La Chiesa di Roma è dipinta dai media come un museo degli orrori. Nel passato capitò anche di peggio. Ma cinquecento anni fa un papa fece il miracolo, che oggi tutto il mondo ammira. Una lezione per l'imminente conclave
di Sandro Magister
ROMA, 25 febbraio 2013 – Alcuni giornali in questi giorni gareggiano nel diffondere un ritratto della Chiesa a tinte fosche. Tutta intrighi, avidità, tradimenti, morbosità sessuali. Benedetto XVI si sarebbe arreso, travolto da questa abiezione. Che avrebbe infettato anche il collegio cardinalizio chiamato a eleggere il successore.
È una narrazione, questa, che deliberatamente oscura la vera identità del pontificato che sta per finire e la posta in gioco della scelta del nuovo papa. Ci prova, ma non ci riuscirà. Perché in gioco sono il destino della civiltà umana come la vita di ogni singolo uomo. I discorsi di Benedetto XVI a Ratisbona, ai Bernardins, al Bundestag, le sue omelie, il suo magistero hanno aperto un confronto tra la Chiesa e il mondo moderno di portata storica, sulle questioni ultime, fondanti, che è impossibile accantonare.
Cinquecento anni fa esatti, proprio in questi giorni, moriva Giulio II, il papa che chiamò Michelangelo ad affrescare il soffitto della Sistina, la cappella nella quale i cardinali si chiuderanno tra breve ad eleggere il nuovo papa.
Anche allora la Chiesa romana era piena di peccati e di peccatori, era la Babilonia descritta con orrore da Martin Lutero.
Prima di Giulio II aveva regnato Alessandro VI, al secolo Rodrigo de Borja, il cui figlio Cesare aveva ispirato "Il Principe" a Machiavelli. E lo stesso Giulio II era uomo d'arme, che ancora avanti negli anni, con la spada in pugno, muoveva all'assalto della fortezza della Mirandola.
Eppure, quando affrontò la morte, il 21 febbraio del 1513, le cronache lo descrissero "con tanta devotione et contrizione che pareva un santo".
Eppure, oltre alle campagne militari e alle trame politiche per assicurare alla Chiesa romana autonomia e libertà dalle potenze dell'epoca, papa Giuliano della Rovere fu portatore di una visione teologica e sapienziale grandiosa, di una inaudita sintesi tra la fede cristiana e la civiltà classica, tra "fides" e "ratio", meravigliosamente infusa in capolavori d'arte che oggi il mondo intero ammira stupito.
Di papa Giulio II è questo che resta. È questa la sua vera identità, il suo messaggio immortale.
A questo papa, nel giorno anniversario della morte, il 21 febbraio, "L'Osservatore Romano" ha dedicato un'intera pagina, aperta da un suo avvincente ritratto scritto da Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani.
Perché anche i Musei Vaticani, nel loro nucleo iniziale, furono geniale invenzione di Giulio II. Con le statue antiche fatte collocare nei giardini del Belvedere dal suo architetto di fiducia, il Bramante. Con le stanze dell'appartamento papale fatte affrescare da Raffaello, con vista sugli stessi giardini.
Ripercorrere la progettazione e la nascita di questo primo nucleo dei Musei Vaticani significa aprire lo sguardo su una visione che pochi conoscono appieno, ma che è tuttora di eccezionale portata. E di straordinaria attualità, coincidente com'è con le linee maestre del pontificato di Benedetto XVI.
Sabato 23 febbraio, nel concludere gli esercizi spirituali, papa Joseph Ratzinger è tornato ancora una volta proprio sul legame a lui carissimo tra la ragione e l'arte, tra la verità e la bellezza, pur contraddette "dal male di questo mondo, dalla sofferenza, dalla corruzione":
"I teologi medievali traducevano la parola ‘logos’ non solo con ‘verbum’, ma anche con ‘ars’: ‘verbum’ e ‘ars’ sono intercambiabili. Solo con queste due parole insieme appare, per i teologi medievali, tutto il significato della parola ‘logos’. Il ‘logos’ non è solo una ragione matematica; il ‘logos’ ha un cuore: il ‘logos’ è anche amore. La verità è bella e la verità e la bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità".
Per penetrare in questa visione con sguardo ampio – che da Giulio II arriva a Benedetto XVI – non resta che leggere lo scritto che segue, anch'esso ripreso da "L'Osservatore Romano" del 21 febbraio e qui in versione più estesa.
