo lei perché la Chiesa non denuncia più il comunismo e non istruisce sui pericoli insiti in molti partiti occidentali che, pur utilizzando raramente il nome, ne sono espressione?

Durante il Concilio Vaticano II si decise di non condannare esplicitamente il comunismo nella speranza di poter costruire ponti. Questo approccio non ha funzionato. La Chiesa potrebbe parlare di più dei mali del comunismo, ma lo scorso anno papa Francesco, commentando la condanna a 26 anni di prigione per il vescovo Rolando Álvarez, ha detto: “È qualcosa fuori dalla realtà; è come se ritornassimo alla dittatura comunista del 1917 o alla dittatura hitleriana del 1935”. È una condanna abbastanza forte. Quando le persone dicono che il comunismo sia una cosa del passato dovrebbero fare attenzione. In particolare, i giovani sono i più bersagliati dagli insegnamenti alienanti del marxismo.

Dall’altra parte del mondo c’è Jimmy Lai, l’eroe cattolico della libertà. La critica esplicita al regime comunista cinese gli sta costando la galera. Il Vaticano ha un accordo segreto con il regime comunista sulla nomina dei vescovi: crede stia portando frutti?

I dettagli dell’accordo non li conosce nessuno, ma è chiaro che ci sono sfide significative per la Chiesa in Cina e che devono essere risolte. L’Arcidiocesi di San Francisco è molto attiva nel sostenere sia il cardinale Joseph Zen che Jimmy Lai: raduniamo i fedeli in ore di adorazione eucaristica a loro sostegno.

Poi c’è l’Africa, dove diversi vescovi lamentano che l’Occidente si avvale di Ong che, con pretesti umanitari, si impegnano in attività che hanno poco a che fare con la carità e, anzi, promuovono aborto e tematiche Lgbt. Come giudica queste pressioni politiche e ideologiche?

Ho ascoltato personalmente queste lamentele nelle conversazioni con vescovi africani. L’Occidente deve smettere di imporre ideologie per i propri scopi egoistici. È aberrante.

Quali sono le principali minacce per la Chiesa cattolica in questi tempi?

Credo che una delle più grandi minacce per il mondo di oggi sia la cosiddetta ideologia di genere. Di recente, il Papa ha detto che è il “pericolo più brutto” dei nostri tempi perché annulla tutte le differenze che rendono l’umanità unica. Sono d’accordo.

Perché?

Uomini e donne sono diversi e allo stesso tempo si completano. Il corpo è composto da una serie di sistemi perfetti in sé per raggiungere i loro scopi. Tranne uno: il sistema riproduttivo, che per il suo fine ultimo ha bisogno del sistema riproduttivo del sesso opposto. È in questo modo che l’immagine di Dio è riflessa nella complementarità, generatrice di vita, tra uomo e donna, che è la comunione delle persone, perché Dio è una comunione di persone che danno vita: Padre, Figlio e Spirito Santo. L’amore tra il Padre e il Figlio manda lo Spirito Santo per attrarci nella comunione del Suo amore. Quindi, eliminare ciò significa cancellare l’immagine di Dio dalla faccia della Terra.

Ma prima dell’ideologia di genere non era già stata cancellata la paternità?

L’altra grande minaccia in questi tempi è proprio il declino della paternità con le sue conseguenze. Negli ultimi 50 anni, diversi studi hanno dimostrato questa realtà. Spesso sentiamo i vari leader discutere di “andare alla radice dei problemi” circa abusi domestici, tossicodipendenza, povertà e sparatorie di massa, ma non c’è un vero desiderio di affrontarli. Perché il problema è tutto nella paternità e nel ricostruire una cultura matrimoniale sana. Gli studi dimostrano che la sola presenza di un padre in famiglia fa la differenza.

Che fare allora?

Molti giovani oggi sono sconnessi dalle famiglie e sedotti da una cultura che non offre loro un chiaro percorso per raggiungere una sana identità maschile, protettiva e produttiva. Cinema, pubblicità e videogiochi offrono l’esempio di uomini come cattivi o imbecilli immaturi, mai come padre amorevoli.

Invece, la Chiesa come si pone al riguardo?


Il Papa, a proposito della figura di san Giuseppe, ha parlato di paternità spirituale per non essere ‘semplicemente’ genitori. Ritengo che, come san Giuseppe, gli uomini di oggi siano chiamati a sacrificare tutto per la famiglia. Sacrificare la lussuria per l’amore, l’ambizione per il servizio, diventare eroi per quanti gli sono stati affidati. Restare in famiglia e spegnere i videogiochi.

Come può un uomo, oggi, assumere questo cambiamento?


Il modo ordinario in cui un uomo può compiere questa trasformazione è attraverso il sacramento del matrimonio. Solo il sacramento impegna ad essere fedeli, a proteggere, ad aver cura per crescere ragazzi capaci di diventare uomini degni di questo nome. In una società lacerata dalla frammentazione familiare, agli uomini è chiesto più eroismo.

Cosa si può fare per i giovani che oggi subiscono la propaganda dell’ideologia woke e non solo?


Credo sia importante, prima di tutto, che i giovani non cadano nel mito che la scienza sia in conflitto con la religione. Spesso, coloro che attaccano la religione sono gli stessi che negano le realtà scientifiche di base, come: Cos’è un uomo? Chi è una donna? Quando inizia la vita umana?

Uno dei miti più diffusi è che la Chiesa Cattolica rifiuti la scienza sulla scorta della persecuzione a Galileo che, peraltro, ha basato i suoi studi sulla teoria originata da Copernico, un chierico ordinato. Ma i fatti sono ben diversi. Molti dei progressi scientifici durante l’epoca di Galileo furono realizzati da scienziati che erano sacerdoti cattolici o persone comunque finanziate dalla Chiesa. Copernico, ad esempio, dedicò il suo famoso lavoro sull’eliocentrismo a papa Paolo III. Perché Copernico avrebbe dovuto dedicare il suo lavoro al Papa se la Chiesa Cattolica è contraria alla scienza?

Bella domanda.
Nel caso di Galileo, il problema fu che presentò la sua teoria come un fatto scientifico quando non c’erano ancora abbastanza prove per passare dalla teoria ai fatti.

La Chiesa semplicemente gli chiese di aspettare. Detto ciò, la cattolicità ha sempre partorito scoperte scientifiche.

Esatto. Molti dei più grandi scienziati della storia erano cattolici, e, tra questi, tanti erano sacerdoti. Un mio confratello vescovo, Robert Barron, ha condiviso alcuni esempi di una lunga lista di sacerdoti-scienziati, chiedendo: «Conoscete padre Giovanni Battista Riccioli, il primo a misurare la velocità di caduta libera di un corpo? Padre George Searle, un sacerdote paolino dei primi del Novecento che scoprì sei galassie? Padre Benedetto Castelli, un monaco benedettino che produsse importanti studi su idraulica e magnetismo; padre Francesco Grimaldi, sacerdote gesuita che scoprì la diffrazione della luce? Forse conoscete padre Gregor Mendel, il monaco agostiniano che ha inventato la genetica moderna o padre Georges Lemaître, che ha formulato la teoria del Big Bang sull’origine cosmica?».

È solo una breve lista di sacerdoti-scienziati che dovrebbe far riflettere. Dio è l’autore della scienza, e questo è il motivo per cui scienza e fede sono complementari ed essenziali nella ricerca della verità in questo mondo. Il vero divario non è tra esse, ma tra scienza e politica: quando la scienza non è conveniente per un obiettivo politico, viene negata.




venerdì 27 dicembre 2024

PRESEPI VIETATI, SINTOMO DI UN'EUROPA SENZ'ANIMA



Un sindaco in Francia difende il presepe dagli attacchi dei laicisti, mentre in Piemonte viene fatto smontare il presepe allestito in un ospedale





di Manuela Antonacci

Abituati o meglio rassegnati ad una Francia laicista senza speranza, un bel miracolo di Natale ha spazzato via, stavolta e pare - in questa felice eccezione - non solo una volta, l'eco solito delle ideologie di stampo illuminista. Stiamo parlando dell'iniziativa che, anche quest'anno, continua a Beaucaire, dove il Municipio ha allestito un presepe in linea con una tradizione portata avanti, ormai, da ben 9 secoli.

