Il testo di Lorenzo Leuzzi (attualmente vescovo ausiliare di Roma e direttore dell’ufficio di Pastorale Universitaria) che intendiamo prendere in esame rappresenta, come già si evince dal sottotitolo, un contributo alla riflessione teologica per quella nuova evangelizzazione a cui Papa Benedetto XVI sta ripetutamente esortando. Un testo di non facile lettura per chi non sia già sufficientemente addentrato nella materia, non solo per il linguaggio usato, in verità molto specialistico, ma ancor più perché, trattandosi di un saggio di approfondimento, il nostro Autore dà per presupposte numerose conoscenze, soprattutto quanto al lessico usato. Purtroppo questo, ci permettiamo di osservare, non facilita affatto una sua corretta comprensione ad un pubblico che, trattandosi di un tema di interesse di massa – la “nuova evangelizzazione” è un affare che interpella ogni singolo battezzato – si suppone debba essere più o meno ampio.
Ma, forma a parte, a peggiorare la situazione sopraggiungono anche i contenuti, distanti e non poco dalle motivazioni che spingono invece noi che scriviamo a condurre – pur se per questo ridicolizzati e non poche volte ignorati da posizioni di segno contrario – attraverso il nostro contributo di pensiero un vera e propria controrivoluzione filosofica a vantaggio di un ritorno – rigoroso e genuinamente convinto – del pensiero metafisico come vera conoscenza scientifica. Il Concilio Vaticano II – nonostante la sua validità e la sua ricchezza, in perfetta continuità con tutto il Magistero cattolico che lo ha preceduto – subisce, suo malgrado, praticamente dal momento stesso in cui è stato celebrato, una sorta di “maledizione” in base alla quale esso non poche volte è – e proprio sul senso vero della continuità col passato – frainteso e strumentalizzato. La Chiesa ha tanto da comunicare al “mondo” – nientemeno che il Vangelo di salvezza! – ma anche da quel “mondo” distante dalle istanze della fede cristiana, eppur fatto di uomini il cui lavoro (rappresentato dalla produzione culturale, artistica, scientifica, ecc.) porta comunque le tracce di quel Dio dal quale tutti veniamo e (anche spesso inconsciamente) aneliamo, la Chiesa può attingere cose buone: non di certo cose che aggiungano qualcosa alla Rivelazione – in sé perfetta quanto ai contenuti, agli strumenti e all’efficacia in vista della salvezza dell’uomo – di cui essa è depositaria e custode; bensì elementi che possano servire da opportuni punti di contatto che rendano la fede cristiana, percepita erroneamente come estranea ai desideri più profondi dell’uomo, invece come “simpatica” (nel senso semantico del termine) e intima ai desideri stessi. Una operazione in verità non nuova per la Chiesa: è in effetti l’ennesimo, grande, tentativo di inculturazione, già più volte espresso nel corso della storia (naturalmente, con le sue specifiche peculiarità).
Il grande equivoco che invece ha preso corpo è quello di ritenere il Concilio come punto di rottura con il passato, e – più in particolare, per ciò che attiene le strutture logiche attraverso cui rendere ragione della fondatezza della Rivelazione cristiana – con il passato metafisico, di quella metafisica che è l’anima di numerosi e importantissimi pronunciamenti dogmatici. La reazione più coerente, più intellettualmente onesta per chi invece ha inteso rigettare – sulla scia di quella “modernità” che, da Descartes a Heidegger, passando per Spinoza, Kant, Hegel e il neoempirismo contemporaneo, avrebbe demolito, colpo su colpo, privandolo di ogni consistenza scientifica – il pensiero metafisico aristotelico-tomista, sarebbe stata una sola: rigettare il cattolicesimo. E invece – vuoi per buona o cattiva fede, vuoi forse per la resistenza di un misterioso sensus fidei esensus ecclesiae che ha preso interiormente il sopravvento – c’è stato chi si è illuso che si possa tranquillamente spogliare il dogma del suo contenuto metafisico, senza alterare la verità del dogma stesso, sia perché quel cuore metafisico è una sovrastruttura culturale storica e contingente (e quindi valida per il periodo in cui essa è stata costituita), sia perché esso è da ascriversi alla forma della comunicazione del dogma. In altri termini: il contenuto del dogma, in passato comunicato in linguaggio metafisico, può essere oggi, e senza affatto rischiare di modificarlo, comunicato attraverso il linguaggio antimetafisico, a-metafisico, empiristico e storicistico, del pensiero contemporaneo. Una illusione, questa, che appare una vera e propria enormità per chi sa come invece il nucleo metafisico delle formule dogmatiche corrisponde all’essenza, e non alla forma linguistica o retorica, delle formule stesse. E questo passaggio è stato così ben compreso dal pensiero moderno – specie post-hegeliano – al punto che la reazione (coerentissima) è stata esattamente il rigetto (attraverso la nascita di varie forme di ateismo, di agnosticismo e di fideismo intimistico) della fede (e, a fortiori, della teologia) come vera conoscenza scientifica. Il prodotto più emblematico di questa illusione è quella vera pseudo-teologia che il filosofo italiano Antonio Livi ha denominato «filosofia religiosa» e che altro non è se non cattiva filosofia che gioca a fare la parte della teologia (si veda a riguardo l’importante, quanto ancora troppo ignorato, lavoro, unico nel suo genere nel panorama delle pubblicazioni scientifiche, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012).