L'autrice è storica dell'arte e specialista del tema. Ha pubblicato presso l'Accademia dei Lincei un saggio sull'opera di Giuliano della Rovere.
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IL SEGNO INDELEBILE LASCIATO DA QUEL PAPA
di Sara Magister
Seguiamo i passi di un viaggiatore di cinquecento anni fa. Fin nel suo lontano paese era giunta la fama del giardino di statue antiche creato in Vaticano da papa Giulio II (1503-1513). Percorsa l’Italia, aveva attraversato il Tevere su ponte Milvio, che ancora risuonava d’epiche battaglie. La sua meta era preceduta da una vasta area solitaria, verde dei prati che la rivestivano. Ed ecco profilarsi sull’alto del colle Vaticano la sagoma merlata e austera della villa del Belvedere.
Al suo lato c'era, in una monolitica torre, l’accesso voluto da papa Giulio per favorire le visite alla sua collezione, senza essere disturbato nei suoi appartamenti pontifici. Non c’era nulla che lasciasse presagire le meraviglie al suo interno, ma, varcata la soglia della torre, ecco la prima sorpresa: la sua base quadrata si trasformava nell’inaspettato cerchio della rampa elicoidale ideata dal Bramante, l’architetto del papa. Ancora di più dovevano colpire il classicismo arioso delle colonne che ne ritmavano l’ascesa, e l’inedito dinamismo della struttura. Dalla loggia aperta nella sua parte più alta, poi, la sensazione doveva essere davvero quella di dominare con lo sguardo l’intera città di Roma.
Qui era il piano del giardino, ma la sua vista era ancora nascosta dalla porta d’ingresso, su cui campeggiava un’iscrizione dal tono severo, tratta dall’Eneide di Virgilio (VI, 258): "Procul este prophani", state lontani, o profani! Erano le parole dette dalla Sibilla ad Enea, all’ingresso di questi negli inferi, e per papa Giulio II significavano che solo chi ascoltava e si muoveva con rispetto, come in un luogo sacro, poteva procedere oltre.
Ed ecco svelarsi la meta agognata, e sopraggiungere il culmine dell’emozione. All’improvviso appariva un luminoso giardino segreto, al cui centro spiccavano alberi di aranci amari, i melangoli, disposti in file ordinate lungo una pavimentazione di cotto. Nel 1510 gli ambasciatori della corte di Ferrara avevano visto il temibile Giulio II piantare quegli alberi con le sue stesse mani, e per tutto il tempo della loro udienza. Il muro che circondava il giardino era ritmato da nicchie ricavate nel suo spessore, abitate da splendide statue antiche. Dall’ingresso a nordest si intravedeva subito, tra gli alberi, la parete sud del cortile, al cui centro spiccavano le opere più belle: il Laocoonte, tra l’Apollo del Belvedere e la Venus Felix. In mezzo al cortile era l’effigie sdraiata del Fiume Tevere e in un angolo la statua di Arianna dormiente, a mo’ di fontana.
Su tutto regnava il silenzio, riempito solo dal suono dell’acqua e dal fruscio delle fronde, e il profumo inebriante dei melangoli completava il coinvolgimento dei sensi. La percezione di essere in un luogo speciale, dove il tempo e lo spazio scorrevano con ritmi diversi da quelli quotidiani, doveva essere molto chiara, se nell’agosto del 1512 Pico della Mirandola paragonerà questo inusuale giardino al “boschetto di Venere e Cupido”. Per un toscano e filosofo neoplatonico del suo livello era inevitabile il pensare al giardino d’aranci, abitato dalle immagini degli antichi dei, della "Primavera" di Botticelli.
Ma quando, durante i banchetti che lì si tenevano, le parole dei poeti riempivano il silenzio, e le statue, come vive, svelavano il motivo della loro presenza, allora prendeva corpo davvero la percezione che era rinata la grande civiltà degli antichi, e che questo miracolo avveniva proprio e solo qui: nel seno più intimo e sacro della Chiesa di Roma, accanto alla tomba dell’apostolo Pietro.
Ora spostiamoci nell’appartamento pontificio di quegli anni. Lo studio di papa Giulio II sarà poi chiamato la “Stanza della Segnatura”. Qui c'era anche la sua piccola biblioteca privata, dai cui si intuisce che egli già cinquecento anni fa sosteneva che la scienza e la fede fossero l’una l’integrazione dell’altra, e che ogni altra forma d’espressione, come la poesia e la bellezza, fossero vie privilegiate per la conoscenza di Dio, che ci ha donato la "mens" e la "ratio", la capacità intuitiva e quella razionale, e che ci ispira in ogni forma d’arte. Ed è ciò che Raffaello, dietro il preciso dettato di Giulio II, aveva tradotto in immagini in quella stanza, con un nitore formale e concettuale formidabile.