Ma, si sa, c'è sempre chi si sente "offeso" da qualche simbolo cristiano e stavolta, niente meno che da Gesù Bambino che nella sua mangiatoia, ci chiediamo quale tipo di sensibilità sarà andato stavolta ad urtare. E deve averla fatta grossa, perché è addirittura dal 2014 che la Lega dei Diritti Umani (LDH) si batte ogni anno - 2024 compreso - per la messa al bando del presepe nel municipio, arrivando a trascinare in tribunale, questa volta, Nelson Chaudon, il sindaco di Beaucaire che non ha ceduto alle intimidazioni e ha difeso, impavido, tale tradizione.

LE TRADIZIONI LOCALI E L'IDENTITÀ CULTURALE

L'LDH, comunque, ha pubblicato un comunicato stampa, il 12 dicembre, per specificare l'obiettivo dell'azione legale. Assicura, cioè, che non si tratta di vietare il Natale. La sua argomentazione principale si basa sulla legge del 1905, che promulga la separazione tra Chiesa e Stato. Ricorda la necessità di una completa «neutralità delle autorità pubbliche nei confronti delle religioni» e deplora «la rinnovata inerzia di alcuni prefetti in questa materia». Nel comunicato, l'LDH accusa alcuni funzionari eletti di «privilegiare la loro ideologia a scapito dei principi repubblicani installando presepi di Natale nei municipi».

L'associazione condanna, inoltre, il fatto che questi sindaci «mettano in evidenza le origini cristiane della Francia». Ma, nonostante i vari tentativi di censura del presepe perpetratisi negli anni, i sindaci che si sono succeduti, Julien Sanchez (RN) e Nelson Chaudon (RN), non hanno ceduto. Questo mercoledì, 18 dicembre, il sindaco di Beaucaire, Nelson Chaudon, ha difeso con fermezza la presenza dei presepi di Natale nel suo municipio durante il suo intervento davanti al tribunale amministrativo di Nîmes.

Accompagnato da diversi sostenitori, tra cui il deputato del RN Yoann Gillet, ha ribadito il suo impegno per la conservazione delle tradizioni locali e dell'identità culturale della Francia. Semplici, schiette e inequivocabili le sue dichiarazioni: «È fuori questione cedere un grammo di cultura, di tradizione, di ciò che costituisce la nostra identità a coloro che vorrebbero cancellarla. Beaucaire difenderà sempre ciò che ci è caro».

LA SITUAZIONE IN ITALIA

Di segno opposto ciò che è accaduto in un ospedale piemontese, dove una coordinatrice infermieristica ha ordinato di smontare il presepe allestito nel reparto durante il weekend. La donna ha motivato il suo gesto con la solita scusa di voler rispettare la sensibilità, in questo caso, dei pazienti non religiosi o di diverse fedi. Il punto, però, è che non si tratta solo di un problema di fede ma, come dice il sindaco, di cultura, cioè non si fa una cultura, un paese, l'Europa, se l'Occidente dimentica quali sono i riti e le tradizioni culturali che l'hanno identificato, ovvero se non c'è un passato condiviso.

Per chi ha fede, dunque, il presepe è il simbolo della discesa di Dio, ma anche per chi non ha fede ed è un europeo, un occidentale, ha un significato e una sua importanza, perché ne va, appunto di ciò che cementa una comunità, come ha ben chiarito il sindaco di Beaucaire. Per il caso italiano, poi, togliere un presepe ha meno senso che mai, perché quel bambino è venuto, in realtà, semplicemente per prendere su di sé le sofferenze degli uomini e, anche per chi non crede e nel caso italiano si trova in ospedale, resta un messaggio molto importante.

La sua censura, in questo caso, rispecchia più che altro il punto di vista personalissimo della caposala che, forse, proprio in nome del rispetto che millanta, dovrebbe lasciare anche agli altri la possibilità di non credere o di professare altro sì (e su questo il presepe non ha nessun potere, né influenza) ma anche di credere liberamente in ciò in cui si sceglie di credere o culturalmente di rispecchiarsi.



Titolo originale: Presepi vietati, sintomo di un'Europa senz'anima
Fonte: Sito del Timone, 19 dicembre 2024
Pubblicato su BastaBugie n. 905





giovedì 26 dicembre 2024

Non c’è crescita della Chiesa che non avvenga senza la testimonianza del sangue dei suoi martiri


Martirio di Santo Stefano, Paolo Uccello, 1435 circa, Duomo di Prato


Non c’è parto senza dolore; non c’è nascita senza sangue; non c’è crescita della Chiesa che non avvenga senza la testimonianza del sangue dei suoi martiri.



Santo Stefano 2024

(At 6, 8-10.12; 7, 54-60; Mt, 10, 17-22)



di don Ambrogio Clavadei

Ieri abbiamo festeggiato ancora una volta il Natale di Cristo, e lo abbiamo festeggiato non solo con il cuore lieto e con canti e parole esultanti, ma lo abbiamo festeggiato soprattutto celebrando l’Eucaristia, che ogni volta è la Pasqua che si rinnova, così che le nostre parole, il nostro canto e il nostro sentimento non fossero solo l’eco di un lontano passato, o una passeggera commozione, ma la memoria viva di un Accaduto che continuamente è presente tra noi.

Così noi per festeggiare il giorno della nascita di Cristo, abbiamo dovuto celebrare la memoria della sua morte. Questo ci ricorda che il sorriso di quel bambino con cui Dio appare nel mondo, segno e presagio della felicità che è venuto a portarci, per giungere a noi, per cambiare il nostro volto e il volto del mondo e renderlo più adeguatamente umano, si è dovuto inevitabilmente trasformare nella piega amara dell’agonia del Getsemani e nella bocca sbarrata della morte in Croce. Noi non possiamo disgiungere questo sorriso infantile di Cristo dalla piega amara della sua bocca di uomo adulto; lo scopo è il sorriso, la felicità, ma la condizione poco o tanto inevitabile del loro avveramento, così come Dio dispone, è il sacrificio, la Croce, il martirio.

Allora possiamo comprendere perché il giorno successivo al Natale la Chiesa ci chiede di festeggiare santo Stefano, il primo martire della Chiesa. Non c’è parto senza dolore; non c’è nascita senza sangue; non c’è crescita della Chiesa che non avvenga senza la testimonianza del sangue dei suoi martiri che prolunga nella storia il mistero della morte vittoriosa di Cristo. Ma questo è perché fiorisca il sorriso di Dio sulle nostre labbra e su quelle del mondo cambiato.

Il martirio non è però solo quello cruento, come segno supremo della santità cristiana. C’è infatti anche il martirio quotidiano del cuore, più o meno nascosto, ma sempre visibile agli occhi di Dio. C’è quella ferita costantemente riaperta dal nostro peccato in noi stessi e negli altri, e dagli altri in noi stessi, che sollecita la nostra fede all’invocazione del perdono richiesto e dato. Martirio è innanzitutto affermare quotidianamente l’abbraccio di una misericordia che solo Dio può dare a me, ma anche al mio nemico: “Signore, non imputare loro questo peccato” (At, 7, 60). Il nostro peccato ci lapida e col nostro peccato ci lapidiamo gli uni gli altri, non con le pietre, ma con la spigolosità dei nostri pensieri, con l’asprezza delle nostre parole, con la pesantezza dei nostri gesti, concretizzazione della petrosità del nostro cuore.

Ma questa inevitabile durezza che riapre continuamente ferite, è anche possibilità sempre riaperta, in chi la subisce nella fede – come ci testimonia santo Stefano -, di una visione diversa della vita, una visione più alta e più profonda, uno sguardo più vero sulla realtà presente perché essa ci appare anche, proprio nello squarcio, come un’apertura sul Mistero già ora presente tra noi, come un rivelarsi della gloria di colui che è il nostro destino, e che fa e sostiene tutte le cose: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At, 7, 56).