Ci dispiace dover ammettere però che il testo di Leuzzi che abbiamo preso in esame, pur volendo salvarne la buona fede, ci sembra purtroppo un ennesimo esempio di questa falsa posizione epistemologica, quella, lo ribadiamo, convinta: a) di ritenere la metafisica sorpassata o quantomeno inadeguata rispetto agli interrogativi del cosiddetto “uomo moderno”; b) di assumere viceversa in blocco in modo acritico i punti di partenza della modernità (che sono quelli dell’empirismo e del soggettivismo) pur professandone il rigetto delle conclusioni (che sono quelle, come abbiamo detto, dell’agnosticismo e dell’ateismo); c) di convincere retoricamente (cioè con la forza persuasiva di meri paralogismi) che la metafisica possa essere validamente “completata” o possa convivere senza problemi con molto di quanto il pensiero moderno abbia prodotto; d) di continuare a parlare di fedeltà al Magistero, avocando al contempo un cosiddetto “spirito del Concilio” come punto di partenza per una esatta interpretazione dello stesso e come giustificazione dell’assunzione dei due pilastri della modernità di cui abbiamo detto al secondo punto.
Fin dall’Introduzione l’Autore esplicita il motivo del suo lavoro: «La riflessione teologico-pastorale, che desidero proporre, è un itinerario di ricerca sulla specificità della fede cristiana chiamata a confrontarsi con la nuova situazione socio-culturale» (p. 7). Questa nuova situazione spinge di conseguenza ad una evangelizzazione che deve essere nuova, non perché «riguarda la realtà del mistero cristiano, la cui novità è perenne e trascende il tempo e lo spazio, ma la suadiakonìa nella storia» (p. 9). Fin qui nulla di eccepibile. Ma a questo punto Leuzzi introduce una distinzione che, come già dimostra il fatto di apparire fin dal titolo del libro, è fondamentale per capirne il pensiero. Esiste perciò un doppio genere di fede: una religiosa e una teologale. La fede cristiana è essenzialmente teologale, e non può affatto essere ridotta ad una fede religiosa, e quest’ultima anzi è da essa portata a compimento. Qui si impongono già due prime ambiguità. Anzitutto quella sul significato di fede religiosa e fede teologale, e poi quella sullo stesso concetto di «fede».
Per quanto riguarda il primo punto, è possibile ricavare una pallida spiegazione più avanti (p. 56) allorché Leuzzi, parlando della «mentalità diffusa, a cominciare dal mondo della filosofia e della teologia», ci assicura che, secondo tale diffusa mentalità, «solo una fede religiosa più raggiungere l’uomo nella sua storicità e che la fede teologale è in realtà a-storica e quindi lontana dall’esistenza dell’uomo». Desumiamo perciò che l’Autore indichi con fede religiosa la naturale disposizione dell’uomo a spingersi verso l’Assoluto, e con fede teologale il moto contrario dell’Assoluto (Dio) che, facendosi prossimo a noi sua sponte, si rivela. Su questo punto concordiamo con Leuzzi: la mentalità comune a certa cultura materialistica e razionalistica, quella del “vero è ciò che si può vedere, toccare e misurare”, porta a concedere una certa dignità per il fenomeno religioso solo se considerato nella sua pura dimensione umana, terrena. E volentieri molti scienziati oggi – più che nel passato Positivismo, ad esempio – sono disposti a valutare positivamente il fenomeno religioso, il quale in certe epoche e in determinati momenti può essere anche molla per il progresso scientifico (si pensi al ruolo giocato dai maghi del Rinascimento in favore alla rivoluzione scientifica) e l’organizzazione sociale (la religione come “riserva culturale” dei valori alla base dell’educazione civile). Viceversa, una religione che pretenda di “venire dall’alto”, per una cultura che non crede si possa parlare sensatamente di un “Alto”, è del tutto da ridicolizzare, se non da ignorare.
