Nella ricorrenza, il cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, ne ricorda la "straordinaria" ma anche "complessa personalità" e ripropone una raccolta di tutte le pagine che gli ha dedicato nelle sue Memorie e digressioni di un italiano cardinale (Cantagalli, 2010). Il nuovo libro-estratto s'intitola Don Giuseppe Dossetti – Nell’occasione di un centenario ed esce anch'esso per i tipi di Cantagalli. In accordo con l'editore ne pubblichiamo qui integralmente il IX capitolo.
La “teologia” di Dossetti
Giuseppe Dosetti è stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella “sacra doctrina”?
La questione non è semplice, data la complessa personalità del protagonista, e richiede un discorso articolato. Mi limiterò, richiamando qualche notizia utile, a formulare alcune osservazioni che riguarderanno prima di tutto l’ecclesiologia, poi la cristologia e infine la metodologia propria e inderogabile della “sacra doctrina”.
Parrebbe da questa frase che egli non percepisse l’assoluta eterogeneità dei due eventi.
Ma come è possibile – a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa – confrontare e porre in relazione un’accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli, assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato? Senza dire, che un presbitero ammesso, fosse pur legittimamente, alle loro discussioni non può ritenere di avere la funzione di “manovratore strategico” (tanto meno quella di “capovolgere”). La sua presenza è per aiutare i vescovi, se gli riesce, a chiarirsi e ad enucleare al meglio quella verità rivelata che essi (soli maestri, in senso rigoroso e pertinente, del popolo di Dio) già possiedono, sia pure implicitamente.
Di più, nella stessa circostanza Dossetti addirittura si compiace di aver «portato al Concilio – anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell’esperienza politica fatta». Ma che tipo di “ecclesiologia” poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse “mondane”?
“Anche se non fu trionfante”
Questo inciso, sommesso e un po’ reticente, evoca con discrezione la fine dell’attività conciliare di don Giuseppe; e merita che lo si chiarifichi nella sua rilevanza.
Egli era stato introdotto legittimamente nell’assise vaticana con la qualifica di esperto personale dell’arcivescovo di Bologna. Il 12 settembre 1963 il nuovo papa, Paolo VI, comunica la sua decisione di designare quattro “moderatori”, nelle persone dei cardinali Lercaro, Suenens, Dopfner e Agagianian, con il compito di presiedere a turno l’assemblea conciliare per conto del papa6. Era, come si vede, un incarico che ciascuno dei designati avrebbe dovuto esercitare soltanto singolarmente.
Lercaro persuade invece i suoi colleghi ad accettare don Giuseppe Dossetti come loro comune segretario; e con questa nomina si configura in pratica una specie di “Consiglio dei Moderatori”, che finisce con l’avere indebitamente una funzione molto diversa da quella prevista e intesa, con un’autorità ben più ampia della sua indole originaria. È il momento della massima influenza di Dossetti; ma non poteva durare. Si trattava, in fondo, di un arbitrario colpo di mano che alterava la struttura legittimamente stabilita. Il Concilio aveva già una Segreteria Generale, presieduta dal vescovo Pericle Felici, il quale non tarda a lamentarsi della situazione irregolare che si era creata. Di più, l’attivismo del segretario sopraggiunto e le tesi innovative da lui propugnate cominciano a suscitare qualche naturale inquietudine. “Quello non è il posto di don Dossetti”, è il commento del papa. “Alla fine don Dossetti – afferma il cardinale Suenens – a causa dell’atmosfera ostile e per tatto verso il papa, si ritirò spontaneamente evitandoci una situazione imbarazzante”7.
Su quell’incidente dell’attività conciliare mette conto di conoscere il giudizio del Segretario Generale, Pericle Felici, che egli ha espresso nella relazione annuale consegnata a Paolo VI il 12 dicembre 1963:
“Gli Em.mi Cardinali Moderatori all’inizio dei lavori del secondo periodo hanno creduto di poter agire da soli, indipendentemente dalla Segreteria Generale, servendosi dell’opera del Rev. Don Giuseppe Dossetti.
A seguito dell’intervento del Santo Padre8, i rapporti con la Segreteria Generale sono migliorati.
