Moretto da Brescia, «La Fede» (1545-1550) |
di p. Serafino M. Lanzetta
Nel
Messaggio per la Quaresima Benedetto XVI propone una riflessione decisiva sul
rapporto fede e carità. Si tratta di un tema caro al Pontefice, che ritorna
sovente nel suo magistero, avente come fondamento lo stretto nesso tra ragione e
amore. Fede e carità trovano la loro unità nel mistero di Dio, creduto e amato;
ragione e amore ci consentono di vedere la totalità dell’essere e quindi di
avvicinarci a Dio, contemplandolo come Lògos-Amore. Una circolarità che è
unità fontale e amore in pienezza.
Non si dà
né una fede senza la carità, né una carità senza la fede. La fede è per la
carità la misura, la verità dell’amore, mentre la carità è per la fede pienezza
della verità, appagamento, svelamento dell’intimo anelito a Dio, passando dalla
sua conoscenza all’amore. Al dire di Guglielmo di Saint-Thierry (1075-1148) è la
carità stessa che ha due occhi, la ragione e l’amore.
Si entra
nella via di Dio per mezzo della fede, che è principio della vita nuova. È la
fede che rivela Dio all’uomo e con la fede l’uomo risponde a Dio, lo riconosce
suo Creatore e Signore. Colui che si svela è in se stesso amore, dono. È alla
porta dell’intimo dell’uomo e bussa perché gli si dia pieno accesso. Ecco dunque
la carità che completa la fede, dandole, nell’afflato della relazionalità, la
vera gioia dell’essere e del vivere in Dio. Così si alimenta l’amicizia con il
Signore e da questo essere-con il cristiano attinge la sua carità verso il
prossimo.
Quanto
più salda è la fede tanto più ricca è la carità che, colmando l’uomo della
presenza di Dio, si riversa, come un traboccare, sugli altri. Non possiamo dare
quello che non siamo. Diamo agli altri, nella carità fattiva e generosa, quello
che abbiamo attinto dalla fede operosa. Altrimenti daremo solo noi stessi,
principiando da quello che S. Bernardo definisce amor
carnalis.
Senza la
fede la carità non sussiste come tale. Potrà risultare anche una bella opera
sociale, ma in fondo anonima, che arranca tra il desiderio totale di bene e il
poter solo offrire quello che noi reputiamo esser tale, un bene che non abbiamo
attinto da Dio. Nella misura in cui crediamo nel Deus-caritas riconosciamo il
vero bene e diamo agli altri sempre ciò che è vero e buono.
Così il
Pontefice evidenzia questa intima connessione: «La fede è conoscere la verità e
aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è “camminare” nella verità (cfr
Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la
carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv
15,14s)».
Perciò,
mai solo la fede contro la carità, fino a disprezzare le opere buone e così
isolarsi in una sorta di auto-redenzione: è il rischio del «fideismo», né solo
la carità senza la fede, in cui il cristianesimo viene ridotto a una mera
organizzazione, dove si fanno tante cose ma senza una chiara identità: è il
rischio «dell’attivismo moralista».
Ciò che è
nocivo è comunque la mancanza di fede, perché andrà a inficiare lo stesso
incipit cristiano. Dove la fede è boccheggiante, vaga, l’apparente carità è
prone a un moralismo relativista. La fede stessa diventa moralismo. Si potrà
raggiungere notevoli accordi di rispetto e di cooperazione, ma non si potrà più
dire chiaramente la verità.
Ultimamente
il dibattito sui valori non negoziabili, scambiati con surrogati etici
opinabili, ha come sottofondo una scorretta idea di carità senza la fede e la
verità. La Chiesa dovrebbe essere pronta a fare un passo indietro per capire le
reali esigenze dell’uomo e distinguere ciò che è più cogente da ciò che non lo
è. Le si chiede, in nome del “bene comune”, di venire a un accordo. Dove manca
un chiaro punto di partenza, che è la verità, rispetto alla quale non ci sono
precedenze perché tutto il vero è sempre primo, la carità è suscettibile delle
più svariate interpretazioni.