Quello che invece ci lascia perplessi del discorso di Leuzzi è il riferimento al «mondo della teologia» che (riteniamo il Nostro intenda per alcuni suoi esponenti) su questo punto, pur se su conclusioni diverse rispetto agli avversari del sacro (trattandosi di “teologia”, è ovvio pensare che si sta parlando di pensatori credenti), ha le medesime posizioni di partenza, ovvero quelle, ribadiamo, secondo cui una fede soprannaturale (teologale) sia «a-storica e quindi lontana dall’esistenza dell’uomo». Che senso ha parlare di credenti/teologi convinti che l’a-storicità della fede sia lontana dall’esistenza umana? Non dovrebbe essere pacifico presso tutti i teologi che la fede ha la sua dimensione soprannaturale? E perché Leuzzi fa coincidere il concetto di “fede teologale” con quello di “a-storicità” anziché con quello, che riteniamo più corretto, di “meta-storicità”? Ci viene il dubbio che il Nostro stia parlando di un genere di teologia che si preoccuperebbe troppo di principi evidenti e deduzione di essenze ed escluderebbe un ruolo, che per lui evidentemente dovrebbe essere decisivo, del divenire storico. Insomma: si sta parlando tra le righe della teologia a base metafisica, quella stessa metafisica che sarebbe stata sconfessata dalla modernità e giocoforza avrebbe ridotto la teologia impiantata su di essa come lontana e inutile. Eccoci allora di fronte all’affiorare dell’assunto pregiudiziale che abbiamo classificato nel punto b): poiché la modernità ha invalidato il pensiero metafisico, solo una teoresi storico-soggettivista – quella di tutti i sistemi filosofici della modernità – può dare efficacemente ragione della nostra fede.
Una «fede», tra l’altro, che Leuzzi cita spesso, ma non si riesce mai a capire se e quando faccia riferimento ad essa intendendola come atto e come contenuto (fides qua e fides quae creditur), giacché l’insegnamento magisteriale parla di presenza del soprannaturale nell’una e nell’altra: nell’una, come azione divina che previene e ispira all’assenso, nell’altra, come realtà trascendente di cui le verità professate, tutte esposte con termini e concetti analogici, sonosignum.
E in effetti tutto il discorso che segue è all’insegna dell’impianto storicista proprio delle filosofie contemporanee. Egli sostiene che il «cuore della proposta della nuova evangelizzazione» lanciata da Benedetto XVI, ciò che ci fa «comprendere la sua novità storica» lo si può far corrispondere alla domanda «la fede cristiana può incontrare la storicità dell’uomo?», un interrogativo che, a sua detta, attenderebbe dalla Chiesa «una risposta esaustiva e progettuale» nientemeno che dai tempi dell’«emergere della rivoluzione industriale» (p. 17). Richiamandosi così all’opera Introduzione al Cristianesimo scritta nel 1969 dall’allora Joseph Ratzinger, Leuzzi sostiene che la risposta al cruciale quesito può essere data solo a partire dalla comprensione e dall’adeguamento ad un processo storico del pensiero occidentale, quello che ha portato a ritenere il verum quia factum al verum quia faciendum, entrambi preceduti dalla fase di passaggio al verum est factum dal verum est ens. Si sta parlando insomma delle tre tappe fondamentali della storia del pensiero occidentale, quelle che vanno dalla Scolastica di Tommaso d’Aquino al razionalismo empirista e idealista di Descartes, Spinoza, Kant, Hegel, e via via fino a quella vera e propria antifilosofia rappresentata dal pensiero di Heidegger, degli esistenzialisti, dei neomarxisti, dei neopositivisti del XX secolo. È il processo storico, dunque, che ha portato la metafisica dal suo sviluppo più compiuto al suo definitivo affossamento (in buona parte della filosofia, ma non in tutta: prova ne è ad esempio la scuola del senso comune): ovvero la scienza dell’ente e dell’essenza, dell’atto e della potenza, della sostanza e dell’accidente, che tanto ha contribuito al pensiero teologico della Chiesa fino al punto da costituire tutt’ora, e