Noi desideriamo certamente di nascere e rinascere ogni giorno ad una vita nuova, noi mendichiamo a Dio un rinnovato “Natale”, ma troppo facilmente, quasi inavvertitamente, ne anticipiamo le possibili strade di realizzazione. Dio invece nasce secondo modalità che superano il nostro povero o presuntuoso intendimento: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna?” (Dante, Paradiso, XIX). Ed anche quando è atteso, la sua continua venuta dentro le circostanze della vita supera sempre ogni possibile attesa. Che egli venga, che il suo sorriso venga ultimamente attraverso la ferita del dolore e del peccato, noi – almeno normalmente – non riusciamo mai a comprenderlo a fondo e ad accettarlo nell’esperienza, anche se teoricamente lo sappiamo. Che egli possa venire e possa nascere nel luogo del nostro male è una ben strana greppia, eppure là dove la ferita diventa contrizione e perdono ciò accade, perché contrizione e perdono sono il gesto più elementare del martirio cristiano, cioè della testimonianza del fatto che Dio è nato per salvarci per mezzo del suo sangue sparso in libagione per noi, per mezzo del suo sangue che diventa in noi vita nel grido di supplica che sale dalla ferita.

Se invece la ferita rimane muta, diventa infetta e purulenta, il sangue nostro si fa amaro, risale al cuore e ne provoca, o ne conferma, la durezza e poi, risalendo al volto dell’esistenza, lo rende livido d’ira: “All’udirlo fremevano in cuor loro e digrignavano i denti … turandosi gli orecchi … si scagliarono tutti insieme contro di lui” (At 7, 54).

Dio ci scampi da questa durezza priva di dolore, anche se piena di sdegno, che si fa posizione che nulla riesce a scalfire, esistenza lentamente pietrificata dallo schema, dal formalismo, dal ruolo, dal pregiudizio, dalla incomunicabilità e dalla terribile indifferenza.

Se invece il sangue di Cristo scorre vivo dalla ferita, così come vivo si è sparso attraverso il corpo del primo martire, raggiunge l’altro con una capacità di comunicazione che rende possibile il miracolo del cambiamento. Come è singolare che il sangue di Cristo, versato attraverso il corpo di Stefano e scorrendo ai piedi di un giovane chiamato Saulo, che era testimone della sua uccisione, lo abbia trasformato a suo tempo in Paolo, uno dei più grandi apostoli e martiri di tutta la Chiesa!

È l’imprevisto di un nuovo “Natale” che accade: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Che questo amore non venga meno in noi, così che la pietra del nostro male e di quello altrui non diventi occasione di inciampo e di scandalo ma, paradossalmente, secondo la sapiente permissione di Dio, fondamento di rinnovata costruzione sulla Pietra angolare di Cristo (cfr. Mt 21, 42-43).






Fonte



GESÙ È NATO IL 25 DICEMBRE: LE COORDINATE DI LUCA, "dopo aver fatto diligenti ricerche"






Don Nicola Bux

L’evangelista Luca, nel prologo del suo vangelo (1,1-4), dichiara: “Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiuti in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati i testimoni oculari, e sono divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, fin dalle loro origini, narrartele per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto”. Egli, quindi, intende inquadrare storicamente Gesù e la sua nascita, pertanto fornisce subito la prima coordinata: “Al tempo di re Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia… Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale…Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta concepì e si tenne nascosta per cinque mesi” (1,5-25). Luca, così, comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana di Gerusalemme, antecedente alla distruzione della città nel 70 d.C. E’ un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei: l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, – mentre «esercitava le sue funzioni davanti a Dio, nel turno (in greco taxis) della sua classe (in greco ephemeria)», quella di Abia (Lc 1,5) – che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. L’evangelista, rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (cfr.1Cr 24,1-7.19): le ventiquattro classi sacerdotali si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al Tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e quindi nell’ambito dei giudei convertiti al cristianesimo: i giudeo-cristiani. Il turno di Abia a cui accenna Luca, cadeva quell’anno nella seconda settimana del primo mese, Tishri , tra il 22 e il 30 settembre (il mese lunare non coincide con quello solare, perciò le altre due settimane in questo caso occupano la prima parte di ottobre). Si veda l’apocrifo Libro dei Giubilei, nel saggio del professor Shemaryahu Talmon, studioso dei rotoli di Qumran che conobbi a Gerusalemme alla fine degli anni ’90. Il calendario ebraico è suddiviso in dodici mesi lunari, che hanno nomi e durata diversi rispetto a quelli solari; pertanto, ogni due o tre anni, viene aggiunto un altro mese, ridotto quanto a numero di giorni, affinché l’anno abbia la stessa lunghezza di quello solare; esso ha inizio col mese di Tishri, corrispondente appunto al nostro settembre.

Ma, in quale dei due turni Zaccaria riceve l’annuncio? Ecco che l’evangelista fornisce la seconda coordinata: “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria…” L’annuncio dell’angelo a Maria avviene nel “sesto mese” del calendario ebraico, Adàr, corrispondente a marzo, verso la fine (Lc 1,28), il 25, nei calendari bizantino e romano. Perché? Perché quel sesto mese è pure il “sesto mese” dalla concezione di Elisabetta. Dunque, quale ultima conseguenza, è attendibile la data del 25 di Kislèw (dicembre), nove mesi dopo il 25 di Adàr (marzo).

Ma, ecco la terza coordinata di Luca: “Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei…”(1,26-38). Ora, abbiamo detto che il primo mese del calendario ebraico è Tishri, e che l’annuncio a Zaccaria era avvenuto nell’ultima decade, durante il secondo turno di Zaccaria al Tempio: al 23 settembre lo fisseranno i calendari bizantino e romano. In tal modo si dimostra storica anche la data della nascita di Giovanni Battista nove mesi dopo, corrispondente al 24 di Sivàn (giugno): “Per Elisabetta intanto si compiva il tempo di partorire e partorì un figlio” (1,57-66).

La quarta coordinata di Luca, riguarda la visitazione di Maria ad Elisabetta, appena dopo l’Annunciazione: “In quei medesimi giorni, Maria si mise in viaggio, in tutta fretta, per la montagna, verso una città di Giuda; ed entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta…Maria rimase con lei circa tre mesi, poi se ne ritornò a casa sua” (1, 39-56). Probabilmente dopo aver assistito alla nascita di Giovanni.

La quinta coordinata che ci offre l’evangelista Luca per stabilire l’anno della nascita di Gesù è l’editto di Cesare Augusto: “In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero…E mentre si trovavano là, si compirono i giorni in cui ella doveva avere il bambino, e diede alla luce il suo figlio primogenito…” (2,1-7). Quando è avvenuto il censimento? Ovvero, in quale anno del calendario romano? Il censimento è solo parte della questione della storicità della data del Natale. Non possiamo, ovviamente qui addentrarci nei dettagli su questa vicenda…Ma, anche in questo caso, si deve notare che con troppa facilità si è parlato di errore di calcolo del monaco Dionigi (fine V- inizi VI secolo): egli era stato incaricato dalla Chiesa di Roma di proseguire la compilazione della tavola cronologica della data di Pasqua preparata a suo tempo in Egitto dal vescovo Cirillo Alessandrino. Dionigi però non partì dalla data d’inizio dell’impero di Diocleziano (285 del nostro calendario cristiano) – data che ancora oggi la Chiesa Copta adopera per il computo del suo calendario, cioè l’inizio dell’era dei martiri – ma dall’incarnazione di Gesù Cristo. Sebbene non si conosca esattamente il metodo da lui seguito, come appena detto, da molti è data per assodata la tesi che si sarebbe sbagliato, ponendo la nascita di Gesù “dopo la morte di Erode”, ovvero quattro o sei anni dopo la data in cui sarebbe avvenuta, e che corrisponderebbe al 748 di Roma. Si può dimostrare che invece non è così, perché le obiezioni mosse ai suoi calcoli non tengono conto, per esempio, che Giuseppe Flavio, al quale normalmente ci si riferisce per questa ed altre datazioni, si è sbagliato, e proprio sulla morte di Erode il Grande, in base ad un’eclissi lunare da lui ricordata. Inoltre, gli si imputa di non aver usato lo zero nel computo, cifra che a quel tempo non era stata ancora inventata (Cfr. G.Fedalto, <>Quando festeggiare il 2000? Problemi di cronologia cristiana, Torino,1998). Dunque la cronologia deve essere ricostruita comparando tavole cronologiche differenti.

