Pubblichiamo uno stralcio dell'intervista che il Prefetto della Congregazione per il Clero, card. Mauro Piacenza, ha rilasciato ad Antonio Gaspari, direttore dell'Agenzia Zenit, in occassione dell'imminente apertura dell'Anno della Fede sulla continuità o meno del Concilio Vaticano II con la tradizione precedente della Chiesa.
Che cos’è davvero “l’ermeneutica della continuità” della quale spesso parla il Santo Padre?
Card. Mauro Piacenza: è, secondo quanto esplicitamente indicato dallo stesso Pontefice, l’unico corretto modo di leggere e di interpretare ogni Concilio Ecumenico e, pertanto, anche il Concilio Vaticano II. La continuità dell’unico Corpo ecclesiale, prima di essere un criterio ermeneutico, cioè di interpretazione dei testi, è una realtà teologica, che affonda le proprie radici nello stesso atto di fede, che ci fa professare: «Credo la Chiesa Una». Per tale ragione, non è pensabile alcuna dicotomia tra pre e post Concilio Vaticano II, e sono certamente da rifiutare sia la posizione di chi vede nel Concilio Ecumenico Vaticano II un “nuovo inizio” della Chiesa, sia quella di chi vede la “vera Chiesa” solo prima di questo storico Concilio. Nessuno può arbitrariamente decidere se e quando inizi la “vera Chiesa”. Sgorgata dal costato di Cristo e corroborata dall’effusione dello Spirito a Pentecoste, la Chiesa è Una e Unica, sino alla consumazione della storia, e la comunione che in essa si realizza è per l’eternità. Taluni sostengono che l’ermeneutica della riforma nella continuità sia solo una delle possibili ermeneutiche, accanto a quella della discontinuità e della rottura. Il Santo Padre ha recentemente definito “inaccettabile” l’ermeneutica della discontinuità (Udienza all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012). Fra l’altro ciò è ovvio: diversamente non si sarebbe cattolici e si inietterebbe il germe dell’infezione e del progressivo disfacimento; sarebbe anche un grave danno per l’ecumenismo.
Possibile che sia così complesso comprendere queste realtà?
Card. Mauro Piacenza: Lei sa meglio di me come la comprensione, anche di realtà evidenti, possa essere, non di rado, condizionata da aspetti emotivi, biografici, culturali e perfino ideologici. È umanamente comprensibile che chi ha vissuto, negli anni della sua giovinezza anagrafica, l’entusiasmo legittimo dell’Assise conciliare, non disgiunto dal desiderio di superamento di talune “incrostazioni”, che era necessario e urgente togliere dal volto della Chiesa, possa interpretare come pericolo di “tradimento” del Concilio ogni espressione che non condivida il medesimo “stato emotivo”. È necessario, per tutti, un radicale salto di qualità nell’accostarsi ai testi conciliari, per comprendere, a mezzo secolo da quello straordinario evento, che cosa realmente lo Spirito ha suggerito e suggerisce alla Chiesa. Cristallizzare il Concilio nella sua necessaria, ma non sufficiente, “dimensione entusiastica” equivale a non svolgere un buon servizio alla stessa ricezione del Concilio, che ne rimane quasi paralizzata, poiché, nel tempo, ci si può confrontare e si possono condividere valutazioni su testi oggettivi, non certamente su stati emotivi e su entusiasmi storicamente segnati.
Corriere della Sera 12/9/2012
Card. Mauro Piacenza: è, secondo quanto esplicitamente indicato dallo stesso Pontefice, l’unico corretto modo di leggere e di interpretare ogni Concilio Ecumenico e, pertanto, anche il Concilio Vaticano II. La continuità dell’unico Corpo ecclesiale, prima di essere un criterio ermeneutico, cioè di interpretazione dei testi, è una realtà teologica, che affonda le proprie radici nello stesso atto di fede, che ci fa professare: «Credo la Chiesa Una». Per tale ragione, non è pensabile alcuna dicotomia tra pre e post Concilio Vaticano II, e sono certamente da rifiutare sia la posizione di chi vede nel Concilio Ecumenico Vaticano II un “nuovo inizio” della Chiesa, sia quella di chi vede la “vera Chiesa” solo prima di questo storico Concilio. Nessuno può arbitrariamente decidere se e quando inizi la “vera Chiesa”. Sgorgata dal costato di Cristo e corroborata dall’effusione dello Spirito a Pentecoste, la Chiesa è Una e Unica, sino alla consumazione della storia, e la comunione che in essa si realizza è per l’eternità. Taluni sostengono che l’ermeneutica della riforma nella continuità sia solo una delle possibili ermeneutiche, accanto a quella della discontinuità e della rottura. Il Santo Padre ha recentemente definito “inaccettabile” l’ermeneutica della discontinuità (Udienza all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012). Fra l’altro ciò è ovvio: diversamente non si sarebbe cattolici e si inietterebbe il germe dell’infezione e del progressivo disfacimento; sarebbe anche un grave danno per l’ecumenismo.
Possibile che sia così complesso comprendere queste realtà?
Card. Mauro Piacenza: Lei sa meglio di me come la comprensione, anche di realtà evidenti, possa essere, non di rado, condizionata da aspetti emotivi, biografici, culturali e perfino ideologici. È umanamente comprensibile che chi ha vissuto, negli anni della sua giovinezza anagrafica, l’entusiasmo legittimo dell’Assise conciliare, non disgiunto dal desiderio di superamento di talune “incrostazioni”, che era necessario e urgente togliere dal volto della Chiesa, possa interpretare come pericolo di “tradimento” del Concilio ogni espressione che non condivida il medesimo “stato emotivo”. È necessario, per tutti, un radicale salto di qualità nell’accostarsi ai testi conciliari, per comprendere, a mezzo secolo da quello straordinario evento, che cosa realmente lo Spirito ha suggerito e suggerisce alla Chiesa. Cristallizzare il Concilio nella sua necessaria, ma non sufficiente, “dimensione entusiastica” equivale a non svolgere un buon servizio alla stessa ricezione del Concilio, che ne rimane quasi paralizzata, poiché, nel tempo, ci si può confrontare e si possono condividere valutazioni su testi oggettivi, non certamente su stati emotivi e su entusiasmi storicamente segnati.
Corriere della Sera 12/9/2012
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