come abbiamo prima accennato, la sostanza concettuale di numerosi importanti pronunciamenti dogmatici (si pensi alla dottrina trinitaria, cristologica, antropologica, sacramentaria). Leuzzi invece asserisce che è la mancata comprensione e il mancato adeguamento a questo processo storico che rischia di allontanare sempre più la Chiesa dall’uomo contemporaneo e vanificare perciò ogni bella intenzione di nuova evangelizzazione. Contestualmente, lo stesso elogia (non apertamente) la Riforma protestante perché ha saputo, a differenza del mondo cattolico, cogliere il cambiamento in atto dei tempi, l’evoluzione verso una concezione della realtà e della storia come faciendum: «La Riforma nasce in questo passaggio, o meglio nasce come risposta a questo passaggio che pian piano portava con sé la consequenziale proposta del verum quia factum» (p. 20: anche qui l’Autore inserisce nuovamente in nota un riferimento ad una ennesima opera di Ratzinger –Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Milano 1993 – onde ricavare per la sua tesi maggiore autorevolezza).
Avendo pertanto stabilito come a partire dalla rivoluzione industriale l’uomo ha sempre più preso coscienza che la realtà è qualcosa che «il soggetto non avverte più come sua, ma [sa] solo di esserne parte, senza poterla più dominare» (p. 21), secondo Leuzzi «inizia il tempo dell’interrogativo: può la fede cristiana incontrare la storicità, che ormai si manifesta come realtà storico-dinamica?» (p. 22). Ovviamente «questo passaggio non può essere compreso restando nel naturalismo metafisico, ma pone la scoperta di una vera novità ontologica della società (p. 22)»; ancora: «(…) il sorgere del faciendum ha posto la questione di come liberare l’uomo dalla presa dell’oggettività, in termini heideggeriani, dell’onto-teologia» (p. 24). Bisogna infatti «liberare l’uomo dalla tenaglia del naturalismo metafisico»; con lo spostamento dall’oggetto al soggetto avviato dall’età cartesiana «finalmente la teodicea e i suoi dintorni, potevano essere dimenticati negli scaffali per aprire la stagione dell’esistenza, ormai libera da ogni orpello metafisico» (p. 25). Detto questo, Leuzzi si avvicina sempre più al punto dove vuole condurre il lettore: «è opportuno sfatare il dogma secondo cui la fede cristiana, in particolar modo la teologia cattolica, abbiano rifiutato a priori il faciendum, insinuando perciò una contrapposizione – in realtà fittizia – tra Cristianesimo e modernità».
Una frase, questa, che non può non lasciarci ancora una volta perplessi: è ovvio che la fede cristiana e la teologia cattolica abbiano rifiutato a priori il faciendum, e non perché – come Leuzzi asserisce – la metafisica sia una dottrina statica, disincarnata, astratta, che non tiene conto del dato di una realtà che è un essere-nel-divenire (e sarebbe assai sciocco asserirlo: è proprio questo infatti il motivo più forte che ha portato Aristotele a rigettare Platone e a fondare il suo impianto metafisico), ma piuttosto perché quella modernità tanto esaltata si è presentata fin dall’inizio come esiziale alla fede e alla teologia stesse (come poi la storia ha dimostrato).
Un'altra affermazione priva di senso è quella secondo cui la metafisica è scienza “astratta”, lontana dal concreto. Ma, ci chiediamo: se la filosofia e la teologia sono (o quantomeno pretendono essere) scienze, ovvero conoscenze rigorose e dimostrate (pur con un metodo proprio) della realtà, può esistere davvero una conoscenza umana del reale che non sia astratta? C’è un modo non-astratto dell’uomo di conoscere le cose che dia principi per una scienza non-astratta delle cose? Sì, se si concepisce l’intelligenza umana come quella angelica. Ma l’uomo èrazionale, e procede razionando, ossia scansionando a pezzo a pezzo, attraverso molteplici atti mentali – del concettualizzare e del giudicare – una realtà troppo complessa per essere colta in un colpo solo da un unico ed esaustivo atto mentale.