Seduto al tavolo del suo ufficio, nei momenti di pausa il pontefice alzava gli occhi verso la parete di fronte. Raffaello aveva qui dipinto attorno alla finestra il monte Parnaso, il regno di Apollo, delle Muse e dei poeti. Da qui Giulio II contemplava uno dei suoi grandi progetti che Bramante stava mettendo in atto: il monumentale giardino terrazzato del Belvedere, definito dal papa "Hortus", nell’intento di ricreare in Vaticano gli antichi "Horti Romani". Erano questi i giardini dove i notabili passavano il loro tempo libero, in una natura allietata da fontane, statue antiche, portici e padiglioni per banchetti e recite poetiche e teatrali. Ed era anche il contesto ove, già nel Quattrocento, si cercava di rivivere l’antico ideale dell’"otium" letterario, come alternativa di riposo alle fatiche quotidiane del "negotium". Ma nessuno, prima di Giulio II, era riuscito a ricreare gli antichi giardini dell’"otium" in una scala così grandiosamente complessa, inedita, e funzionale. Alla loro sommità era la villa del Belvedere, costruita da papa Innocenzo VIII (1484-1492), il cui lato sud era stato ampliato da nuove strutture, come il gigantesco nicchione a mo’ di fontana, e l’Antiquarium, la designata sede della prima collezione vaticana, oggi denominato "Cortile Ottagono".
Nella storia della museografia, l’Antiquarium è tra i primi spazi costruiti "ex novo" per ospitarvi una collezione di opere antiche, in un contesto allietato da alberi e fontane e con finalità più o meno pubblica. Ma qual era il suo significato, per papa Giulio II?
Torniamo nuovamente nelle sue stanze, e sediamoci al suo tavolo da lavoro. La risposta è ancora una volta là, nella parete di fronte. Attraverso la finestra aperta, la vista dei giardini del Belvedere seguiva il loro andamento terrazzato, fino a fermarsi nella parte più alta, dove Bramante aveva dato forma al Cortile delle Statue. Ed ecco che lo sguardo del pontefice si andava a incrociare con l’immagine del monte Parnaso, dipinta su quella parete da Raffaello. E proprio così doveva essere, perché agli occhi del papa i due luoghi, il dipinto e il reale, coincidevano.
L’Antiquarium era stato concepito come lo scrigno della poesia e dell’arte. Non è un caso che la statua dell’Apollo del Belvedere, il dio delle arti, era tra i suoi principali protagonisti, e chi visitava un luogo così speciale doveva necessariamente portare un rispetto sacrale. Di contro a quello che ci si aspetterebbe, la collezione di Giulio II contava pochissime statue, pare meno di dieci, quando altre collezioni romane dell’epoca ne avevano fin oltre novanta. Ma la qualità di quella vaticana era insuperabile, perché si era formata non per un accumulo spasmodico per pura brama di possesso personale, ma come frutto di una scelta severissima, diluita nel tempo, e anche molto favorita dalla Provvidenza.
Già quand’era cardinale, d’altra parte, Giuliano della Rovere era riuscito ad aggiudicarsi quella che da molti era reputata la più bella statua dell’antichità, l’Apollo del Belvedere, rinvenuta pressoché intatta nel febbraio del 1489 in una vigna sopra Santa Pudenziana a Roma.
Da pontefice, il 14 gennaio del 1506 in un terreno privato vicino a Santa Maria Maggiore era poi avvenuta la scoperta più sensazionale del Rinascimento: quella del Laocoonte. Le cronache dell’epoca raccontano della folla immensa di curiosi accorsa in quel luogo: “Tutta Roma die noctusque concorre a quella casa che lì pare el jubileo”. Giulio II aveva mandato sul posto Giuliano da Sangallo e Michelangelo, che avevano riconosciuto il Laocoonte citato nel I sec. d.C. da Plinio il Vecchio come l’opera più bella dei suoi tempi. Offrendo una somma tale da far impallidire la concorrenza, il papa aveva fatto del Laocoonte la prima statua antica che abbia varcato la soglia dei nuovi palazzi pontifici oltre il Tevere. Nelle motivazioni avanzate nel documento d’acquisto dell’opera, si esplicita che essa era segno evidente della "majestas et gratia Romanorum", dove per "gratia" si intende il recupero umanistico dell’antico ideale che vede nella bellezza estetica lo specchio delle qualità morali dell’effigiato. Siamo nella primavera del 1506, tre anni dopo l’elezione a pontefice di Giulio II.