Dionigi, in ogni caso, recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano, Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto.

Da quanto detto fin qui, ci domandiamo: la data della nascita di Gesù è veramente il 25 dicembre? Che cosa ci permettono di accertare le scienze storiche? Che Gesù sia nato il 25 dicembre, lo afferma con chiarezza per primo il sacerdote Ippolito di Roma nel suo Commento al libro del profeta Daniele, scritto verso il 204 d.C.: lo ha ricordato a tutti Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 23 dicembre 2009. Si aggiunga un’omelia di Giovanni Crisostomo sul Natale, nel 386, in cui sostiene che la Chiesa di Roma conosceva il vero giorno (25), perché gli atti del censimento eseguito per ordine di Augusto in Giudea, si conservavano negli archivi pubblici di Roma.

Ma, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, si divulgò, da parte di liturgisti, come Duchesne e Botte, l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Dies Natalis Solis Invicti: la nascita del Sole invincibile, perché col solstizio d’inverno, la giornata riprende ad allungarsi. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino(313), la Chiesa avrebbe pure potuto essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Semmai avesse voluto cercare un nesso, sarebbe andata in direzione del 25 di Kislèw, il nostro dicembre, in cui si celebra la ri-dedicazione del Tempio, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. (cfr 1Mac 4,59). Una coincidenza?

Se Ippolito romano attesta nel 204, che Gesù è nato il 25 dicembre, e la festa del Sol invictus – forse il dio Mitra o l’imperatore – intorno al solstizio invernale, fu introdotta da Eliogabalo nel 218 e poi istituita da Aureliano nel 274, entrambe quindi successivamente, vuol dire che furono i pagani a tentare di oscurare la data del Natale cristiano. I cristiani subirono la celebrazione della festa del Sole invincibile, perché erano perseguitati. Dopo la libertà concessa da Costantino, i cristiani d’Occidente, poterono celebrare il Natale apertamente. Poi, la crisi del paganesimo fece sì che la festa del ‘Sole invitto’, fosse oscurata da quella del vero “Sole invincibile”, Gesù Cristo. In Oriente i cristiani continuarono a celebrarla il 6 gennaio, perché ritenuta più vicina al loro solstizio. Nel Medioevo si produsse lo scambio: il 25 dicembre fu accolto nel calendario bizantino, come festa di Natale, e il 6 gennaio dal calendario romano, come festa dell’Epifania.

Tornando all’annuncio a Zaccaria, nel calendario liturgico siriaco v’è il Subara, il tempo dell’annuncio, costituito da sei domeniche (v. Avvento ambrosiano) la prima dedicata all’annuncio della nascita di Giovanni al padre Zaccaria, celebrato al 23 settembre dal calendario bizantino e dal calendario di Gerusalemme, seguito dalla chiesa latina di Terrasanta. Così i bizantini e i latini conservano al 23 settembre una data storica quasi precisa. Altrettanto dicasi per la data delle feste della natività del Battista, dell’annunciazione a Maria e della natività di Gesù. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione prende il posto della domenica e del giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone – la composizione poetica propria della festa – dell’una e dell’altra. Dunque, la liturgia della Chiesa, ha fissato e commemorato queste date innanzitutto storicamente (v. la Circoncisione all’ottavo giorno dopo la nascita, la Presentazione al quarantesimo), in special modo il Natale del Signore al 25 dicembre.

Che la data del Natale sia stata a volte assimilata a quella del 6 gennaio, è dovuto al fatto che il calendario bizantino ricordava un insieme di eventi epifanici (l’arrivo dei Magi, il battesimo al Giordano, le nozze di Cana), ma anche al fatto che le Chiese si comunicavano le date delle celebrazioni e avevano possibilità di verificarne l’attendibilità storica. Luca, infatti, osserva che Gesù al momento del battesimo «stava cominciando quasi i trent’anni» (Lc 3,23): dunque un compleanno di Gesù, il trentesimo. Se Gesù è stato battezzato il 6 gennaio, in quella data trent’anni prima è nato. In origine, come ancora attestano l’oriente bizantino e il breviario romano, il 6 gennaio era la Teofania del Signore alle acque del Giordano. Una tradizione trattenuta dai Padri, ad esempio san Massimo di Torino: «La ragione esige che questa festa segua quella del Natale del Signore, perché i due eventi si verificarono nel medesimo tempo anche se a distanza di anni» (Discorso 100 sull’Epifania, 1; CCL 23,398).

Dunque, la memoria ininterrotta fu consacrata dalla liturgia, ma il vangelo di Luca, con i suoi accenni a luoghi, date e persone, vi ha contribuito in modo fondamentale.

I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la precisione; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici, anche per il fatto che gli ebrei non avevano un calendario fisso, ma lo formulavano in base all’osservazione diretta dei vari fenomeni astrali, in specie il novilunio che determinava le feste, per far corrispondere l’anno lunare a quello solare. Ma non di rado tale calendario differiva dalla realtà astronomica (cfr G. Ricciotti, Vita di Gesù (1941), Milano 2006, p. 178ss. Per altri approfondimenti; N. Bux, Gesù il Salvatore. Luoghi e tempi della sua venuta nella storia, Cantagalli, Siena 2009).







mercoledì 25 dicembre 2024

Il mistero del Santo Natale: “Non c’era posto per loro”





Chiesa cattolica


di Roberto de Mattei

La Siria, su cui in questi giorni è concentrata l’attenzione di tutto il mondo, è un paese antico e travagliato, che ha avuto l’onore di essere ricordato nel Vangelo, assieme al suo governatore Quirinio, nel passo in cui san Luca rievoca con lo stile sobrio che gli è proprio il mistero della Natività.

“In quei giorni – si legge – un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio” (Lc, 2, 2).

Publio Sulpicio Quirinio era nato nei pressi di Roma, a Lanuvio, attorno al 45 a. C., ed era governatore della Siria, una delle province più importanti dell’impero. Da lui dipendeva anche la Giudea, prefettura romana della Siria. La scuola storica protestante ha accusato san Luca di un errore storico, affermando che il censimento sarebbe avvenuto qualche anno dopo la nascita di Gesù, ma fornendo prove contraddittorie. Noi ci atteniamo ai Vangeli, che sono divinamente ispirati, e seguiamo il racconto di san Luca: “Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc, 2-3- 7).

Soffermiamoci su quest’ultima frase come fonte di meditazione. Il testo latino dice “Quia non erat eis locus in diversorio”. Il Vangelo non si limita a dire che “non c’era posto”, ma aggiunge “”per loro”. La mancanza di posto non era dunque assoluta. Per altri, non per loro, il posto c’era.

Il termine che segue: “nell’ albergo”, può dare adito a confusione, perché traduce in maniera imprecisa, il latino diversorium, che non ha solo il significato moderno di albergo, ma anche quello, più generale, di alloggio, di rifugio, di asilo. Giuseppe, giunto a Betlemme, cercava un luogo conveniente per poter alloggiare la sua sposa, provata, come lui, dal freddo e dalla stanchezza del cammino. Avendo a Betlemme dei parenti, della casa di Davide, è logico immaginare che si sia prima rivolto ai componenti della sua tribù e famiglia, ma essi gli rifiutarono l’ospitalità. Giuseppe ai loro occhi era solo un nobile decaduto, un parente povero e per di più imprevidente, per essersi messo in viaggio con un clima così rigido e senza avere la certezza di un alloggio.

