di Sandro Magister
Su ilsussidiario.net il professor Pietro De Marco ha commentato la conversazione tenuta da Benedetto XVI ai preti di Roma il 14 febbraio.
È stata una conversazione tutta dedicata al Concilio Vaticano II, su cosa esso è stato e su come è stato interpretato, nel bene e nel male.
Il papa ha criticato, in particolare, quel Concilio “virtuale”, messo in atto sui media, che ha influito sia durante il Vaticano II sia dopo, facendo da schermo deformante al Concilio vero.
È impressionante la similitudine tra questa analisi del papa e quella condotta quattro mesi fa da De Marco su www.chiesa sul “paradigma esterno” che ha ampiamente fuorviato l’interpretazione e l’applicazione del Concilio.
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“LAVORARE PERCHÉ IL VERO CONCILIO SI REALIZZI”
di Pietro De Marco
Una tempestiva trascrizione permette ora di leggere per intera la “piccola chiacchierata” rivolta da Benedetto XVI al clero romano il 14 febbraio in Aula Nervi. Le anticipazioni della stampa avevano sottolineato un’affermazione netta del papa, secondo cui mentre i Padri conciliari erano chiusi nella basilica di San Pietro, si svolgeva a Roma anche “un Concilio dei media, un Concilio quasi per sé. E tramite i media è arrivato al popolo non quello dei Padri, che era il Concilio della fede che cerca la parola di Dio, ma quello dei giornalisti che non si è realizzato nella fede ma nelle categorie dei media fuori della fede”. E “il Concilio virtuale fu più forte di quello reale”.
Tornerò su questo punto, non prima di aver percorso l’arco della memoria che Joseph Ratzinger, vescovo di Roma dimissionario, attinge al Ratzinger allora teologo del cardinale Frings. Dopo aver evocato la nuova coscienza, e volontà, di essere “attori” che investe gli episcopati europei, la cosiddetta “alleanza renana” anzitutto, sull’immediata soglia del Concilio, e li avvia alle prime battaglie sulla procedura, papa Ratzinger percorre di fronte ai suoi preti gli atti fondamentali del Concilio “interno”, quello che si muove “all’interno della fede, come ‘fides quaerens intellectum’”. Dalla liturgia all’ecclesiologia, alla Rivelazione, all’ecumenismo.
L’istanza di teologia liturgica del Concilio e (su questo fondamento) di conseguente “riforma” si fondava, per il papa, nella sensibilità per il primato del “tempo cristiano”, cioè “il tempo espresso nel tempo pasquale e nella domenica”, ereditata dal movimento liturgico. Il tempo cristiano – che, aggiungo, sarà per millenni il tempo della cristianità – inizia con la Resurrezione; e la domenica non è la fine settimana, come nel costume recente, ma la sua “prima giornata, l’inizio”; è “la festa della creazione” e “incontro con il Risorto, che rinnova la creazione”.
Giova sottolineare questo promemoria perché pone l’intento dei Padri su un terreno che (come ho scritto in un lavoro di prossima pubblicazione) sarà devastato da sistematici malintesi, nel corso della posteriore attuazione della “Sacrosanctum concilium”. L’intelligibilità dei testi della liturgia non è (come invece si sarà tentati, spesso, di credere) la loro “banalizzazione”, per garantirne una accessibilità di buon senso. “I grandi testi della liturgia – ha detto il papa – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano. Chi potrebbe dire che capisce subito [un testo liturgico] solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità e partecipazione, che è più di una attività esteriore”.
Così il papa. E il Concilio nella conversazione di Benedetto XVI è, in effetti, tutto un contrappunto di grandezze e incomprensioni, potremmo dire anche di tradimenti della “intentio” conciliare.
L’ampio spazio dedicato dal papa alla discussione ecclesiologica delinea un movimento di cui la mia generazione era ancora ben consapevole, ma altre posteriori (specie teologiche) hanno dimenticato: anzitutto l’innesto della teologia del Corpo Mistico nella ecclesiologia societaria, e la consapevolezza di un “noi” incorporato all’Io di Cristo; poi la discussione sul corpo episcopale, come “continuazione del corpo dei Dodici”; infine l’integrazione dovuta alla nozione di “popolo di Dio”, per cui noi che non siamo l’antico popolo del patto “diventiamo figli di Abramo, quindi popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo”. La nozione di comunione, postconciliare almeno in quanto messa a tema dalla teologia, fa convergere la “nuova” ecclesiologia trinitaria (popolo di Dio, Corpo Mistico, e tempio dello Spirito) verso la comunione sacramentale: eucaristica, gerarchica e totale: la Chiesa nello Spirito Santo. Ma il “noi”, corpo e comunione, è la Chiesa, “non un gruppo che si dichiara chiesa”. Papa Ratzinger è qui chiarissimo nel negare (con riferimento alle forme settarie e militanti del movimento Wir sind Kirche) che il “noi” della incorporazione e della eucaristia sia un noi privilegiato e arbitrario, in antagonismo col corpo totale e gerarchico e con la eucaristia totale della Chiesa. Uno dei tanti tradimenti del Concilio e dell’ecclesiologia di comunione, peraltro fin dai primi anni.