Il tentativo della Neoscolastica – l’importante filone filosofico nato in seguito alle esortazioni di ritornare soprattutto a Tommaso di un papa come Leone XIII nella stesura dell’Aeterni Patris(1879) – di ridare dignità e forza argomentativa alla metafisica sarebbe stato, secondo il nostro teologo, anacronistico e utile solo a tener desta la memoria di ciò che è metafisico (Dio, l’anima, le realtà escatologiche, ecc.) nella coscienza del Cristianesimo e della società futuri: «La neoscolastica, pur nella sua incapacità di scoprire nella fede cristiana la risposta al faciendum, ha almeno il merito di non avere abbandonato la questione metafisica, da cui non può prescindere né il Cristianesimo né la società per il futuro» (pp. 28-29). Invece, contrariamente a questi sterili ritorni nostalgici: «Il mondo contemporaneo attendeva ed attende dalla Chiesa non solo un servizio etico-morale ma di orientamento per afferrare la sua vera realtà. È questa la novità misteriosa e nascosta del Concilio» (p. 31). La Chiesa insomma non deve «evitare di comprendere il faciendum, ossia la modernità». Avendo rigettato la metafisica come scienza (e mantenuta solo come sinonimo di “trascendenza”), suona come frase ambiguissima anche questa: «La Chiesa è in grado di conoscere la realtà storica, perché anch’essa appartiene al mondo della storicità, anzi è realtà storica fin dal suo sorgere» (p. 35). Che ci sia un rifiuto polemico della filosofia metafisica lo si evince ancora in questo passaggio, ancora elogiativo della modernità/faciendum grazie alla quale: «(…) per la prima volta non è più la persona umana colta nella sua essenza astratta, ma nel suo agire che sempre più è immerso nella cultura della realtà storica che la forma e la crea, rendendo sempre più impersonali i suoi atti» (p. 39). Inoltre, la «questione antropologica (…) ormai si configura come riflessione sull’uomo storico, reale, e non più astratto e che si colloca in un contesto culturale dominato dal passaggio dalla teodicea alla filosofia della religione. Movimento questo, che se da un lato fa da sfondo alla richiesta di un nuovo ruolo della religione nella società civile (…), dall’altro consolida la prospettiva wojtyliana richiedendo un adeguamento della riflessione filosofica e teologica» (pp. 49-50). Adeguamento, certo, ma sempre nella prospettiva della continuità. Infatti, di quale Wojtyla sta parlando, di quello dei trascorsi fenomenologici come discepolo di Ingarden, o di quello divenuto Papa Giovanni Paolo II? Che ci sia stata una «prospettiva wojtyliana» filo-storicistica e antimetafisica, infatti, ci risulta assai nuovo. Il testo che segue è sufficiente a smentire una tale affermazione:
«È possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità. È come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a formulare i principi primi e universali dell’essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs lógos,recta ratio» (cfr. Enchiridion delle Encicliche, Fides et ratio, 2383).
L’unico adeguamento possibile, dunque, non potrà riguardare che le forme, ma non i contenuti, il cui cuore metafisico, come appare chiaro, è inscindibile ed è impossibile mutare il contenuto concettuale senza per ciò stesso alterare l’essenza del dogma.
Più avanti Leuzzi critica il fideismo della cosiddetta «ragione teologica», ossia «la riflessione sulla fede che cerca di dimostrare la sua pretesa veritativa attraverso un percorso logico dei suoi contenuti. Si tratta di una prospettiva teologica che assume la fede come percorso di razionalità, in modo che la fede diventi esaustiva in se stessa sia nei contenuti della rivelazione sia di quelli conoscitivi della realtà. La ragione diventa sinonimo di fede e si entra così nel mondo del fideismo». Punto, questo, che condividiamo.
