di Paolo Facciotto
Il 14 settembre, festa della Esaltazione della Croce, sono passati cinque anni dall’entrata in vigore del “Summorum Pontificum” pubblicato il 7 luglio 2007.
Con questo motu proprio, cioè una decisione presa di propria iniziativa, senza passare attraverso la proposta degli uffici di curia, Papa Benedetto XVI stabilì che la liturgia nuova, riformata dopo il Concilio Vaticano II, e quella antica sono “due usi dell’unico Rito romano” dato che il messale di san Pio V aggiornato nel 1962 da Giovanni XXIII non era mai stato abrogato.
In breve, Papa Ratzinger ridava piena cittadinanza nella Chiesa alla messa in latino, come “forma extraordinaria” della stessa “lex orandi” (legge della preghiera) di tutti i cattolici che coincide con la loro universale “lex credendi” (legge della fede).
Che cosa è cambiato in questi cinque anni?
Cerchiamo di farcene un’idea, anzitutto con qualche numero. In Italia oggi sono circa 140 i luoghi, e i relativi gruppi stabili, dove si celebra la messa antica.
Prima, erano 13 i gruppi di fedeli che si facevano forti dell’indulto del 1984 del beato Giovanni Paolo II. L’aumento, dunque, è stato esponenziale. Sempre tenendo fuori dalla lista i numeri dei gruppi “lefebvriani” che a tuttoggi non sono in piena comunione con Roma, negli Stati Uniti si contano ben 498 chiese (fra parrocchie, cattedrali e santuari) in cui si celebra almeno una volta la settimana, o comunque abbastanza regolarmente, la messa in latino. Il monitoraggio di questo movimento spontaneo di ritorno alla Tradizione, è aggiornato al 16 giugno scorso, chi vuole può controllare ed informarsi sul sito:http://web2.airmail.net/carlsch/EFMass/churchessummary.htm.
Nella sola New York City, ad esempio, sono 20 le chiese in cui è data ai cattolici la possibilità di vivere la liturgia secondo la “forma extraordinaria”. Siamo in una metropoli, è vero, ma il numero fa un certo effetto. E sono moltissimi i giovani. Al terzo anno dall’entrata in vigore del motu proprio, in 27 paesi del mondo monitorati da “Paix Liturgique” si contavano 1.444 luoghi di celebrazione della messa tridentina, di cui 467 regolarmente ogni domenica in un orario adeguato per le famiglie (fra le 9 e le 12).
In occasione dell’Anno della Fede è stato promosso un pellegrinaggio internazionale a Roma dei gruppi, associazioni e movimenti “pro Summorum Pontificum”, che culminerà nella messa pontificale in San Pietro sabato 3 novembre. Il titolo - “Una cum Papa nostro” - è preso dalle parole della Sacra Liturgia, a significare un’azione di grazie e di fede nei confronti di Benedetto XVI.
Tutto questo è successo, e sta succedendo, senza grandi mezzi finanziari, senza tv, senza radio, senza giornali, senza niente. Con il semplice passaparola, favorito dalla rete.
Nella Chiesa c’è stato chi ha obbedito con prontezza ed efficacia al Papa. Il Card. Ruini mise subito a disposizione una parrocchia romana, e non dovette certo attendere l’istruzione applicativa “Universae Ecclesiae”. Ma sono state e sono tuttora presenti ostilità, resistenze e diffidenze da parte di esponenti della gerarchia.
Ad esempio un vescovo, cinque anni fa alla stampa confidò di sentirsi “in lutto” per il motu proprio. Chi è avverso alla “riforma benedettiana” della liturgia non per questo viene messo ai margini (quel medesimo vescovo era fra i relatori principali all’ultima settimana liturgica nazionale di fine agosto). Ci sono uffici diocesani in Italia che si peritano di vietare la celebrazione di una messa in latino richiesta, contravvenendo in questo al combinato disposto degli articoli 2 e 4 del motu proprio, e del n. 16 dell’istruzione. Ma possono stare tranquilli, non vengono deferiti a nessuno, ed è meglio così. Ci sono poi altri mezzucci per ostacolare la volontà del Papa (“il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII [...] deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico”, art. 1), come quello di fare sparire le edizioni tascabili dei messali dalle librerie diocesane, in modo che il popolo non se ne possa abbeverare. Innocue burle da preti.
Peggio fanno certi laici. Come i maestri di pensiero degli autonominatisi cattolici adulti. Dai giornali dei grandi gruppi bancari che determinano la mentalità dominante, e nei quali hanno ruoli importanti, umiliano i movimenti popolari che non stanno loro a genio. Per loro i tradizionalisti “biascicano preghiere” in una lingua sconosciuta, “belano gregoriano”. Fosse anche vero, ci sarebbe da esserne lieti anziché da offendersi: per un cattolico far parte del gregge del Signore Gesù non è certo un demerito.
E all’udienza di mercoledì 12 settembre, il Papa ha rassicurato che “tutte le nostre preghiere – con tutti i limiti, la fatica, la povertà, l’aridità, le imperfezioni che possono avere – vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Dobbiamo essere certi, cioè, che non esistono preghiere superflue, inutili; nessuna va perduta”. Nemmeno quelle in latino, la lingua dei padri, tuttora lingua ufficiale della Chiesa.
Viene in mente quanto disse don Luigi Giussani in un’intervista dell’aprile 1992, sulla persecuzione portata “a cattolici che si pongono per tali, cattolici che si muovono nella semplicità della Tradizione”.
Su queste parole ha meditato a lungo don Giacomo Tantardini, che ricordando i suoi anni di seminario a Venegono parlava dell’“insegnamento ricevuto, per cui proprio la Tradizione della fede cattolica poteva condividere con simpatia l’istanza moderna del soggetto, cioè della libertà”.
Forse è proprio questa possibilità di esperienza – che la semplicità della Tradizione sia vivibile oggi, per gli uomini d’oggi così come sono, essendo cristiani nel mondo ma non del mondo – l’interessante punto di sfida, nell’Anno della Fede.
© Copyright La Voce di Romagna, 23 settembre 2012
Nessun commento:
Posta un commento