Nell’ambito della rubrica che questo sito [Formazione teologica]dedica all’ermeneutica del Concilio, proponiamo questo penetrante articolo di don Antonio Ucciardo, che sofferma la propria attenzione sul modo con cui si è diffusa quella ermeneutica della discontinuità ripetutamente condannata dal Magistero post-conciliare (sono infatti citati opportunamente Paolo VI, Benedetto XVI ed altri importanti documenti come la Dichiarazione Dominus Iesus).
Ucciardo mostra come, nel corso di questo cinquantennio, accanto all’unica voce che conta, quella appunto del Magistero, si siano affiancate più voci, che nei loro toni esasperati hanno tentato (e tentano) di soffocare la vera fede cattolica.
Ma teniamo ben presente quanto diceva un dottore della Chiesa, san Cirillo di Gerusalemme, in una delle sue catechesi: «Ricordate che aver fede significa far fruttare la moneta che è stata posta nelle vostre mani. E non dimenticate che Dio vi chiederà conto di Ciò che vi è stato donato. “Vi scongiuro”, come dice l'Apostolo, “al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose, e di Cristo Gesù, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato” (1 Tm 6, 13), conservare intatta fino al ritorno del Signore nostro Gesù Cristo questa fede che vi è stata insegnata. Ti è stato affidato il tesoro della vita, e il Signore ti richiederà questo deposito nel giorno della sua venuta».
(Giovanni Covino)
di Antonio Ucciardo
Se guardiamo al cinquantennio trascorso dal Vaticano II, non possiamo fare a meno di chiederci come la cosiddetta ermeneutica della discontinuità abbia potuto imporsi nella Chiesa. Intendiamo dire che essa, lasciate le discussioni meramente teologiche, è diventata, in massima parte, una prassi.
Con amplissima frequenza, la pastorale e la catechesi non ufficiale sembrano riflettere i princìpi di questa interpretazione del Concilio più che il senso genuino dei documenti. E questo è davvero singolare, considerando che la maggioranza dei fedeli non ha frequentato corsi teologici, non ha letto opere di esperti, non sa forse nemmeno cosa sia un’ermeneutica della discontinuità. In senso lato si può dire, come è stato più volte richiamato, che il cosiddetto spirito del Concilio si è imposto sulla corretta ermeneutica del Concilio, o che un paraconcilio ha finito per soppiantare il vero Concilio. Com’è potuto accadere?
Tutto ciò ha richiesto la creazione di un vocabolario comune, ma si deve spiegare in qual modo esso sia stato proposto e diffuso. Anche gli incontri di formazione, tutto sommato, riguardano una parte esigua dei fedeli, nonostante il lodevole incremento che si è registrato a partire proprio dal Vaticano II. È chiaro che qui non discutiamo sulle opportunità che si sono offerte, ma sul metodo impiegato, benché a volte si abbia l’impressione che la nostra fede sia diventata un convegno permanente. Riunioni, incontri, assemblee, omelie, momenti di preghiera e di spiritualità, insomma, hanno contribuito a diffondere i termini del vocabolario, ma ciò non basta a spiegarne la diffusione capillare.
Termini quali comunione, corresponsabilità, servizio, promozione umana,sacerdozio comune, profezia, regalità, partecipazione attiva, appartengono ormai al linguaggio comune, ma non sempre riflettono il senso con cui li intende la Chiesa. Anzi, quello che risalta è, appunto, la divergenza tra il significato ufficiale, così come risulta dai documenti e dalle interpretazioni magisteriali, e il significato corrente.
Ma a noi qui interessa il modo in cui tutto questo abbia potuto estendersi, non la fonte da cui sia derivato. E non perché non sia importante comprendere le origini di questo processo, che in verità conosciamo bene, ma perché le ipotesi teologiche non hanno mai influito in modo determinante sulla vita dei fedeli e sulla fede da loro professata. Non almeno con l’ampiezza e con il vigore di questi ultimi decenni, tanto più che si tratta di ipotesi che sono in conflitto con l’interpretazione della Chiesa e che non possono, perciò, essere paragonate a processi analoghi registrati in epoche diverse.