Ci discostiamo invece sulla critica alla «teologia razionale», ovvero «la riflessione sulla fede che assume la ragione come criterio veritativo, in modo che la fede trovi in essa le sue condizioni di possibilità». Non siamo affatto d’accordo con Leuzzi che afferma come in essa «la fede diventa sinonimo di ragione e di essa ne assume i criteri veritativi». La fede non può mai diventare sinonimo di ragione in un sistema in cui “fede” (quae creditur) indica assenso a verità perfettamente comprensibili, ma che rimandano a una Realtà che resta invece avvolta nel mistero; oppure a “fede” come atto (qua creditur) di ritener per vero ciò, pur se tale appare in tutta la sua forza, è accettato, non per il solo atto di volontà del singolo, ma anche perché lo stesso è sorretto dalla grazia divina che previene il rifiuto, possibile purtroppo a causa del peccato. Leuzzi fa bene a dire (anche se lo dice criticandolo) che «Al di fuori della ragione non può esistere alcun contenuto di fede degno di credibilità», ma non per questo, come lui invece asserisce, «si entra nel mondo del razionalismo» (nota n. 50: Eucarestia e carità intellettuale, Città del Vaticano 2009, p. 15). Il tema è stato dal sottoscritto ampiamente affrontato nel volumeLogica della Rivelazione. Analisi filosofica delle condizioni di possibilità della fede (Leonardo da Vinci, Roma 2009): affermare la piena razionalità della fede – sia nella sua posizione come atto, sia come contenuto veritativo offerto alla comprensione e all’accettazione – non significa affatto ridurre, alla maniera dei deisti, la fede alla ragione. La ragione, infatti, intesa come conoscenza intellettivo-progressiva delle cose, non è una facoltà conoscitiva alternativa ad altre, bensì l’unica conoscenza possibile all’uomo – e ad ogni uomo – capace di aprirlo al Vero. Diversamente si dovrà supporre la possibilità di una facoltà a-razionale che discorda parecchio con l’esperienza di quegli uomini concreti cui Leuzzi cita spesso come termine della pastorale della nuova evangelizzazione.
Ma il nostro teologo è convinto: «il Cristianesimo in quanto religione appartiene al mondo storico-dinamico e non a quello statico-sacrale» (p. 52). Si tira dietro anche il Romano Pontefice (anche per il quale abbiamo invece numerose citazioni di segno pro-metafisico): «A questa alternativa risponde il percorso di Benedetto XVI: è necessario superare la teologia razionale e la ragione teologica perché non sono in grado di garantire la specificità della fede cristiana, quella cioè di essere fede teologale – e non semplicemente fede religiosa – capace di incontrare e servire la storicità dell’uomo (…). La fede cristiana è sempre stata teologale, anzi è una virtù teologale (…), e si è sempre imposta in tal modo come novità assoluta rispetto ad altre fedi religiose» (pp. 56-57); «Quando appare con la rivoluzione industriale il faciendum, che sollecitava la fede cristiana ad essere teologale, il Cristianesimo non solo non ha compreso che è la società a chiedere la sua dimensione specifica di essere “teologale”, ma ha scelto la strada dell’astrazione, sia restando ancorato all’identità della fede religiosa con la fede teologale, sia pensando che il faciendum fosse una realtà priva di dimensione ontologica, un luogo per una pura fede religiosa. Come mai il Cristianesimo si è presentato impreparato alla nuova richiesta della storia, la quale gli chiedeva una risposta che doveva sorgere dal suo interno e non dall’esterno? La risposta è semplice: perché è stato attanagliato dalle due correnti di pensiero, la teologia razionale e la ragione teologica» (p. 59).
