29 Ottobre 2024
Oggi siamo abituati a vedere sacerdoti che hanno completamente abbandonato l’abito. Ciò è stato imposto dalla cosiddetta “teologia della secolarizzazione”. Per diventare uno come tutti, il sacerdote ha finito con il dissolversi nella massa; paradossalmente non avvicinandosi ma allontanandosi davvero dal popolo, perché ormai nessuno può più riconoscerlo. Si pensi a quanti episodi edificanti avvenivano in passato. Anime che si decidevano a confidarsi e perfino a confessarsi incontrando un sacerdote in qualche stazione ferroviaria, su una strada, in uno studio medico, ecc… Oggi, invece, nel completo anonimato del non-abito chi si accorge più della presenza di un sacerdote?
E invece, proprio perché il sacerdote deve essere anche segno della presenza salvifica di Cristo tra gli uomini, è tenuto a presentarsi in maniera sacrale. Il Servo di Dio don Dolindo Ruotolo (1882-1970), nel suo Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale, firmato con lo pseudonimo Dain Cohenel, scrive queste parole importanti: Il sacerdote col suo abito talare, lungo, composto, povero ma pulito, col suo mantello che lo avvolge come se avesse le ali ripiegate, pronte al volo, col capo segnato dalla croce del Redentore, col corpo composto, spirante ordine e modestia, con gli occhi bassi, alieni assolutamente da ogni malsana curiosità, passa nel mondo proprio come un angelo, dà un senso di pace e di conforto, dà un senso di speranza nelle angustie della vita perché egli rappresenta la carità, e passa come lampada che illumina, dissipando con la sua sola presenza le tenebre degli errori.
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