“Mamma, mamma, che cos’è una lesbica?”. La mamma di Pierino ha un attimo di smarrimento, vacilla, cerca di organizzare la risposta, ma per prima cosa chiede al suo bambino: “Dove hai sentito quella parola? Al telegiornale, a scuola o forse al campo sportivo?”. “No mamma: l’ho letta su Famiglia Cristiana”. Al che la povera genitrice corre in soggiorno a sfogliare la gloriosa rivista cattolica dal nome rassicurante. E qui la povera donna scopre, con sgomento, che Pierino dice la verità. Perché nel numero 2 di Famiglia Cristiana di quest’anno, 13 gennaio, sulla terza di copertina campeggia una pagina di pubblicità ideata dal Dipartimento delle Pari opportunità e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Una pubblicità nella quale si vedono le foto di tre sconosciuti, accompagnate dalla seguente didascalia: “alto”, sotto il primo personaggio; “lesbica” sotto la seconda; “rosso” sotto al terzo, che ha effettivamente i capelli rossi. Segue slogan perentorio: “E non c’è niente da dire”. Segue spiegazione per i più duri di comprendonio: “Sì alle differenze. No all’omofobia”.
A questo punto io capisco benissimo che i lettori si stropicceranno gli occhi, e si metteranno a rileggere questo articolo dall’inizio, pensando di avere avuto un’allucinazione. Ma purtroppo è tutto vero: se portate in casa vostra Famiglia Cristiana, preparatevi a dover spiegare al pupo che cos’è una lesbica o un gay, preparatevi a tenere seminari serali per chiarire il concetto di omofobia, preparatevi a insegnare con pugno di ferro a tutta la prole, e ovviamente anche al genitore numero due (l’uso di parole come moglie o marito potrebbero essere considerate sintomo di omofobia), che intorno a questo tipo di diversità “non c’è niente da dire”.
Ormai anche i più duri di comprendonio l’hanno capito: è partita la più colossale campagna mediatica, ideologica, politica e legislativa di tutti i tempi per trasformare a livello planetario ciò che è anormale in normale, ciò che non è naturale in naturale, ciò che non è fisiologico in fisiologico. Più o meno tutti sanno che la dottrina della Chiesa si oppone a questo disegno di pervertimento dell’ordine naturale. Più o meno tutti sanno che a un vescovo, quello di Trieste, è stato impedito di uscire di casa da un gruppetto di facinorosi semplicemente perché monsignor Crepaldi dice la verità intorno alla sessualità umana. Più o meno tutti sanno che queste sono le prime avvisaglie delle persecuzioni che i cattolici subiranno se non accettano supinamente di omologarsi al “pensiero gaio”.
Dunque fa un certo effetto scoprire che un giornale formalmente cattolico come Famiglia Cristiana, per altro dietro compenso economico, metta in pagina una pubblicità che riassume proprio la “visione del mondo” dell’ideologia omosessualista. Un’ideologia che per altro ha ben poco a che fare con le persone in carne e ossa che vivono questa condizione. Un’ideologia che persegue un obiettivo di tipo culturale e giuridico: eliminare le categorie uomo-donna e rimpiazzarle con un soggetto senza identità definita che trae la sua sessualità non dalla sua natura e dalla sua corporeità “data”, ma dalla sua volontà arbitraria.
Qui non c’entra nulla il rispetto dovuto a ogni essere umano. Qui c’è in gioco la ragione: perché bisogna insultare la ragione per far credere che essere lesbica sia la stessa cosa che avere i capelli rossi o essere alto. Prima ancora che addentrarsi sul terreno accidentato del giudizio morale, qui si tratta di un banalissimo riconoscimento di un fatto antropologico: chiunque sa che i comportamenti o anche solo le tendenze che afferiscono alla sfera sessuale hanno un impatto sulla persona ben diverso dal colore dei capelli.
Ma se poi dal piano naturale ci spostiamo a quello soprannaturale, e ci lasciamo illuminare dalla Rivelazione e dalla dottrina cattolica, beh, allora l’infortunio di Famiglia Cristiana assume proporzioni imbarazzanti.
Che cosa penserebbe don Giacomo Alberione, fondatore della Società di San Paolo, imbattendosi in quella pubblicità dentro a una rivista del suo ordine religioso? Stiamo parlando di quel Beato Alberione che nel 1941, a proposito della “formazione dei nostri aspiranti alla vita religioso-sacerdotale” scriveva che “nei casi anormali di complicità con giovani, ragazzo o compagni, sarebbe follia tentare ancora una prova... anche perché i peccati contro natura, gridano vendetta presso Dio e privano di molte grazie”. Davvero singolare: la rivista dei paolini che pubblica una pubblicità che comporterebbe la condanna come “omofobo” del loro stesso fondatore. Il quale – da vero cattolico – insegnava che si deve “combattere l'errore o il peccato, non l'errante o il peccatore”. Ma che non avrebbe mai trasformato un disordine morale in una normalità per decreto statale, tanto per compiacere il peccatore. Né avrebbe usato le riviste del suo ordine – quelle che una volta si chiamavano “buona stampa” - come “taxi a pagamento” per idee contrarie alla dottrina cattolica e alla verità sull’uomo.
Senza dimenticare che don Alberione volle per la sua famiglia il nome dell’apostolo delle genti, quel Paolo di Tarso che nella prima lettera ai Corinti scrive questo terribile ammonimento: “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio.” Prima che nascesse il “politicamente corretto”, si parlava così.
Insomma, quella pubblicità su Famiglia Cristiana è una brutta pagina di omologazione al pensiero unico dominante, è il simbolo dell’accettazione acritica di un messaggio che è sbagliato nei contenuti e nello stile, e – diciamocelo fuori dai denti – anche una brutta prova di cinismo verso il vasto pubblico dei propri lettori. Verso tutte quelle mamme di Pierino che una famiglia cristiana continuano a pensarla con marito, moglie e figli. E che hanno vissuto benissimo per decenni senza discettare di lesbiche, gay e omofobia.
La nuova Bussola Quotidiana 04-02-2013
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