Le citazioni potrebbero moltiplicarsi a dismisura e non intendiamo riscrivere per intero il libro del nostro teologo. È importante invece chiarire quale sia in Leuzzi il significato di quel «realismo della Fede» di cui Benedetto XVI sarebbe «maestro» e a cui il Nostro dedica il suo libro: «Realismo della fede significa che il battezzato entra nella nuova creazione che chiede a lui o ai genitori di professare la verità del Dio creatore e salvatore perché essa è una realtà storica da costruire coinvolgendo la propria esistenza» (p. 130). Un ennesimo esempio di equivoco (voluto) di un termine, realismo, il cui significato, nella comune accezione storico-filosofica, è totalmente altro rispetto a quello che Leuzzi vuole farci intendere. In ogni caso, Leuzzi vuol farci credere in sostanza come esista una “terza via” alternativa e di sintesi sia alla metafisica (o teologia razionale, statica e lontana dall’«uomo concreto») che allo storicismo e al soggettivismo agnostico, debolista, che ripiega l’uomo su se stesso. Nonostante le “alchimie lessicali”, infatti, ci sembra di scorgere nelle sue parole l’eco – che sia voluto o meno, in verità, non lo sappiamo – del pensiero di un altro prestigioso intellettuale che abbiamo già avuto il piacere di criticare nel nostro libro già citato, ed è Hans Küng, secondo il quale la verità-credibilità della fede si dà a conoscere mentre il mistero si rivela: «Se invece l’uomo non si chiude in se stesso, ma si apre interamente a una realtà che a sua volta gli si viene aprendo, se non si nega al fondamento, sostegno e fine ultimo della realtà, ma osa offrirglisi, allora, mentre fa tutto questo, riconosce che sta facendo la cosa giusta, anzi, la “cosa più ragionevole di questo mondo”. Infatti, ciò che non si può preventivamente dimostrare o esplicare in termini stringenti, lo si percepisce nell’atto stesso del conoscere riconoscendo (…), in cui la realtà si manifesta nella sua profondità estrema. Il suo fondamento, sostegno e fine ultimo, la sua origine, il senso e il valore supremo si dischiudono all’uomo non appena l’uomo stessa accenna a dischiudersi» (Hans Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, pp. 73-74). Chiediamo a Küng: come si fa a riconoscere il Mistero mentre si rivela? Se è per intuizione del Mistero stesso, questo è contraddittorio all’impossibilità di intuire Dio nella sua essenza; se è per intuizione di manifestazioni che raccontano il Mistero, siamo nell’analogia; se per queste manifestazioni si vuol intendere invece a suggerimenti interiori, mozioni spirituali, che ci inducono a riconoscere una data esperienza come del Dio che si rivela, ebbene siamo in pieno fideismo gnostico, in ogni caso contrario agli insegnamenti magisteriali sull’atto di fede (cfr. Massimiliano Del Grosso, Op. cit., pp. 272-274).
Ora, allo stesso modo, la realtà storico-dinamica, cardine dell’ontologia alla base della teologia di Leuzzi e di cui la Chiesa deve prendere coscienza per una corretta evangelizzazione, può essere: a) o la manifestazione del divenire di ciò che è sostanziale e immutabile in natura, e allora siamo nella metafisica che ha sinora criticato; b) oppure è tutta la realtà e nient’altro, e allora siamo nel razionalismo spinoziano-hegeliano da cui pure ha inteso prendere le distanze, e che in ogni caso è contrario alla fede della Chiesa; c) oppure, infine, è una dimensione che non esclude in ipotesi la stabilità dell’ente, ma che costituisce comunque l’unica dimensione possibile dall’uomo conoscibile della realtà e oltre la quale non si può andare (neokantismo), e che pertanto, in ambito di Rivelazione, induce a pensare ad una realtà-in-sé (Dio) come causa del manifestarsi (i segni che ce lo farebbero “intuire”) solo all’interno di una opzione fideistica (che pure Leuzzi ha contestato).
Appare perciò dal testo di Leuzzi un’anima filosofica sicuramente “moderna” e proprio per questo piena di contraddizioni logiche, di ingenuità ontologiche, di equivoci lessicali, che solo il buon sentimento missionario può indurre il nostro teologo a supporre che tutto questo possa validamente avvicinare l’«uomo moderno» ad una proposta evangelica per via di pericolanti impalcature paralogistiche. Quell’entusiastico appello finale – «Il futuro del Cristianesimo è tutto qui: annunciare la fede teologale ed educare a viverla nella storia!» (p. 162) – sulla base di simili presupposti confessiamo che ci ricorda un po’ quel “sol dell’avvenir” la cui alba, per decenni cantata, non si è mai levata. Preferiamo piuttosto – in linea col Magistero della Chiesa, certo, ma anche con un diverso modo di ragionare – pensare (e in tal linea da anni si sta agendo) come il pensiero metafisico, sulla base del senso comune, possa ancor oggi costituire un serio e valido contributo alla ricerca della verità e a quella nuova evangelizzazione di cui ogni cristiano è chiamato ad essere apostolo.
Direttore SEFT
http://www.formazioneteologica.it/lontologia-storico-dinamica-leuzzi-lequivoco-teologico-512.html
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