La fede
non può arrestarsi all’aspetto noetico, accontentarsi di una conoscenza
superficiale o di un’adesione formale a Cristo. Necessita di vivere di Lui, di
contemplarlo e così di portarlo attraverso le opere delle proprie mani. Il
Pontefice ci dice che contemplazione e azione «devono coesistere e
integrarsi».
La
minaccia del loro sfaldarsi è tale che facilmente da una fede senza la carità si
passa a una carità senza la fede. Diversi autori hanno provato a individuare
l’essenza del cristianesimo, quel nucleo indispensabile che permetterebbe di
accantonare il resto. Tale nucleo normalmente viene ravvisato nel “messaggio
etico” del Vangelo. Rimane paradigmatica la posizione di A. von Harnack, secondo
il quale «l’intero evangelo si può assumere all’interno di questa dimensione: lo
si può configurare come un messaggio etico senza per questo sminuirne il
valore». Vigerebbe un èthos contro il culto, contro la contemplazione e
l’adorazione. Così non sarà importante se Gesù è veramente il Figlio di Dio –
per Harnack è improbabile – ma ciò che ha insegnato nella via del bene, il cui
unico fondamento è l’amore.
Nel
nostro contesto culturale, attraversato dal pensiero debole, permane ancora
questa grande tentazione di ridurre il cristianesimo a una religione del bene
senza la verità, perché quest’ultima non è conoscibile. Ci sono verità
soggettive e parziali ma la verità non esiste. A giudizio di alcuni risulterebbe
arduo affermare l’unicità salvifica di Cristo rispetto alle altre religioni
senza scadere nel pericolo che questa “pretesa” diventi intransigenza e
intolleranza, del resto estranee alla vita cristiana. La via del bene sarebbe
più ampia e ci permetterebbe di risolvere in nuce il dilemma:
nella carità incontriamo l’altro, tutti, senza la necessità di indicare una
verità che potrebbe dividerci. Il Vangelo stesso ci inviterebbe a inverare il
momento veritativo in quello esperienziale e relazionale, perché, del resto,
anche il giudizio universale sarà basato sulla carità (cfr Mt 25, 31-46).
Mentre però si dimentica che nello stesso giudizio il Signore richiederà anche
la confessione della fede in Lui, il suo riconoscimento davanti agli uomini (cfr
Mt 10,32-33 e Lc 12,8), si postula un’impossibile scissione in Dio tra
onnipotenza e bontà. Fede e carità non si oppongono come ragione e amore non
sono divisi, ma si implicano vicendevolmente. Senza la ragione l’amore è vuoto e
senza l’amore la ragione è fredda necessità. Senza la verità del Vangelo la
carità si spegne. Perciò, la carità più grande, ci ricorda il S. Padre, è
proprio il dono della fede, è l’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini. La
nostra evangelizzazione dovrà imperniarsi proprio su questo binomio
indissolubile, che lumeggia l’essere di Dio in se stesso.
Possiamo
ancora chiederci: si darebbe mai una carità senza la grazia santificante e
quindi senza la fede? Come in Dio onnipotenza e amore, lògos e
agàpe, sono uno così nell’uomo credente fede e carità fanno unità con la
speranza nella grazia santificante. Non c’è mai la carità senza la fede pur
potendo avere una fede senza ancora la carità.
Di qui
l’analogia del Pontefice con il sacramento della fede, il Battesimo e il
sacramento della carità, l’Eucaristia. La fede è ingresso nella dimora interna
di Dio. L’Eucaristia è il cuore. Senza la fede non si comprende l’Eucaristia,
che per sé è tensione verso di Essa. Senza la carità non si sviluppa il dono del
Battesimo, col rischio di rimanere congelato al suo inizio, fino a
inaridirsi.
È una
grande sfida della nuova evangelizzazione collocare in unità fede e carità.
Siamo invitati a dare a tutti per amore la Verità, il Cristo, e a mostrarlo non
con le parole ma con i fatti, con le opere della verità.
La fede
ci svela la verità di Cristo, Amore incarnato. La carità ci fa fruire di
quest’Amore. Così tutto converge nell’amore e si radica in Dio per
sempre.
(Fonte: «L'Osservatore Romano», del 20 febbraio 2013, p. 5).
Nessun commento:
Posta un commento