Nella traduzione di Chiesa e postconcilio da OnePeterFive un interessante articolo di Massimo Scapin sul centenario di Latinarum letterarum di Pio XI, ricco di riflessioni da non lasciar cadere. Il riferimento alla Sacrosanctum concilium, mi offre l'occasione per una nota personale al riguardo e quindi per un ripasso sul tema. Invito anche ad approfondire altri aspetti attraverso i link inseriti in riferimento ad alcuni punti del testo.
Massimo Scapin, 20 ottobre 2024
L’impegno di Papa Pio XI per l’educazione del clero fu inequivocabile, come dimostra questa iniziativa, la terza di una serie di inviti all’azione che seguono le lettere apostoliche riguardanti i seminari (Officiorum omnium, 1 agosto 1922) e gli studi dei religiosi (Unigenitus Dei Filius, 19 marzo 1924). La sua incrollabile dedizione sottolineò l’importanza cruciale degli studi latini all’interno della Chiesa.
Evidenziando il ruolo fondamentale del latino nell’educazione letteraria e nella formazione sacerdotale, il Motu Proprio sottolineava il suo profondo legame con la dottrina e la missione della Chiesa. Il latino non serviva solo come mezzo di comunicazione, ma anche come ponte tra le generazioni passate e future della Chiesa. Elevando la competenza del clero in latino, Papa Pio XI cercò di arricchire la sua crescita spirituale e intellettuale, promuovendo un più profondo apprezzamento per la lingua come dono divino.
Questa occasione ci spinge a riflettere sul significato della lingua latina nella musica sacra e nella liturgia cattolica, in particolare alla luce degli insegnamenti delineati in un documento solenne come la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). [vedi nota 1]
Esiste un profondo legame tra la Chiesa cattolica e Roma, una città immortalata da Dante come “quella Roma onde Cristo è romano” (Purgatorio 32, 102), pertanto la città è riconosciuta come il cuore e il centro del cristianesimo. Questo legame duraturo trascende i confini geografici e temporali, incarnando l’universalità della Chiesa di Dio, che è cattolica, come sottolineato da Benedetto XV, “nullamque apud gentem vel nationum extranea”: non è un’intrusa in nessun paese, né è estranea a nessun popolo. [1] Quando la Chiesa di Roma ereditò l’Impero romano, abbracciò anche la lingua latina come veicolo universale di fede. Questa lingua è fondamentale e indelebile, servendo da “sorgente abbondante di civiltà cristiana e ricchissimo tesoro di devozione” all’interno della Chiesa latina, come ha notato Paolo VI. [2] Inoltre, rimane la lingua nativa delle antiche preghiere e degli insegnamenti dei Padri della Chiesa.
L’importanza della tradizione musicale della Chiesa è sottolineata nella Sacrosanctum Concilium, che afferma: “Eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne” (n. 112). Nel corso della storia, numerosi Papi, tra cui San Gregorio Magno († 604), Benedetto XIV († 1758), Leone XII († 1829), Pio VIII († 1830), Gregorio XVI († 1846), Pio IX (1878), Leone XIII († 1903), San Pio X († 1914), Pio XI († 1939) e Pio XII († 1958), hanno sostenuto questa tradizione, riconoscendone il profondo significato spirituale. La Sacrosanctum Concilium promuove il ripristino di questa tradizione e l’impegno continuo nei suoi confronti, ingiungendo (vedi nota 1):
Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un’edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole (n. 117).
Queste direttive sono in netto contrasto con qualsiasi idea di abolizione del canto gregoriano o di proibizione dell’uso della lingua latina.
La costituzione conciliare afferma inequivocabilmente che l’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo (n. 113).
Sebbene siano ammesse alcune eccezioni per l’uso della lingua volgare in circostanze specifiche, tali concessioni non devono sminuire l’importanza del latino, che è prescritto nei termini più chiari (n. 36). Il canto gregoriano, ritenuto “particolarmente adatto alla liturgia romana” e meritevole di “un posto d’onore nei servizi liturgici” (n. 116), necessita intrinsecamente dell’uso della lingua latina [qui].
