martedì 22 ottobre 2024

Nell'idolatria del Sé non c'è spazio per le nascite



Nel 2023 sono nati 13mila bambini in meno del 2022. Dietro il dato Istat c'è il solipsismo elevato a status symbol. Che alla fine chiederà il conto: la denatalità di oggi è la solitudine di domani.


Culle vuote

Editoriali 




Un numero che certifica che la vitalità italiana è in regressione, che il nostro punto vita si sta snellendo ma l’estetica non ne guadagna, che il popolo dei bambini è ormai un’etnia in via di estinzione che sopravvive in una riserva indiana. Questo numero è 3,4. L’Istat pubblica la ferale notizia che nel 2023 sono nati in Italia 13mila bambini in meno rispetto al 2022. Il 3,4% in meno.
Ogni anno, alla pubblicazione del report dell’Istat, siamo qui a ripetere la litania dei motivi per cui, prima che le culle, gli uteri delle donne sono vuoti: l’aborto in primis, poi lo scarso valore che riconosciamo ai figli, la notte oscura dei valori umani, la fede ridotta a stoppino fumigante e molti altri.

Ma forse il motivo ultimo è banale. Ci piace stare da soli. Ammettiamolo. Il solipsismo è stato elevato a status symbol e così l’universo misura in altezza, lunghezza e profondità quanto il nostro Io, la propria esistenza è campo minato in cui è vietato a terzi mettere piede ed alti bastioni vengono alzati per proteggere il cuore della vita di ciascuno che prende il nome di privacy.
È l’idolatria del Sé che non può lasciare spazio ad altro da Sé. Una recita questa che non tollera coprotagonisti che potrebbero fare ombra all’attore principale. Figurarsi un cucciolo di uomo che pur non sapendo ancora parlare riesce a mettere in scacco i genitori a suon di pianti e deiezioni ed ad ottenere attenzione, risorse psico-fisiche così elevate che la stanchezza assurge a condizione ontologica di padre e madre e poi tempo, tempo e ancora tempo e tra l’altro proprio quel tempo che, prima dello spuntare di questo nuovo fiore nel giardino di casa, aveva i toni della libertà, della spensieratezza, delle sere passate con gli amici, dello sport. Insomma il tuo tempo migliore, ora è suo. È tutto suo, anche la considerazione della moglie che, elevatasi al rango di madre, presidia questa sua conquista difendendola anche nei confronti del marito che più che padre spesso si sente solo maschio. E dunque è inconcepibile il figlio per coloro i quali sono buchi neri dove anche la luce di una nuova vita viene risucchiata al suo interno.

Per il solipsista radicale e integrale – e un po’ tutti lo siamo – l’altro diviene amico, fidanzato, marito se promette un certo utile. Tutti incasellati in un foglio di calcolo Excel. Tutti in una partita doppia dove le entrate devono superare le uscite. Questa deforma mentis rende sterili nel cuore prima che nelle gonadi. E allora il figlio, così si filosofa, è una perdita esistenziale, un crack finanziario, uno spreco di spazio ed ore, un rischio che nessuna agenzia assicurativa vorrebbe mai coprire, una trappola nascosta nel percorso che porta alla realizzazione personale.

Questo è l’immaginario collettivo che avvelena le coscienze e le fa piccole, micragnose, asfittiche nei propri aneliti. E soprattutto le rende cieche con la menzogna. Perché il figlio – se è vero che non chiede molto, ma tutto – dà anche tutto. Ti regala il titolo di padre e madre, quegli artisti che insieme a Dio hanno chiamato ad esistenza e dal nulla una nuova persona. Un piccolo uomo o una piccola donna la cui preziosità è maggiore di tutto il cosmo creato. E di questa creatura dal valore incommensurabile tu sei il padre e la madre. La tua responsabilità verso di lui è ciò che comprensibilmente ti sfianca, ma anche ciò che ti rende onore. L’esistenza stessa del figlio è la celebrazione per i genitori delle loro virtù che, con il sangue, hanno dovuto acquisire: la pazienza, il consiglio, il discernimento, la giustizia, la mitezza, l’umilità, il perdono, la speranza. Il figlio è l’allenatore esigente che non ti permette di fare sconti a te stesso, che non tollera che si abbassi l’asticella, ma che pretende che venga posta sul punto più alto. Il figlio è l’anello, legato ai successivi anelli, di quella catena generazionale che eterna il tuo nome.

E poi anche sposando l’utilitarismo più estremo non potremmo che sperare in uno tsunami di parti che possa rinverdire il Bel Paese. Meno siamo, più siamo vecchi. È la famigerata immagine della piramide rovesciata, dove pochi giovani dovrebbero sostenere il carico dell’assistenza di un popolo di anziani. Le risorse saranno quelle che saranno e ad ognuno spetteranno solo alcune briciole della torta. E con le briciole non campi o campi male. Meno figli, più badanti.
E ancora: meno figli, più morti perché meno figli significa più anziani abbandonati a se stessi e l’abbandono è l’anticamera dell’obitorio. Quella solitudine, che prima avevamo abbracciato con entusiasmo e che gli invidiosi chiamavano individualismo, anche ora ci abbraccia, ma nascondendo in una mano un coltello ben affilato. Quella solitudine che era una torre di avorio, ora è un carcere. Un carcere dove si esce solo per finire sul patibolo. Allora porre il baricentro esistenziale su di sé, sul proprio nome, farà solo scrivere più velocemente quello stesso nome sulla nostra lapide. Perché è impensabile che il nostro sistema sanitario diventi solo un ospizio. I più deboli saranno lasciati indietro in questa ritirata dalla carità e dalla compassione e così avremo più culle vuote e più bare piene.

Si raccoglierà infine ciò che abbiamo seminato, anzi, ciò che non abbiamo seminato. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo» (Gv 12, 24). Occorre morire a se stessi per far posto all’erede gattonante, altrimenti l’alternativa è la solitudine più spietata. E si sa: anche tra gli animali che vivono in branco, l’esemplare che rimane isolato è più facile vittima dei predatori. E il nostro predatore numero uno è la morte.

Non inganniamoci poi, non pensiamo che riusciremo a bloccare il nostro orologio biologico, che certe misere e fatiscenti esistenze senili non ci toccheranno in sorte, che il pannolino lo abbiamo lasciato parecchi decenni fa e non lo incontreremo mai più sulla nostra strada con il nome di pannolone.
E dunque siamo fieramente egoisti, siamo furbi: mettiamo al mondo una folta progenie che, anche se non è il motivo più nobile al mondo ma di certo nemmeno ignobile, ci permetterà di scampare al nostro personale inverno esistenziale, di non vivere da scarti di macelleria, di sfuggire alla sopravvivenza per vivere appieno seppur centenari, di spirare tra gli abbracci dei parenti e non tra le sponde di un letto di ospedale con accanto soltanto la compagna di tutta una vita: la solitudine.





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