San Giuseppe iniziò allora a chiedere un posto nelle locande, ma il paese era pieno di forestieri, gli alberghi erano gremiti e la risposta era sempre negativa. Le sue richieste erano ben giustificate dallo stato di gravidanza avanzata di Maria. I due sposi, inoltre, non avevano certo l’apparenza di malfattori o di vagabondi. La tranquillità dolce e afflitta di Giuseppe rivelava un uomo superiore, ma i locandieri non vollero cogliere la luce che rifulgeva dietro le sue buone maniere e la sua dignitosa povertà. San Giuseppe, principe della Casa di Davide, sposo di Maria Santissima e padre putativo del Verbo Incarnato, dovette affrontare il rigetto di uomini mediocri e volgari e in ciò, osserva Plinio Correa de Oliveira, sta tutta la sua eroica grandezza.

Non c’era posto per loro e forse essi stessi non vollero trovar posto, neanche nel “caravanserraglio”, il grande spazio a cielo aperto in cui si ammassavano uomini e bestie, tutto alla rinfusa in uno spirito di confusione ben diverso dallo spirito di raccoglimento che avrebbe dovuto circondare la nascita del Divin Salvatore. Ciò non conveniva al riserbo e al pudore della Madre di Dio. Madre Cecilia Baij, nella sua Vita del glorioso patriarca san Giuseppe ci dice che il cuore dello sposo era sempre più afflitto, anche perché attribuiva a sua colpa l’angosciosa situazione. Maria lo consolava, dicendogli che tutto era permesso da Dio per i suoi altissimi fini.

Per divina ispirazione Giuseppe ricordò come fuori di Betlemme vi era una spelonca che serviva per ricovero di bestie ed egli decise di andare in quella per non stare nella strada pubblica. Padre Serafino Lanzetta ha ben confutato gli esegeti protestanti e modernisti, secondo i quali la grotta della nascita di Gesù a Betlemme, su cui è stata costruita la Basilica della Natività, non sarebbe il luogo della nascita di Nostro Signore (https://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/la-nascita-di-gesu-in-una-povera-grotta-perche-e-cosi-rilevante-per-la-fede-nel-verbo-incarnato/). Fu invece proprio in quel luogo e in quella notte che cambiò la storia del mondo.

La grotta era libera e disabitata. Giuseppe e Maria vi entrarono ed ebbero un’intima consolazione, più grande che se non fossero entrati in un sontuoso palazzo. Essi compresero che era volontà di Dio che in questo luogo nascesse il Salvatore dell’umanità.

Il mistero di Betlemme prefigura quello del Calvario. Gesù, Figlio di Dio, Re dell’universo, Signore di tutte le cose create, da cui dipende tutto ciò che esiste in Cielo e in terra, veniva a cercare un alloggio, ma non trovò chi l’accogliesse. Fin dalla sua nascita il Verbo Incarnato fu rifiutato dal suo popolo. Questo rifiuto era il simbolo visibile del rifiuto della Redenzione.

Nell’ incipit del Vangelo di san Giovanni leggiamo: “In propria venit et sui eum non receperunt”(Gv, 1, 11). “Venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero”.

E’ il mistero del Messia che nell’ora della nascita non fu riconosciuto dalla sua città e nell’ora della morte fu rifiutato, deriso, insultato, e ucciso dal popolo eletto.

E’ il mistero delle persecuzioni e dell’incomprensione che circondano coloro che vogliono seguire le orme del Divino Maestro. Il mondo non ha posto per essi.

Eppure quanto sarebbe stato felice, quante grazie, quante ricchezze spirituali avrebbe ricevuto, colui che avesse ospitato il Signore nella Sua casa. E quanto può essere felice chi oggi lo ospita nel suo cuore. Può assaporare quella atmosfera di gioia che inebriò tutti i visitatori della santa Grotta di Betlemme, non per la bellezza, lo sfarzo e l’accoglienza del luogo, ma per lo straordinario compimento della profezia di Isaia: “Puer natus est nobis, filius datus est nobis” (Is 9, 5): “Un Bambino è nato per noi”. Un fatto emozionante, confermato dalle parole degli Angeli: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”.





martedì 24 dicembre 2024

Gesù nella mangiatoia : simbolo potente dedotto dal significato storico




Dove fu posto Gesù appena nato? Il primo giaciglio fu forse di pietra. I Magi lo adorarono dopo, già trasferito in una “casa” più consona, i cui legni in parte sono in Santa Maria Maggiore. Adeste fideles! (RS)


Sapevate che Gesù nella mangiatoia aveva un significato storico? Non è stato un caso!


Naturalmente le mangiatoie sono mangiatoie per animali, ma nell'antica Israele erano fatte di pietra, non come quelle di oggi.

Non è comoda, ma è ideale come protezione. Per questo coloro che erano esperti in questa materia, cioè i sacerdoti, mettevano i loro agnelli appena nati in quelle mangiatoie per proteggerli.

Ma non un agnello qualunque, erano gli agnelli perfetti senza macchia che si usavano nel sacrificio per i peccati.

E Betlemme, dove nacque Gesù, era famosa per i suoi AGNELLI IMMACOLATI usati per il sacrificio.
Questi agnelli dovevano essere perfetti, per questo li avvolgevano saldamente nella stoffa e li mettevano a letto nella mangiatoia per tenerli al sicuro.

Questo è esattamente il motivo per cui l'unica volta che si menziona nella storia la nascita di Gesù viene raccontata ai pastori.

Luca 2 dice: -"Questo sarà un segno per te, troverai un bambino avvolto in stoffa e sdraiato in una mangiatoia". I pastori avrebbero capito questo potente parallelo. Sapevano cosa significavano la stoffa e la mangiatoia!

Questo bambino era L'AGNELLO PERFETTO DIO! Il Messia che avrebbe sacrificato la sua vita per i peccati di tutto il mondo. Non era solo un bambino avvolto in pannolini steso in una mangiatoia, era il figlio di DIO: perfetto, senza peccato e santo, che si sarebbe umiliato per diventare il sacrificio perfetto e riconciliarci con un nuovo patto con lui. È il sangue dell'Agnello di Dio che prende su di Sé i peccati del mondo che ci purifica da ogni peccato.


_________

Betlemme (in arabo: بَيْتِ لَحْمٍ, Bayti Laḥmin, Bayt Laḥm, lett. "Casa della Carne" ; in ebraico בֵּיִת לֶחֶם, [Beit Lehem], lett. "Casa del Pane" ; in greco Βηθλεέμ [Bethleém])
È qui che è nato, e in una mangiatoria è stato deposto, il Pane Vivo disceso da Cielo, il cibo che dà la salvezza e la vita eterna.





lunedì 23 dicembre 2024

Dio esiste? Per il cardinal Sarah la risposta si trova in ginocchio


Di fronte al grido dell'uomo che chiede salvezza non bastano le parole d'ordine di questo mondo, ma occorre annunciare che la nostra speranza ha un nome: Cristo, unico salvatore. Il cardinale presenterà questo volume con la Bussola a Milano il 20 gennaio al Teatro Guanella.


Il libro

Ecclesia


Stefano Chiappalone,  23-12-2024

Le domande più profonde e le obiezioni più scomode rivolte alla Chiesa e a Dio stesso: sono innumerevoli gli interrogativi che si innestano sulla domanda di fondo: Dio esiste? Il grido dell’uomo che chiede salvezza, che dà il titolo al volume frutto della conversazione tra l’editore David Cantagalli e il cardinale Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino. L’editore si fa spontaneamente portavoce dell’uomo di oggi, che abbia fede o meno, e incalza il cardinale senza falsi pudori: perché l’uomo contemporaneo fatica così tanto a percepire la presenza di Dio? E dove trovare, oggi, la testimonianza credibile e gioiosa dei suoi discepoli? Perché il male? Perché Dio permette la sofferenza? E così via, per oltre trecento pagine, tra le quali emerge che «la più grande difficoltà degli uomini non è credere quello che la Chiesa insegna sul piano morale; la cosa più dura per il mondo postmoderno è il credere in Dio e nel suo unico Figlio».