Il denso cenno del papa alla difficile gestazione della “Dei verbum” contiene un elogio dell’opera di Paolo VI per la sua vincolante proposta alla commissione dottrinale di scegliere (liberamente, ma scegliere) tra 14 possibili formule necessarie nel testo della costituzione al chiarimento del nesso tra Scrittura e Tradizione-Chiesa, data la inconcepibilità cattolica di una “Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla Fede [della Chiesa]”.
Qui la tensione critica di Ratzinger è esplicita e produce in noi un’ansia per il futuro: saprà il nuovo papa salvaguardare altrettanto fermamente, e con altrettanta dotazione teologica, la Scrittura dall’abuso di autonomia – estranea all’ermeneutica della “analogia fidei” – dell’esegesi cosiddetta “scientifica”? Una esegesi in realtà al servizio delle teologie riduzionistiche e antidogmatiche serpeggianti nella Chiesa. “Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, mai così importante da poter dare soluzioni come ultima certezza”. Termina seccamente il papa: “Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare”.
Trascorro sulla preziosa sintesi relativa al plesso dei documenti “ecumenici” e, poi, attraverso la “Nostra aetate”, alla “Gaudium et spes”, per sottolineare la diagnosi, mai così esplicita – mi pare – in Ratzinger, di un altro “Concilio” costruito in contemporanea da dibattiti e da categorie “esterne”, come quella che fa del lavoro dei Padri una lotta politica per il potere, per la decentralizzazione, un nuovo potere dei vescovi e del popolo. Furono omaggi alla profanità, e gravi “banalizzazioni del Concilio”, in una “visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave”. Così “il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte di quello reale”. “Mi sembra [però] – termina il papa – che, cinquant’anni dopo, questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale”.
Ho sostenuto (anche in www.chiesa del 18 ottobre 2012) la necessità, storiografica e teologica, di mettere a fuoco il “paradigma esterno” che si costruisce, si diffonde e si affina nella mediasfera, e si consolida e guadagna nuovamente livelli superiori di riflessione (dall’articolo e dalla conferenza al saggio di rivista specialistica, al libro) già nei lunghi intervalli tra le sessioni del Concilio.
Il paradigma esterno, prodotto per il “mondo” e per effetto del “mondo”, diviene un vero e proprio fulcro interpretativo del corpus conciliare, e molti centri internazionali tra i quali quello prestigioso di Bologna, spesso in concorrenza tra loro, tenderanno a darne la propria versione. Anche quando i centri europei della battaglia “conciliare” si saranno estinti, o trasformati e arroccati in posizione difensiva, il paradigma esterno, resosi autonomo, prosegue, magari moderandosi, nella letteratura teologica come nei periodici popolari, nella predicazione come nei libri. Coincide sostanzialmente con ciò che viene invocato come “spirito del Concilio”; la coincidenza è rivelatrice poiché, come la nozione dello “spirito” evoca una distinzione-opposizione con la “lettera” (lo “spirito” precede la lettera, la “anima”, le sopravvive: questo vogliono i luoghi comuni), così in effetti il paradigma esterno sceglie, subito, entro la “lettera” del corpus conciliare ciò che serve alla propria formulazione e affermazione, è canone a se stesso, si perpetua e si estenua come una “traditio” chiusa.
Vi è necessità teologica, dunque, di isolare questo paradigma, perché la presa dei media e dell’opinione pubblica sul Concilio nell’intero arco del suo svolgimento non è solo un dato che la ricostruzione storica non può sottovalutare, ma una componente, una dimensione, decisive, oggi, della nuova ermeneutica conciliare.
“Era un’ermeneutica politica; per i media il Concilio era una lotta politica”, sostiene anzitutto Benedetto XVI. Senza dubbio, e per mia stessa memoria. Ma i media isolavano con cattive categorie – spesso favorite dallo stesso giornalismo e saggismo cattolico militante – qualcosa che avveniva attorno al Concilio nella Chiesa stessa, con altri mezzi e con senso di responsabilità enormemente inferiore rispetto a quello che accompagnò la conflittualità nelle commissioni e nell’aula. La parte che vi ebbe l’intelligencija teologica fu predominante e prevaricante; questo anche spiega perché il Concilio dei media e la sua eredità abbiano prevalso entro molte Chiese del postconcilio, oscurando il Concilio dei Padri.
Il ruolo di Roma è stato vitale nella difesa della Chiesa da questo Concilio degli equivoci, come Benedetto XVI si è all’incirca espresso. Ma abbiamo enormemente contato in questi anni sulla sua opera di contrapposizione e rischiaramento! Su cosa possiamo contare, ora, se non su quel “sarò sempre con voi” e su quel “vince il Signore!” con cui ha voluto terminare?
Firenze, 15 febbraio 2013
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