“È mancato però per tutto il secondo periodo una intesa tra gli Em.mi Moderatori ed il Consiglio di Presidenza ed a volte i primi hanno preso iniziative assai impegnative e di grande importanza per il Concilio senza avvertire tempestivamente i Membri della Presidenza, come avvenne per i famosi quattro punti sulla ‘collegialità’, che furono annunziati all’Assemblea e proposti alla votazione su affrettata e unilaterale iniziativa degli Em.mi Moderatori…
È stato inoltre rilevato come sia poco consono con la propria funzione che i Moderatori esprimano sulle questioni più dibattute idee personali: averlo fatto ha posto i Moderatori in posizione di dirigenti non imparziali, diminuendo nei Padri la fiducia nella loro azione. Sembra perciò opportuno che in futuro si astengano dal partecipare ai dibattiti”9.
Le apprensioni di Paolo VI però non erano soltanto di natura procedurale e organizzativa.
Egli sentiva acutamente la sua responsabilità di salvaguardare in pienezza, pur nella cordiale accettazione della collegialità episcopale, la verità di fede del primato di Pietro e del suo totale, incondizionato e libero esercizio. Questa è la ragione che lo spinge a proporre la famosa Nota esplicativa previa, nella quale offriva alcuni criteri interpretativi inderogabili di lettura e comprensione del capitolo III della Lumen gentium (che pur veniva accolto integralmente). Così tranquillizzò tutti i padri sinodali e ottenne l’approvazione praticamente unanime del documento nella votazione del 21 novembre 1964: 2.151 placet e solo 5 non placet. “Con il suo intervento diretto e risoluto aveva evitato il rischio di possibili future interpretazioni contrarie alla dottrina tradizionale”10; e aveva salvato il Concilio.
C’è anche da dire che papa Montini, per il suo naturale temperamento e per la sua abitudine al rispetto dell’interlocutore e alla gentilezza del tratto, non doveva avere una grande simpatia per l’aggressività del linguaggio che talvolta manifestavano gli appartenenti all’ambiente dossettiano. Sono indicativi, a questo riguardo, i giudizi che si leggono nel diario della sua attività conciliare (!) di Angelina Nicora Alberigo11 al giorno 19 novembre 1963: “Uomini insignificanti come Carli, vescovo di Segni”, “uomini inintelligenti e teologicamente vuoti come Siri”, “uomini conservatori e reazionari come Ottaviani, Ruffini e alcuni nord-americani”. Così erano impietosamente squalificati dei legittimi successori degli Apostoli, i quali non avevano altro demerito che quello di non condividere in coscienza le posizioni ideologiche della signora Nicora, che non aveva altra oggettiva autorevolezza che quella di essere moglie del prof. Giuseppe Alberigo, al quale Dossetti era legatissimo.
Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato; ed era l’idea, presentata con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, la Torah (la Legge mosaica) è, anche attualmente, la strada alla salvezza per gli ebrei. L’asserzione era mutuata da un autore tedesco contemporaneo, e gli era cara probabilmente perché ne intravedeva l’utilità ai fini del dialogo ebraico-cristiano.
Ma, come primo responsabile dell’ortodossia nella mia Chiesa, non avrei mai potuto accettare che si mettesse in dubbio la verità rivelata che Gesù Cristo è l’unico Salvatore di tutti.
Per superare la mia opposizione, egli cercò di attenuare la frase in questi termini: «Non sembra che risulti ancora abbastanza fondata la proposta delle due vie di salvezza, cioè Cristo per i gentili e la Torah per Israele». Era, come si vede, un maldestro compromesso ideologico; non era la fede di sempre. «Don Giuseppe, – gli dissi – ma non ha mai letto le pagine di san Paolo e la narrazione degli Atti? Non Le pare che nella prima comunità cristiana il problema fosse addirittura quello contrario? In quei giorni era indubbio e pacifico che Gesù fosse il Redentore degli ebrei; si discuteva caso mai se anche i gentili potessero essere pienamente raggiunti dalla sua azione salvifica».
Basterebbe tra l’altro – dicevo tra me – non dimenticare una piccola frase della Lettera ai Romani, là dove dice che il Vangelo di Cristo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (cfr. Rm 1,16).
Dossetti non era solito rinunciare a nessuno dei suoi convincimenti. Ma qui alla fine cedette davanti alla mia avvertenza che, nel caso, l’avrei interrotto e pubblicamente contraddetto; e accondiscese a pronunciare questa sola espressione: «Non pare che sia conforme al pensiero di san Paolo dire che la strada della salvezza per i cristiani è Cristo, e per gli ebrei è la Legge mosaica». Non c’era più niente di errato in questa frase, e non ho mosso obiezioni, anche se ciò che avrei preferito sarebbe stato di non accennare nemmeno a un parere teologicamente tanto aberrante (che, tra l’altro, non aveva nessun nesso con il centenario di Lercaro).