Il cardinale non teme di rispondere con parole altrettanto scomode: «Paradossalmente chi è morto non è Dio ma l’uomo, incapace di ascoltare e riconoscere questa Presenza nella storia». L’«affermazione “Dio è morto”, in realtà nasconde un’accusa. L’accusato è l’uomo, non Dio, l’uomo che, abbandonato Dio, prende strade verso il nulla». Ogni domanda innesca un intero capitolo, poiché Sarah non si tira indietro, ma non deve farlo neanche il lettore pensando di cavarsela con un “prontuario” di soluzioni immediate a uso e consumo di un mondo mordi-e-fuggi: il cardinale lo invita piuttosto ad andare in profondità, le sue risposte sono e vanno meditate: «È necessario entrare nel silenzio». Ma non quello di «filosofie o religioni che fanno del silenzio un vuoto» poiché per noi esso «è lasciar parlare Dio, ascoltare quanto ci ha già detto, che non muta».

«Dio non è morto, ma senza la sua luce la società occidentale è diventata come una barca alla deriva nella notte». Se «la rivelazione (...) implica una immediata ripercussione su tutto il mondo, investe la società, ogni società umana» lo stesso vale per il rifiuto di quella rivelazione, che si ripercuote anche in termini di non accoglienza dei bambini sin dal grembo materno, degli anziani e dei più fragili. «Dio ha parlato e l’uomo non può tacere. Rispondendo – anche con il silenzio di una risposta non pronunciata – l’uomo svela la sua posizione, dichiara l’adesione o meno alla proposta fatta da Cristo stesso, e in tal modo, dice quale sia l’orizzonte della società in cui vive e che sta costruendo». La guerra contro Dio si risolve, in fin dei conti, in una guerra contro l’uomo, ammantata dalla pretesa «di creare una nuova religione mondiale senza Dio, senza dogmi né moralità, una nuova religione di Cesare che permetta, a livello politico, di unire tutti i popoli, le nazioni, le culture, in un’unica massa soggetta a una governance mondiale».
Non c’è contraddizione tra l’apparente tolleranza di questa religiosità fluida postmoderna e la diffusa ostilità verso la fede cristiana e la cultura che ne è scaturita: «Cristo sarebbe ancora tollerato se fosse ammesso quale dio tra gli altri, ma non se proclamato Unico». Che invece è la risposta delle risposte di fronte all’unica sete dell’uomo di ogni tempo, che nessuna ideologia può soddisfare: la sete di eternità. «Dobbiamo tornare a proclamare al mondo che la nostra speranza ha un nome: Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo e dell’umanità».

Qui sta anche il senso e la missione della Chiesa, da non ridurre alla mission di un ente genericamente religioso asservito alla «nuova etica globalista promossa dall’ONU», che all’escatologia preferisce l’ecologia, illudendosi di venire incontro all’uomo; una Chiesa forte sui temi più mainstream e debole, quasi timorosa, nell’annunciare Cristo unico salvatore del mondo: «Siamo avari dei tesori di fede che sono in noi. Non osiamo evangelizzare. Abbiamo paura di essere chiamati proselitisti, o addirittura fondamentalisti o irrispettosi delle altre religioni». E invece – è l’esperienza personale del cardinale Sarah – «la fede – la mia fede personale – è debitrice verso quanti mi hanno testimoniato che il Signore è vivo, che Gesù Cristo è il cardine su cui tutta la vita si fonda e si regge; la sua Carne crocifissa e risorta è il cardine della salvezza». «Facciamo della Chiesa una società umana e orizzontale, che parli un linguaggio mediatico (...)! Amici miei, una tale Chiesa non interessa a nessuno», perché non è in grado di colmare «il vuoto e il nulla» di una società occidentale che «non sa più rispettare i suoi anziani, accompagnare i malati alla morte, dare spazio ai più poveri e ai più deboli» ed è «abbandonata all’oscurità della paura, della tristezza e dell’isolamento» perché, in ultima analisi, è «priva della luce di Dio».

Diagnosi impietosa ma tutt’altro che priva di compassione. Al contrario, dice Sarah, «parlo in questo modo perché nel mio cuore di sacerdote e di pastore provo compassione per tante anime disorientate, perdute, tristi, angosciate e sole». Ancora più disorientate dalla pretesa «che le proprie scelte non abbiano alcuna conseguenza negativa o imprevista» e dall’assenza di una «prospettiva di salvezza e di bene eterno» che renda sopportabili e conferisca senso alle «realtà del limite, della sofferenza e del dolore».

La risposta al «grido dell’uomo che chiede salvezza» – citando il sottotitolo – è una cattedrale che indirizzi lo sguardo a Dio. Il cardinale ricorre a questa suggestiva immagine per dire che «tutto» nella Chiesa «dovrebbe cantare la gloria di Dio (...) come una guglia gotica, puntata verso il cielo» e senza lasciare che la luce divina sia oscurata dall’agenda e dalle strutture di questo mondo. «Dobbiamo ricostruire la cattedrale», esorta Sarah, e «ricostruirla esattamente com’era prima, non abbiamo bisogno di inventare una nuova Chiesa. Chi ha provato a farlo nei secoli ha fallito». Un compito immane che inizia da un gesto semplicissimo ed estremamente controcorrente: «Qual è la prima cosa da fare? Lo dico senza esitazione: dobbiamo metterci in ginocchio! Questo è il primo atto in cui sperimento la presenza di Dio».




domenica 22 dicembre 2024

Santa Messa in latino della notte di Natale a Pistoia

 



Nella chiesa di San Vitale 
in via della Madonna 
a Pistoia 


Martedì 24 Dicembre 2024

ore 21:00

sarà celebrata la 

SANTA MESSA 
della 
notte di Natale 


***


Mercoledì 25 Dicembre 2024

 ore 18:00

SANTA MESSA 
di NATALE 









Dove Dio non avviene e prende corpo in noi, avanza il Nulla che si prende il nostro corpo, il nostro cuore, la nostra storia.


Maria incontra Elisabetta



Domenica IV Avvento (Anno C) – 23 dicembre 2024

(Mic 5, 1-4°; Eb 10, 5-10; Lc 1, 39-45)



di don Ambrogio Clavadei

“In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta …” (Lc 1, 39).

Uno dei mantra dell’odierno tempo ecclesiale è quello della “Chiesa in uscita”. Sembra questo il problema che deve definire ogni attività della Chiesa. Ma la liturgia di questa quarta e ultima domenica di Avvento ci fa comprendere come questo mantra, così come lo si intende, rischia di falsificare il cammino della nostra fede e della nostra testimonianza. Infatti il vero problema della Chiesa di oggi (e di sempre) non è primariamente quello dell’uscita, ma quello dell’entrata. Cosa è entrato, cosa devo chiedere che continui ad entrare (cioè ad avvenire) nella mia vita, così che io – di conseguenza – possa uscire a visitare il mondo e il suo Bisogno fondamentale (incontrare Cristo)? Senza offrire la risposta a questo Bisogno dei bisogni anche l’affronto delle varie necessità della gente risulta infecondo e non porge aiuto all’uomo che fino all’ultimo giorno deve “partorire” in sé un significato ultimo per il destino della sua vita e in questo deve essere affiancato e confortato come fece Maria con la cugina Elisabetta.

Per questo, nell’imminenza del Natale, la liturgia offre allo sguardo della nostra fede la figura della Vergine Maria, l’immagine cioè di quella donna che è stata “umile ed alta più che creatura … sì che il suo fattore, non disdegnò di farsi tua fattura” (Dante, Paradiso, XXIII). Nessuno infatti come la Madonna ha atteso Qualcosa che entrasse dentro il grembo della sua esistenza per offrirle quella felicità che nessuno se non Dio può dare: “Rallegrati, piena di grazia” (Lc 1, 28). E nessuno come lei, proprio anche nella sua carne, ha visto adempiuta ogni promessa di Dio. Questa promessa lei l’ha toccata con mano sfiorando ogni giorno il suo grembo nel quale la Vita di Dio cresceva per prendere attraverso di lei il suo posto nel mondo.