Ma da tempo il papa stava preparando il terreno per il futuro arrivo della sua collezione, sulla quale aveva idee più che chiare, avendole sperimentate da cardinale nella sua residenza presso la chiesa dei Santi Apostoli. È noto, ad esempio, che già nel 1505 Bramante era all’opera per predisporre le condutture per le statue-fontana dell’Antiquarium, anche se queste vi giungeranno solo nel 1512.
Ma una scelta felice richiede tempo, pazienza e fede. Solo nel maggio del 1507 arriva la seconda opera: l’Ercole e Telefo, trovata intatta vicino a Campo de’ Fiori. Finalmente nell’ottobre del 1508 il papa porta dai Santi Apostoli l’Apollo del Belvedere, e forse anche il frammentario Ercole e Anteo e la statua di Venere e Cupido, detta Venus Felix. L’Arianna addormentata, all’epoca intesa come Cleopatra morente, ci risulta come l’unica statua acquistata, e non per pochi denari, da un’altra celebre collezione, quella dei Maffei, e già nell’agosto del 1512 ornava una fontana, la cui acqua ricadeva in un antico sarcofago istoriato. La statua del Fiume Tevere fu anch’essa portata in Vaticano nel febbraio del 1512, poco dopo il suo rinvenimento presso la chiesa di Santa Maria sopra Minerva.
Questo è quanto si può per ora ricostruire del primo nucleo della collezione vaticana. E questi sono ancora oggi considerati i capolavori antichi dei Musei Vaticani, nonostante il milione di altri pezzi sopraggiunti nei secoli successivi.
Che cosa ha dettato una scelta così felice? La critica è ormai concorde nel sostenere che essa è avvenuta anche per far raccontare alle statue una storia in forma poetica. La collezione di Giulio II funzionava, infatti, come una sofisticata allegoria mitologica, basata sulla poetica di Virgilio. D’altra parte era ciò che avvertiva l’iscrizione posta all’ingresso del cortile, tratta dall’Eneide. Le sue statue erano viste come degli attori, in uno spazio che volutamente somigliava a quello di una scenografia di teatro, i cui significati simbolici venivano attivati e dichiarati ogni volta che i poeti le facevano recitare.
Si raccontava quindi la storia della chiamata di quel pontefice alla missione di restituire alla città e alla Chiesa di Roma la loro centralità universale. Così come gli antichi dei avevano investito l’imperatore Cesare Augusto della missione di portare a Roma una nuova età dell’oro, ora, dopo secoli di crisi, la Provvidenza aveva chiamato un nuovo Iulius, per restituire a Roma la sua gloria antica, e per farne il fulcro radiante di una nuova era di pace, ordine, prosperità e, soprattutto, di civilizzazione. E non si trattava di vuote parole, perché ciò stava realmente accadendo nel seno più intimo e sacro della Santa Sede, accanto alla tomba di Pietro, dove, visitando l’Antiquarium, si poteva vedere, ascoltare, toccare con mano, persino sentire il profumo, della rinascita dell’universalità dell’"imperium" e della civiltà dei romani.
Giulio II, un uomo d’azione che aveva il dono di una fede molto profonda, si sentiva realmente investito da Dio di questa missione, fin da quando era cardinale. Già vent’anni prima della sua elezione a pontefice, infatti, egli aveva usato l’arte antica come allegoria dei suoi progetti universali per la rinascita della Chiesa di Roma. Solo nella sua collezione cardinalizia, infatti, possiamo riconoscere un precedente di una tale rivoluzionaria organicità di intenti e modalità espressive, e di una tale universalità di messaggio. Perché Giulio II, di contro alle ingiuste accuse di megalomania, è stato un uomo che ha voluto mettere tutti i suoi talenti a frutto della Santa Sede e proprio a questa ha voluto lasciare in eredità il suo operato.
Non tutti hanno compreso appieno, o accettato, i messaggi che Giulio II ha espresso in questo meraviglioso scrigno dell’arte antica. Ma il suo segno lo ha lasciato, ed è così indelebile e di una tale potenza da attrarre ancora oggi, come allora, milioni di viaggiatori provenienti da ogni parte del mondo.
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