Questo “incidente” mi ha fatto molto riflettere e l’ho giudicato subito di un’estrema gravità, pur se non ne ho parlato allora con nessuno. Ogni alterazione della cristologia compromette fatalmente tutta la prospettiva nella “sacra doctrina”: in un uomo di fede e di sincera vita religiosa, come don Giuseppe, era verosimile che l’abbaglio fosse conseguenza di una ambigua e inesatta impostazione metodologica generale.
personalità singolare e complessa. Chi ha studiato la lunga e multiforme vicenda di questa personalità straordinaria, non può non riconoscere la validità e la pertinenza di tali parole.
Dossetti nel suo intimo era già “monaco” quando partecipava attivamente alla Resistenza emiliana. Ed era ancora un “politico” nel 1974, quando noi sacerdoti milanesi ordinati nel 1950 siamo andati a trovarlo a Gerico. Ormai da diciotto anni egli aveva abbracciato la vita religiosa e da un anno si era dato alla meditazione e alla preghiera in Terra Santa. Eppure ci ha intrattenuti soltanto sulla “catastrofica” politica italiana: nelle sue parole abbiamo avvertito il rammarico, ancora vivo in lui, di non essere riuscito a far prevalere la sua linea su quella alternativa di De Gasperi (che era morto da vent’anni).
Nei suoi ultimi giorni non esitò a uscire dal suo ritiro e a rompere il silenzio monastico per salvare la “sua” Costituzione, dicendo di seguire in questo l’esempio di san Saba, l’archimandrita del deserto di Giuda che nel VI secolo abbandonò il suo eremo per difendere l’ortodossia calcedonese
e combattere il monofisismo (quasi che nei due casi si trattasse di valori omogenei e paragonabili).
La coesistenza – se non l’identificazione – dei due traguardi (quello “politico” e quello “teologico”), inseguiti simultaneamente e col medesimo impegno, è all’origine di qualche incresciosa confusione metodologica. Egli proponeva le sue intuizioni politiche con la stessa intransigenza del teologo che deve
difendere le verità divine; ed elaborava le sue prospettive teologiche mirando a finalità “politiche” (sia pure di “politica ecclesiastica”).
E qui c’è anche il limite intrinseco del suo pensiero e del suo insegnamento. Perché la teologia autentica è essenzialmente contemplazione gratuita e ammirata del disegno concepito dal Padre prima di tutti i secoli per la nostra salvezza e per il nostro vero bene; e solo in quel disegno si trovano e vanno esplorate le luci e gli impulsi che potranno davvero giovare alla Sposa del Signore Gesù, che è pellegrina nella storia.
Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d’Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella sacra doctrina e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo, così da esercitarsi nell’arte teologica sotto la guida di un vero maestro; un maestro, soggiunse, come per esempio Alessandro di Hales13.
La sentenza a prima vista meraviglia un po’: ci si sarebbe aspettati prima di tutto il suggerimento di un percorso culturale e libresco; di buone letture personali; di esplorazione degli scritti dei padri e degli scrittori sacri; di ricerche esegetiche, filosofiche, storiche. E invece ancora una volta il Dottore Angelico rivela la sua originalità, la sua saggezza, la sua conoscenza dell’indole sia della sacra doctrina sia della psicologia umana. Nella sua concretezza egli vedeva il rischio non ipotetico degli autodidatti: quello di ripiegarsi su se stessi e di ritenere fonte della verità le proprie letture e la propria acutezza; più specificamente il rischio di finire col compiacersi di un sapere incontrollato, e perfino di arrivare a un’ecclesiologia incongrua e a una cristologia lacunosa.
È stato appunto il caso di don Giuseppe Dossetti, che nell’apprendimento della “scientia Dei, Christi et Ecclesiae” non ha avuto maestri adeguati. A chi gli avesse chiesto da dove avesse preso le sue idee, le sue prospettive di rinnovamento, le sue proposte di riforma, egli avrebbe ben potuto rispondere (e non facciamo che usare le sue parole): «dalla mia testa e dal cuore»14.
[Tratto da Memorie e digressioni, 2010, pp. 485-492]
552 s.
10 A. Tornielli, Paolo VI, op. cit., p. 39.
*Cardinale, Arcivescovo emerito di Bologna
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-teologia-fa-da-te-di-dossetti-5767.htm
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