Per questo la Madonna è la regina di tutti i profeti, perché il vero profeta è colui che indica Dio presente dentro la storia, così che la Vergine Maria ha potuto racchiudere in sé tutta l’attesa dell’Antico Testamento, e tutta la novità del Vangelo. Lei è l’ultimo decisivo e urgente passo del Dio che ha voluto entrare nella nostra carne mortale insterilita dal peccato, per rimettere in movimento la nostra umanità. Per questo lei è anche la perfetta icona dell’Avvento e del suo compimento. Infatti già in lei è accaduto pienamente ciò che san Paolo invocava ardentemente per i suoi Efesini, quando, piegando le sue “ginocchia davanti al Padre” (Ef 3, 14), chiedeva che avvenisse per loro quanto già si era anticipato nella Vergine Maria: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 17-19).

Solo in forza di questa strabordante pienezza (“gratia plena”) dalle quadruplici dimensioni divino umane del Mistero onniabbracciante di Dio, entrato nel suo grembo, la Madonna può correre allora come oggi e come sempre per portare questo movimento di Dio in lei, così che diventi movimento per l’uomo e nell’uomo con la stessa esperienza di gioia e di verità che fu per lei: “Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1, 44).

La Madonna, suprema attesa e suprema accoglienza, è dunque suprema offerta di mobilitazione. La Madonna: un movimento dentro la storia e verso la vastità sconfinata della storia, ma solo perché era ancora più sconfinato ciò che era avvenuto dentro la sua persona: “L’anima mia magnifica il Signore … [perché] grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. E queste “grandi cose”, questa “ampiezza … lunghezza … altezza e … profondità” del Mistero singolare dell’amore di Dio che tutta mi definisce, io ora le porto e le offro a te.

È lei allora la vera “Chiesa in uscita” perché corre a visitare il bisogno dell’uomo colma di una Presenza che singolarmente la identifica e la circoscrive, e non quella Chiesa che, vuota di sé perché rinunciataria di Ciò che realmente (e non solo intenzionalmente) dovrebbe delineare la sua natura e la sua missione, pretende di farsi “tutto a tutti” (1 Cor 9, 22), finendo invece per adeguarsi alle logiche istintive o snaturate del mondo, riducendo il suo operare a pura sociologia, a compagnia sentimentale, pensando di comunicare la grazia sacramentale di Cristo con liturgie circensi o comunque illanguidite e noiose, e spacciando come attenzione alle fragilità dell’uomo ambigue proposte etiche. Questa Chiesa più è nuda di una Presenza, più si riveste di iridescenti lustrini pseudo ecclesiali che coprano la sua assenza.

Ma se questa è la Madonna, questo siamo anche noi, noi che attendiamo il rinnovarsi di questa visitazione di Dio dentro la nostra carne, perché la nostra carne con tutti i suoi bisogni, con tutti i suoi limiti e dolori umilianti, con tutte le sue attese complesse, con tutti i suoi desideri o le sue inevitabili pretese, è il luogo dove Dio è venuto a nascere, e ad offrirci il quotidiano Natale che rinnova e colma di letizia il nostro vivere.

Ma perché il Natale di Dio possa riaccadere è innanzitutto necessario riaprirci allo stupore di quanto ci accade: “A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?”. (Lc 1, 43). Non è in base ad un nostro sforzo che accade l’Avvenimento del Signore, ma è pura grazia, pura misericordia di Dio: “Non hai voluto né sacrificio né offerta per il peccato, un corpo invece mi hai preparato” (Eb 10, 5). Non viene perché cerchiamo di essere intelligenti e buoni, viene perché gli prepariamo il nostro corpo, cioè gli offriamo tutta la nostra esistenza perché egli possa crescere in essa come un giorno crebbe nel grembo della Vergine.

Uno stupore da cui nasce tutto il movimento della nostra vita. Come accadde a Elisabetta, l’attesa di Dio che ci urge dentro come sua profezia finalmente trova ancora una volta la sua non scontata risposta, una risposta che poi diventa missione verso tutti coloro che, illusi dalle menzognere promesse del mondo, rischiano di partorire vento: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza al paese e non sono nati abitanti nel mondo” (Is 26, 17-18), “Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire” (Mic 5, 2). Solo il figlio di Maria ha il Potere di sconfiggere il potere che ci rende schiavi del male e ci distrugge. Infatti dove Dio non avviene e prende corpo in noi, avanza il Nulla che si prende il nostro corpo, il nostro cuore, la nostra storia. Li prende e li divora: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8). Allora, più che mai, dobbiamo invocare: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (ritornello del salmo responsoriale 79 [80]).







sabato 21 dicembre 2024

Lo Stato "impiccione" e la decattolicizzazione




Titolo: Verso il centenario della Quas primas: la Vehementer Nos di san Pio X



Di Silvio Brachetta, 20 Dic 2024

L’11 dicembre del 2025 sarà celebrato il centenario dell’Enciclica Quas Primas[1] di Pio XI, interamente dedicata alla Regalità sociale di Cristo. L’intenzione del pontefice era di porre un argine all’ateismo e allo spirito di secolarizzazione tracimati in Occidente, già a cominciare (almeno) dal secolo XVIII, con la diffusione dell’illuminismo, del naturalismo e del razionalismo.

La Quas Primas, però, è l’ultimo documento di magistero – in ordine temporale – a trattare di questa immensa tematica, legata in modo speciale alla Dottrina sociale della Chiesa: i pontefici Pio IX, Leone XIII, Pio X e Benedetto XV si erano più volte espressi (tra XIX e XX secolo) su questioni legate alla pericolosità delle dottrine filosofiche anticristiane e alla conseguente rottura, teoretica e pratica, tra ordine temporale e ordine sacro, tra Trono e Altare, tra Stato e Chiesa. E, difatti, separare – in senso politico e sociale – lo Stato dalla Chiesa e relegare quest’ultima in posizione subalterna, significa appunto detronizzare Gesù Cristo dalla sua più alta signoria, tanto sulle realtà spirituali che su quelle materiali.

Trionfo dell’ateismo di Stato

Non solo Pio XI sa bene di continuare ad esporre una dottrina sulla quale si era pronunciato il magistero precedente ma, sin dal titolo (Quas Primas[2]) rimanda ad una sua precedente enciclica del 1922 – ovvero il suo primo pronunciamento di rilievo: Ubi Arcano Dei Consilio[3] – in cui esprime la speranza, anche umanissima e semplicissima, che il «Re degli uomini, delle città e dei popoli» – Gesù Cristo – riprenda il suo posto e venga di nuovo «portato in grandioso e veramente regale trionfo di fede, di adorazione e di amore».

Queste, dunque, le considerazioni di un pontefice dopo la fine della Prima Guerra Mondiale (1914-1918). Prima del conflitto, tuttavia, un altro pontefice – san Pio X – interviene nel 1906, con toni quasi definitori, sulla deriva laicista della Francia, con l’enciclica Vehementer Nos.[4] Colpiscono proprio le prime parole del pronunciamento, perché «vehementer nos» significa «siamo assai preoccupati». Ma preoccupazione per cosa?

In piena Belle Époque, dopo un secolo di tentennamenti, rivoluzioni e restaurazioni (dalla Rivoluzione Francese alla Terza Repubblica, cioè per tutto l’Ottocento), la Francia si decide a rompere per sempre ogni rapporto di unione con la Chiesa. Nel 1905 viene emanata la Legge di separazione tra Stato e Chiese[5], nel senso che lo Stato francese prende le distanze da ogni forma di culto, equiparando di fatto la Chiesa cattolica a qualunque altra religione e annullando il precedente Concordato del 1801[6] che, pur nella sua insufficiente stesura, riconosceva comunque alla Chiesa un minimo di centralità spirituale e di autorità civile. Con la Legge di separazione, al contrario, si compie una grande ipocrisia: da una parte si finge di riconoscere il principio della «libera Chiesa in libero Stato»[7], ma dall’altra – di fatto – si pone la Chiesa in totale subordinazione rispetto allo Stato e la si priva di alcune sue libertà proprie e fondamentali.

