don Antonio Ucciardo
Se dovessimo dare retta a tutte le reazioni suscitate dall’elezione di Papa Francesco, dovremmo prendere atto della possibilità di un rischio: la nascita, totalmente imprevedibile, di una nuova ermeneutica, che chiama in causa non l’ultimo Concilio, bensì la vita stessa della Chiesa.
L’elezione di un Papa non si presta mai a letture univoche. Di univoco c’è solo il dato di fede: l’eletto è il Successore di Pietro e perciò il Vicario di Cristo. Il punto, comunque, non è quello delle letture univoche. Non è neppure quello delle analisi fuorvianti o pretestuose che possono provenire dall’esterno. Il mondo ha la sua logica e legge ogni cosa secondo le sue categorie.
Anche all’interno del cattolicesimo non può prevalere una sola lettura. Ogni apporto è lecito, spesso è indispensabile. Nulla da rilevare, dunque, sul coro che si leva da una settimana. Esso è bello, apprezzabile ed utile, se esprime la gioia dei figli, la riconoscenza al Signore, l’umiltà di chi riconosce la presenza di Cristo nella Chiesa, la dotta semplicità che deriva dalla fede e che ha trovato una descrizione efficace nella nonna argentina lodata dal Papa nel suo primo Angelus. Meno bello, poco apprezzabile e per nulla utile, se questo coro tenta maldestramente di unire le voci diverse che si sono levate attorno all’unico tema della novità. Francamente, cominciamo a sentire il peso di tante inutili parole. Abbiamo, per grazia di Dio, un nuovo Papa, non un Papa nuovo.
Conseguentemente, non abbiamo una rivoluzione, e nemmeno una nuova era. Mi dispiace per chi ha usato questa espressione, ma la Chiesa cammina nel tempo seguendo delle riforme, sempre necessarie e forse, a seconda delle epoche (ma anche della costituzione dell’uomo), mai efficienti in pieno. Se procedesse per mezzo di rivoluzioni, essa non sarebbe più il seme di evangelica memoria che è cresciuto ed è diventato un albero. Per questo Benedetto XVI, riprendendo le argomentazioni dei suoi predecessori, ha insistito sull’ermeneutica della continuità: il soggetto Chiesa è il medesimo pur nello sviluppo al quale è sottoposto. Con l’assistenza dello Spirito Santo e non per voglia autonoma di ricomprensione o di accettazione da parte del mondo.
A questa ermeneutica si contrappone, come sappiamo, quella della discontinuità, la quale postula fratture assimilabili a quelle di una rivoluzione. Questa ermeneutica, tuttavia, ha punti di riferimento, ricca com’è di scuole, di trattati, di nomi, di idee; peregrine quasi sempre, ma pur sempre riconducibili a qualcuno. Ad essa si può rispondere con un pensiero, con una successione lineare di dottrine, con un riferimento magisteriale certo ed ineludibile (uno dei meriti più grandi di Benedetto XVI). Forse non lo si potrà fare agevolmente con tutte le sue varianti, perché si va dal monachesimo ad una riproposizione del “principio speranza” di alcuni autori marxisti. Forse lo si potrà fare con scarso successo, perché si adottano termini cattolici per produrre una musica che risulta poco allineata con il pensiero della Chiesa. C’è però una linea di fondo, ed è chiara anche nelle formulazioni più tortuose della discontinuità o della rottura.
E’ chiaro che l’ermeneutica della discontinuità ha cercato di ravvisare alcune zone di contiguità con il presunto pensiero di Papa Francesco. Inutile nascondersi che essa ha tratto beneficio da una certa teologia della liberazione, che molti ritengono elaborata nell’America Latina. Essa, in realtà, è stata elaborata in Europa, secondo schemi di un pensiero europeo, con categorie pensate per un’Europa alle prese con la rivoluzione industriale e sviluppate secondo la fedeltà alla matrice originaria. E’ vero che in ampi spazi della chiesa latinoamericana questa teologia è riuscita a modellare alcune comunità ecclesiali, dando prova di una estrema duttilità delle categorie della discontinuità in un ambito segnato dall’opzione per i poveri. Ed è altrettanto vero che Bergoglio è latino americano e non ha mai nascosto la sua predilezione per i poveri. Non risulta, però, che egli abbia espresso questa predilezione secondo i canoni di quella teologia. La sua attenzione deriva da ben altre fonti. Nel Vangelo la povertà apre l’elenco delle beatitudini. Un primato che va letto secondo la totalità della Scrittura; un primato mitigato dall’accezione “in spirito” della versione di Matteo. Ma un primato di cui parla il Signore.
