giovedì 17 ottobre 2024

Un nuovo Decalogo per una nuova Chiesa





Martedì 15 ottobre 2024, alle ore 21,00, è andato in onda su diversi canali YouTube tra cui il nostro, un incontro sul Sinodo, guidato da Julio Loredo e con la presenza di Stefano Fontana. Riportiamo qui sotto il video integrale dell’incontro e un breve testo in cui vengono riprese e fissate le principali cose dette da Fontana.

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Di Stefano Fontana, 16 Ott 2024

La nuova sinodalità va intesa come l’esito finale dell’assunzione nella Chiesa di elementi del modernismo. In questo senso i suoi presupposti non nascono certo oggi con il Sinodo sulla sinodalità in corso d’opera.

Con modernismo indichiamo la corrente di pensiero eretica che ha assunto i principi filosofi della modernità e li ha pian piano introdotti nella teologia cattolica e nella vita della Chiesa. Questi principi filosofici atei erano stati anticipati dalla Riforma protestante, che ha influenzato in modo decisivo la modernità filosofica e poi anche la teologia cattolica. Il principale principio del modernismo filosofico e teologico è le priorità e centralità della coscienza. Ciò avviene in campo filosofico, ove si sostiene che prima di tutto noi conosciamo le nostre idee e poi la realtà, in campo morale, ove si sostiene che la coscienza non si limita ad applicare la norma ma contribuisce a formularla, in campo teologico e religioso con l’idea che la rivelazione avvenga nella coscienza.

Ora, la coscienza – si dice – cambia e si evolve. Di conseguenza questo nuovo inizio introduoce nella visione cattolica il tema della storia. La filosofia dell’essere che non muta viene sostituita con la filosofia del divenire, ossia del cambiamento. La coscienza, così, si evolve nel tempo e cambia nelle diverse situazioni storiche che si vengono a vivere.

La coscienza viene posto come nuovo inizio in quanto coscienza storica, ossia coscienza situata in un contesto, a partire dal quale formula le sue conoscenze e prende le sue decisioni. Non esistono più quindi conoscenze vere poste al riparo dal tempo che passa e dalle situazioni particolari in cui si trova la nostra coscienza. Non c’è più un mondo di essenze, si potrebbe dire dal punto di vista filosofico, ma solo un mondo di esistenze. Capita così che gli stessi dogmi della fede cattolica vengano considerati come storici e la rivelazione venga intesa come dinamica ed evolutiva, soggetta a sempre nuove interpretazioni.

La Tradizione, quella con la T maiuscola, viene ora considerata come una serie di interpretazioni di interpretazioni, come la sedimentazione delle interpretazioni che la Chiesa ha dato fin dai tempi apostolici dell’evento cristiano, in dipendenza delle varie situazioni storiche in cui si è venuta a trovare: la fede ai tempi del concilio di Trento non può essere la fede di oggi. 

Le situazioni della vita non sono più viste come occasioni di applicazione di una dottrina ricevuta, alla luce della quale illuminarle per poterle decifrare nei loro significati sia naturali che soprannaturali. Le situazioni della vita ora valgono come punti di vista necessari per comprendere costruttivamente e non passivamente la tradizione nel suo vero senso, che non è dato una volta per tutte. 

Il luogo teologico per eccellenza non è più solo la fede apostolica, come sempre si era ritenuto, perché anche quella era una interpretazione debitrice di una certa situazione oggi superata. La cosiddetta lettura dei “segni de tempi” pretende oggi di considerare questi ultimi, vale a dire gli eventi storici contemporanei, come espressivi della tradizione e co-produttori della dottrina.

Ho fatto questa lunga premesse perché la nuova sinodalità vuole realizzare questa impostazione, proponendosi come questo camminare insieme nella storia nella consapevolezza che, date le premesse viste sopra, da questa prassi collettiva emergeranno nuovi suggerimenti dello Spirito. La Chiesa non è più vista come avente alle spalle la luce della Tradizione, intesa come un deposito di verità certe e definitive che il magistero ha poi fissato in formule concettuali da intendersi in quel modo e in nessun altro. Essa è vista come una realtà che scopre se stessa in un processo di progressiva e storica autocoscienza, una realtà che continuamente rivive nella propria coscienza le verità frutto delle precedenti esperienze storiche, verità che quindi subiscono una evoluzione incessante e inconclusa.

Date queste premesse si comprende allora coma la Chiesa sinodale abbia proposto addirittura dei nuovi peccati, un nuovo decalogo. Questo è successo nella Liturgia penitenziale in Vaticano, presente Francesco, il giorno precedente l’apertura della seconda sessione del Sinodo sulla sinodalità all’inizio di ottobre. Tre osservazioni vanno qui considerate. 

La prima è, come appena visto, che si sono formulati dei peccati “nuovi”, come quello contro la pace, contro le donne, contro l’ambiente, contro le immigrazioni e contro la sinodalità. Se si assume un paradigma storico o storicistico legato al tempo, questo diventa logico. Saranno i tempi a indicare i nuovi peccati. 

La seconda osservazione è che tutti questi peccati sono stati presi dalla situazione di oggi, quindi la loro fonte è sociologica e non teologica. 

Terza osservazione: siccome le dinamiche emergenti in una società in un certo momento sono volute e pianificate dai diversi poteri che in essa agiscono, quei peccati sono tutti contro le narrazioni del potere costituito, sono tutti peccati ideologici, stabiliti dal potere vigente. Quindi, ricapitolando: sono peccati nuovi, sono peccati sociologici e sono peccati ideologici. Ossia sono completamente fuori della visione realistica della ragione umana e dalla vita della Chiesa.

Dato poi che dirigo un Osservatorio sulla Dottrina sociale della Chiesa, non posso fare a meno di considerare il grave problema dei nuovi peccati anche da questo punto di vista. La DSC ha bisogno estremo della nozione di peccato, sul quale essa stessa – negativamente – si fonda. 

Innanzitutto, ha bisogno della dottrina del peccato delle origini. Oggi le ideologie della modernità lo hanno abolito e sostituito con la politica, ma lo hanno abolito anche i teologi cattolici. Questa dottrina, insegnava Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, è di grande importanza per considerare e valutare le sorti dell’uomo nella vita sociale e politica, se non altro perché lo mette al riparo dalle proposte di paradisi in terra che si rivelano disumani. Senza il peccato la società non è più realisticamente comprensibile, perché l’uomo finirebbe per avere o troppa o nessuna fiducia in se stesso. La DSC ha conferito ai dieci comandamenti un valore pubblico e ha costruito i propri principi su di essi e, quindi anche – in via negativa – sui peccati ad essa contrari. La DSC, quindi, non può cambiare i propri punti di riferimento a questo proposito.

Inoltre, i nuovi peccati previsti dalla nuova sinodalità, oltre che nuovi, sociologici e ideologici, sono confusi e quindi completamente inadatti a guidare l’azione. Ogni peccato deve indicare l’atto materiale in cui esso consiste. Così, per esempio, il furto è l’appropriazione di una cosa altrui o l’omicidio è l’uccisione dell’innocente. Ma i nuovi peccati non indicano nessun preciso comportamento materiale. Se si prende il peccato “non rubare” si aprono moltissime applicazioni ispirate alla DSC che riguardano l’economia, il lavoro, il salario, il fisco… Ma se si prende il “peccato” contro gli immigrati quali indicazioni ispirate alla DSC se ne possono trarre? Per questo motivo oggi la Chiesa sta affrontando i temi dell’immigrazione, della sanità e del vaccinisno, del gender senza più alcun riferimento alla DSC.






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