Ciò che esprime la fede, anche da un semplice punto di vista esteriore, è la liturgia. Nessun osservatore potrebbe percepire la singolarità del cattolicesimo guardando soltanto le sue diverse componenti. Nessuno potrebbe trovarne la ragione unificante prescindendo dalla liturgia. Tutto il resto può apparire comune agli altri cristiani, alle altre religioni e persino a tanti uomini che si sforzano di praticare una giustizia puramente umana. Ma l’idea che al centro di tutto vi sia il rinnovarsi del sacrificio di Cristo e l’adorazione della Sua Presenza nell’Eucarestia, rappresenta propriamente il cuore della fede cattolica. Ciò che essa conserva e trasmette, tanto nella fede quanto nella morale, è la conseguenza di quel sacrificio. Rivelazione, dogmi, sacramenti, Chiesa, carità, preghiera, adozione filiale, vita eterna: tutto ha senso o tutto decade a seconda che quella realtà sia percepita o meno come la realtà che tutto sorregge.
Ciò che esprime la fede, anche da un semplice punto di vista esteriore, è la liturgia. Nessun osservatore potrebbe percepire la singolarità del cattolicesimo guardando soltanto le sue diverse componenti. Nessuno potrebbe trovarne la ragione unificante prescindendo dalla liturgia. Tutto il resto può apparire comune agli altri cristiani, alle altre religioni e persino a tanti uomini che si sforzano di praticare una giustizia puramente umana. Ma l’idea che al centro di tutto vi sia il rinnovarsi del sacrificio di Cristo e l’adorazione della Sua Presenza nell’Eucarestia, rappresenta propriamente il cuore della fede cattolica. Ciò che essa conserva e trasmette, tanto nella fede quanto nella morale, è la conseguenza di quel sacrificio. Rivelazione, dogmi, sacramenti, Chiesa, carità, preghiera, adozione filiale, vita eterna: tutto ha senso o tutto decade a seconda che quella realtà sia percepita o meno come la realtà che tutto sorregge.
Spesso si sente dire che la riforma della liturgia avrebbe determinato la crisi della fede e dell’identità cattolica. Non è affatto così. È più corretto dire che la riforma è stata usata per far penetrare nel tessuto della Chiesa, proprio attraverso ciò che la qualifica e la esprime anche visibilmente, le idee che in quell’ermeneutica hanno trovato la propria espressione. Quale migliore occasione di quella che avrebbe richiesto, e per un tempo non breve, spiegazioni ampie e particolareggiate? Con ciò non intendiamo dire che la riforma stessa non sia scevra di elementi che andrebbero purificati.
Il Card. Ratzinger aveva richiamato, con autorevolezza di contributi, i limiti di alcune proposte, nonché l’abbandono radicale di alcuni elementi costitutivi della liturgia, così come si era sviluppata nel corso del tempo. I suoi interventi di carattere teologico sono abbastanza noti. Meno conosciute appaiono le sue ripetute prese di posizione in occasioni diverse. Così, per esempio, si esprimeva in un intervento alla Conferenza Episcopale Cilena, il 13 luglio 1988:
«Se ci sono molti motivi che potrebbero condurre tantissima gente cercare un rifugio nel liturgia tradizionale, quello principale è che trovano conservato la dignità del sacro. Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che hanno elevato deliberatamente la “desacralizzazione” a livello di un programma, sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo del tempio che è stato strappato dall’alto al basso al momento della morte di Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo nella non sacralità della vita quotidiana, nell’amore che è vissuto. Ispirati da tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al sacro; ed hanno ridotto il liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili».
La riforma che egli intende adesso portare avanti nel suo pontificato, riprende quegli argomenti e li sviluppa in una catechesi incessante sulla liturgia. Si tratta di ricomprendere il mistero della Chiesa alla luce dell’evento che la costituisce, con tutto ciò che ne consegue anche ad un livello più pastorale, sia nei contenuti che nelle modalità di espressione.