Clima intimidatorio nei confronti della religione


Mediante la Legge di separazione, la Francia mette in opera alcune scelte unilaterali. Consente la libertà di culto, ma a certe condizioni: che fossero organizzate da associazioni religiose di laici, che queste associazioni disponessero dell’uso degli edifici sacri e che si trovassero in posizione subordinata al Consiglio di Stato francese.

Il corpo gerarchico, che dai parroci giungeva ai vescovi e al papa, viene clamorosamente estromesso da ogni decisione sul culto e l’autorità ecclesiastica è privata di ogni potere. Non solo, ma la Legge dichiara proprietà dello Stato tutti gli edifici di culto messi a disposizione delle associazioni. In realtà – scrive Pio X nell’enciclica – dopo che lo Stato ha proclamato la libertà di culto, «impedisce» di fatto «la predicazione della fede e della morale cattolica» e pone la Chiesa «in una soggezione umiliante, paralizzandone in mille modi l’attività».

Molti immobili (cattedrali, chiese, biblioteche, seminari) vengono sequestrati dallo Stato e mai più restituiti. Come anche i fondi della Chiesa a favore delle scuole cattoliche, della beneficenza e del culto, sono trasferiti d’ufficio ad istituzioni laiche. Cessa anche il dovere dello Stato di provvedere alla spesa del culto: questa spesa non fu richiesta dalla Chiesa in modo arbitrario, per una questione di prestigio o di atto dovuto, ma fu introdotta nel Concordato napoleonico per risarcire la Santa Sede dei beni confiscati (o meglio, derubati) durante la Rivoluzione francese.

San Pio X descrive, nell’enciclica, un pessimo quadro della Chiesa in Francia, anche prima della Legge del 1905: attentato al matrimonio a causa di norme sbagliate (divorzio), laicizzazione forzata delle scuole e degli ospedali, chierici costretti al servizio militare, spogliazione degli istituti religiosi e relativa riduzione in miseria dei monaci e dei frati, scomparsa dei simboli cristiani dai luoghi delle istituzioni (tribunali, scuole, caserme, navi militari). Un quadro di costante e sistematica intimidazione verso il cattolicesimo, in particolare. Le altre confessioni religiose hanno risentito meno della secolarizzazione e del laicismo di Stato, o perché il secolarismo è stato introdotto nella storia con il loro beneplacito (protestantesimo) o perché abituate alla sopraffazione (ebraismo). Non è un caso che, in questa fase storica, nasce in Francia l’antisemitismo virulento (Affare Dreyfus), molto tempo prima del nazismo.

Aridità spirituale e secolarizzazione imposta dalle istituzioni

Se dunque è da ricercarsi un luogo in cui l’Occidente ha cominciato a tramontare e dove la signoria sociale di Cristo e stata estromessa almeno dal XVII secolo, questa è primariamente la Francia, la cattolicissima Francia. Quella di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero, di Cluny, delle cattedrali, dei santi fra i più noti della Chiesa.

È proprio la Francia che si sarebbe dovuta approfittare al meglio della Belle Époque, periodo di non belligeranza, tra i più fecondi dal punto di vista della scienza: la natura dischiudeva i suoi segreti e narrava i prodigi delle onde radio, della chimica, delle leggi fisiche, dell’astronomia e della biologia. E, a seguire, la tecnica dava ormai risultati stupefacenti. Le nazioni – a partire dalle cattoliche – avrebbero dovuto prorompere in una lode alla Provvidenza e ammettere la realtà fattuale di un’alleanza tra scienza e fede che, a partire dal Medioevo, ha spalancato le porte al conoscere, in ogni campo dello scibile. Così non è stato e la delusione maggiore è giunta dalla Francia e, a ruota, dall’Italia risorgimentale, che si sono volontariamente opposte a Dio e alla sua Chiesa. Non però dai francesi e dagli italiani, perché la popolazione si è dovuta assoggettare a forza alle decisioni farneticanti della politica e delle ideologie filosofiche.

Ed è proprio questa la preoccupazione dei pontefici tra Ottocento e Novecento: salvaguardare la fede delle nazioni, a prescindere dalla corruzione dei filosofi del tempo e dei governanti atei. Il dato incomprensibile è che alla Belle Époque non sia seguita una resurrezione dello spirito umano, ma un’aridità senza precedenti e una preoccupazione solo per ciò che è materiale. O meglio, lo spirito si è corrotto in sentimentalismi grossolani, che hanno creato solo odio, opposizione tra i popoli e sangue versato: nazionalismo, patriottismo anticristiano, ribellione, irredentismo, scientismo, tecnocratismo. Terreno fertile, questo, per le guerre mondiali, passate e future.

Esordio e gloria futura dello Stato impiccione


San Pio X, nella Vehementer Nos, afferma che la necessità della separazione tra Stato e Chiesa «è una tesi assolutamente falsa e un errore pericolosissimo», perché a Dio «è dovuto non soltanto un culto privato, ma anche un culto sociale e onori pubblici». Nella tesi dello Stato francese, cioè, vi è «un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale». Per cui l’ordine voluto dalla Provvidenza è fondato su due poteri, uniti e non confusi: quello secolare (principe) e quello sacro (papa). Uniti, perché altrimenti si avrebbe il crollo della civiltà – non confusi, perché la Provvidenza non contempla l’assurdità di una teocrazia di tipo orientale o assolutista.

Dio provvede, nella storia, con l’«armoniosa concordia tra le due società» (civile e religiosa), anche perché ci sono «molte cose» che sono «di competenza di tutt’e due». Chi semina discordia, al contrario, nega la Provvidenza e la verità secondo cui «la religione è la regolatrice suprema e sovrana maestra, allorché si tratta dei diritti e dei doveri dell’uomo».

Con la Legge di separazione – continua Pio X – s’impone «l’amarezza di vedere lo Stato invadere delle materie che sono di competenza esclusiva del potere ecclesiastico». È l’esordio nella storia dello Stato impiccione (sull’attuale modello cinese), che presume di potersi sostituire alla società civile e si vuole occupare di tutto: dalla gestione delle istituzioni alla gestione dei sentimenti, dal controllo delle procedure al controllo del pensiero, dalle leggi sul traffico alle leggi sulla vita, dalle norme giuridiche alle norme morali, dal libretto di circolazione al libretto rosso di Mao.

Da quel 1905 non è cambiato più nulla di sostanziale in politica e la società si è fatta disumana, arida, fredda. La Legge di separazione francese è divenuta Legge di separazione mondiale. Tutta la vita umana si riassume oggi nello Stato, nazionale e sovranazionale. I media danno la precedenza ai fatti economici e politici, senza traccia di critica.

Lo scopo di tutto ciò è semplice da capire e lo denuncia lo stesso san Pio X: «decattolicizzare la Francia» (e il mondo) e «sradicare completamente la fede dai cuori». La fede che salva, ma anche la fede «che ha coperto di gloria i padri e che ha fatto grande e prospera la patria» dei francesi e di molti popoli.





(foto: Di Adolfo Müller-Ury – muller-ury.com, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=119238775)

[1] Promulgata l’11 dicembre 1925.

[2] «Quas primas post initum Pontificatum dedimus ad universos sacrorum Antistites Encyclicas Litteras […]». «Nella prima enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico […]».

[3] Promulgata il 23 dicembre 1922.

[4] Promulgata l’11 febbraio 1906.

[5] Il 9 dicembre di quell’anno, su iniziativa dei deputati Aristide Briand (socialista) ed Émile Combes (radicale).

[6] Accordo tra Napoleone Bonaparte e Pio VII, per risanare i rapporti di conflitto tra Stato di Francia e Santa Sede, a seguito della Rivoluzione francese e del bonapartismo.

[7] «L’Église libre dans l’État libre». Principio calvinista («Ecclesia libera in libera patria») ripreso da Charles de Montalembert e da Camillo Benso di Cavour.