Adesso ci tocca assistere ad un inedito: l’ermeneutica dell’idiozia.
Voglio citare proprio il cardinale Bergoglio. In una sua omelia del 2005, dedicata al tema della vita, egli ebbe a dire:
“Quando si ascolta ciò che Gesù dice: Guarda, «Io mando voi, io vi mando come pecore tra i lupi», si vorrebbe chiedere: «Signore, stai scherzando, o non hai un posto migliore dove mandarci?». Perché ciò che Gesù dice fa un po’ paura: «Se annunzierete la mia parola, vi perseguiteranno, vi calunnieranno, vi tenderanno trappole per portarvi davanti ai tribunali e farvi uccidere». Ma voi dovete andare avanti. Per questo motivo, fate attenzione, dice Gesù, siate astuti come i serpenti ma molto semplici come colombe, unendo i due aspetti. Il cristiano non può permettersi il lusso di essere un idiota, questo è chiaro. Noi non possiamo permetterci di essere sciocchi perché abbiamo un messaggio di vita molto bello e quindi non possiamo essere frivoli. Per questo motivo Gesù dice: «Siate astuti, state attenti». Qual è l’astuzia del cristiano? Il saper distinguere fra un lupo e una pecora. E quando, in questo celebrare la vita, un lupo si traveste da pecora, è saper riconoscere quale sia il suo odore. «Guarda, hai la pelle di una pecora, ma l’odore di un lupo». E questo, questo compito che Gesù ci dà è molto importante. È qualcosa di davvero grande”.
In cosa consisterebbe la nuova era? Su cosa sarebbe fondata? Forse sul creato o sull’amore universale? Forse su una liturgia spoglia? Forse su un S. Francesco che non appare più come « uomo cattolico e tutto apostolico », secondo la felice espressione di Pio XI? Come osservava quel Papa, ” nei nostri tempi, molti, infetti dalla peste del laicismo, hanno l’abitudine di spogliare i nostri eroi della genuina luce e gloria della santità, per abbassarli ad una specie di naturale eccellenza e professione di vuota religiosità, lodandoli e magnificandoli soltanto come assai benemeriti del progresso nelle scienze e nelle arti, delle opere di beneficenza, della patria e del genere umano. Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa” (Lettera Enciclica “Rite expiatis”, 30 aprile 1926).
Questa nuova era, tanto simile nella freddezza dei termini al nuovo mondo di farneticanti telepredicatori, se non proprio al pensiero del New Age, sarà riconducibile alle parole del Papa? Non è che voglia avvalersi piuttosto delle parole del Papa per rendere autorevoli i propri pensieri?
Intanto, fino a questo momento, il solo che sembri rimetterci è Benedetto XVI, accusato persino di aver manipolato la liturgia in opposizione alla leggi della Chiesa. Non avrebbe meritato questo, specialmente da tanti che, fino ad un mese fa, erano intenti ad elogiare i grandi temi del suo pontificato. Col senno del poi (tanto brutto tra cristiani, ma opportuno tra uomini), dovendo riconoscere che nessuno avrebbe potuto dire in anticipo qualcosa sul pensiero del nuovo Papa, possiamo pensare ad una sorta di “captatio benevolentiae” preventiva. Pare, insomma, che il salire in anticipo sul carro del vincitore, non sia un principio affermato soltanto nel mondo. Ma siamo sicuri adesso che questo pensiero, tanto osannato, sia quello del Papa? Siamo sicuri che il biasimo del povero Benedetto alla fine paghi veramente? E’ lecito nutrire qualche dubbio. Soprattutto quando il coro, alla fine, si rivela per quello che è.
http://www.daportasantanna.it/2013/03/lermeneutica-dellidiozia/
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