Una seconda considerazione deriva da alcune parole del Ven. Paolo VI proprio a riguardo della “confusione” liturgica:
«Questo disordine, che pur troppo si avverte qua e là, reca pregiudizio grave alla Chiesa: per l’ostacolo che oppone alla disciplinata riforma qualificata e autorizzata da lei; per la nota stonata che introduce nella armonia formale e spirituale del concerto della preghiera ecclesiale; per il criterio religioso soggettivista, che alimenta nel Clero e nei Fedeli; per la confusione e la debolezza che genera nella pedagogia religiosa delle comunità: un esempio né fraterno, né buono. Pretesto a tale arbitrio può essere il desiderio d’avere un culto modellato sui propri gusti, un culto più compreso e più aderente alle condizioni di chi vi partecipa, quando perfino non si pretenda di esprimere un culto più spirituale (...) Vorremmo esortare le persone di buona volontà, Sacerdoti e Fedeli, a non indulgere a questo indocile particolarismo. Esso offende, oltre la legge canonica, il cuore del culto cattolico, ch’è la comunione: la comunione con Dio, e la comunione con i fratelli, della quale è mediatore il Sacerdozio ministeriale autorizzato dal Vescovo. Tale particolarismo tende a fare la “chiesola”, la setta forse; a staccarsi cioè, dalla celebrazione della carità totale, a prescindere dalla “struttura istituzionale” (come ora si dice) della Chiesa autentica, reale ed umana, per illudersi di possedere un cristianesimo libero e puramente carismatico, ma in realtà amorfo, evanescente ed esposto “al soffiare d’ogni vento” (cfr. Eph. 4, 14) della passione o della moda, o dell’interesse temporale e politico» (Catechesi all'Udienza del 3 settembre 1969).
Due ordini di ragione, quindi: la desacralizzazione e la creazione di chiesole, conseguenti all’idea di un cristianesimo puramente carismatico.
Ora, è evidente che un processo simile non avrebbe avuto in se stesso la capacità di penetrare intimamente il tessuto del cattolicesimo. Oltre che il riferimento ad una lettura distorta del Concilio, occorreva che la società stessa offrisse i parametri per l’affermazione di un cristianesimo carismatico. Così, in modo assolutamente paradossale, la prassi dell’ermeneutica ha finito per trarre beneficio dall’affermazione imperante del relativismo. Senza dover pensare eccessivamente all’epilogo dei nostri anni, con la libertà del singolo elevata a metro di giudizio della società e dei sistemi legislativi, non possiamo ignorare le ripercussioni che si sono avute in ambito ecclesiale. Lo stesso Magistero ha dovuto prenderne atto in misura crescente, fin dal pontificato di Paolo VI. L’epilogo dottrinale è rappresentato indubbiamente dalla Dichiarazione Dominus Iesus (6 agosto 2000), posta ad argine della relativizzazione della figura stessa di Gesù e della sua missione salvifica.
Desacralizzare significa privare di sacralità qualcosa. Il primo ambito di quest’opera non poteva non riguardare la Verità rivelata da Dio e trasmessa dalla Chiesa. La crisi della fede non ha innanzitutto spiegazioni esterne, per quanto la società sia secolarizzata ed il relativismo abbia fatto breccia nella Chiesa. Essa ha per lo più ragioni meramente intrinseche, poiché l’annuncio della fede ha ceduto il posto, molto spesso, ad una esasperante proposta di impegno per l’uomo. Anzi, si direbbe che la sacralità sottratta al rapporto con Dio e alla sua gloria, sia stata riversata sull’uomo; una Rivelazione spogliata dei suoi elementi trascendenti ed escatologici a favore di un impegno storico e mondano.
Dobbiamo chiederci cosa occorra fare. Dobbiamo chiederci perché l’azione di Benedetto XVI - tanto per rimanere ai nostri giorni - non riesca ad imporsi con il vigore e la chiarezza del suo magistero. A mio giudizio, la resistenza deriva non tanto dall’indifferenza dei cattolici, quanto dalla persistenza nella Chiesa delle mille chiesole che in questi anni si sono conquistate la simpatia del mondo. Se si vuole ricondurre la prassi dell’ermeneutica della rottura alla piena comunione ecclesiale, bisogna prendere atto, a livello periferico, dei contraltari eretti di fronte alla voce della Tradizione e del Magistero. Fino a quando le voci isolate continueranno a proporre magisteri alternativi, non potremo venirne fuori con facilità. Il Signore non mancherà certamente di donare la sua grazia in questo Anno della Fede. Ma diverse ragioni inducono a ritenere che, terminate le celebrazioni, la prassi dell’ermeneutica della discontinuità non cesserà di proporsi come la sola espressione di un cattolicesimo al passo con i tempi.
http://www.formazioneteologica.it/la-prassi-ermeneutica-discontinuita-510.html
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