Nel contesto di quel “mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica.” (n. 123), la musica sacra [vedi] intraprende un magnifico viaggio storico dal canto gregoriano alla “polifonia classica, che, come molto ben detto, raggiunse il massimo della sua perfezione nella scuola romana attraverso l’opera di Giovanni Pierluigi da Palestrina”. [3]
La lingua latina rimane una parte indelebile dell’identità della Chiesa, profondamente radicata nella Vulgata, la traduzione “popolare” della Bibbia di San Girolamo († 420), che rimane il testo “ufficiale” della Chiesa latina, e nell’anima della Chiesa di Roma. Come ha affermato Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie dal 2007 al 2021:
La lingua latina continua a essere la lingua liturgica tipica della Chiesa, la lingua con la quale la Chiesa esprime la propria fede nel segno della cattolicità. Popoli di cultura diversa e di diversa lingua ritrovano nel latino liturgico la propria comune appartenenza, che non riguarda soltanto lo spazio geografico, ma anche quello temporale, il presente e il passato. [4]
Il latino trascende i meri costrutti grammaticali; è un mezzo puro che trasmette i misteri della fede. La sua essenza ineffabile e la sua portata universale costituiscono la pietra angolare indispensabile della musica sacra.
Nel commemorare il centenario del Motu Proprio Latinarum litterarum di Papa Pio XI, riaffermiamo il legame duraturo tra latino e musica sacra. Come custodi di questa eredità, possiamo custodire e preservare la profonda eredità spirituale racchiusa nella lingua latina e nelle sue sacre tradizioni musicali.
[1] Benedetto XV, Maximum Illud, 30 novembre 1919, n. 16.
[2] Sacrificium Laudis, 15 agosto 1966.
[3] Benedetto XV, Non senza vivo, 19 settembre 19 1921.
[4] Intervista del 2008.
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Nota di Chiesa e post-concilio
1. È vero che la Sacrosanctum Concilium definisce il gregoriano il canto proprio della Messa romana; ma, poiché si è “riscritta” la liturgia cattolica tagliando, annacquando e modificando con elementi protestanti e si è posto al centro di tutto il nuovo impianto teologico-liturgico della “doppia-mensa” (cibo della parola affiancato a quello della comunione: presenza mediata dal testo che oscura la Presenza reale), è evidente che, quale conseguenza naturale, si abbandona il canto gregoriano in quanto espressione di una “docenza” non più connaturale alla nuova ecclesiologia.
Tuttavia, se effettivamente la stessa Costituzione non prevedeva l'abolizione del latino e l'estromissione del gregoriano, essa contiene – dopo affermazioni di principio condivisibili – i famigerati "ma anche" che hanno consentito tutte le eccezioni successive con l'infiltrazione di proposizioni ambigue e teologicamente sospette. Molte le abbiamo individuate e documentate nel nostro indefesso lavoro di anni. Sono queste che permettono di parlare del famoso "contro-spirito del concilio", come lo chiamava mons. Gherardini; cioè dell'innovazione subdola e neppure codificata in senso solenne, ma attraverso la prassi... Ci sono diversi spunti qui.
Non possiamo ignorare che alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato – e che di fatto influiscono sulla lex credendi –furono permesse nella liturgia, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché di canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l’estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa.
Sui molti riferimenti e implicazioni riguardanti la Sacrosanctum concilium, riprendo anche quanto già espresso altrove, colpita dal fatto che da parte di alcuni conservatori si obietti che il Novus Ordo in realtà si sia allontanato dalla SC e, più che del Concilium, esso sia frutto del Consilium. Lo si afferma partendo dal fatto che Paolo VI affidò il lavoro a uno speciale super-comitato ad hoc, il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, i cui progetti raggiunsero il completamento nel Rito riformato e furono da lui approvati diversi anni dopo la conclusione del Concilio. Il rito post-conciliare è un prodotto di quest'ultimo e non del primo. Non è nato da Sacrosanctum Concilium, è nato come rifiuto e ripudio dei principi, scevri delle eccezioniespressi, da Sacrosanctum Concilium. Anche la lettura più superficiale di quel documento rende molto chiaro che il rito post-conciliare è stato creato andando BEN oltre il mandato conciliare e, in alcuni punti, contraddice nettamente la lettera stessa di quel mandato. Questa è la realtà della situazione e, con tutto il rispetto per l'ufficio del papato, il potere delle chiavi che Cristo ha dato a Pietro non è il potere di dichiarare che la realtà è qualcosa di diverso da ciò che è.
Peraltro non possiamo ignorare che la SC oltrepassa la Mediator Dei di Pio XII fin dal primo paragrafo [vedi]; inoltre il n.47 della stessa Costituzione, sulla "natura del sacrosanto mistero eucaristico", passa sotto silenzio sia il fine propiziatorio (espiatorio) del Sacrificio, che il termine transustanziazione, inopinatamente assente dall'intero documento.
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