Comunicato Stampa N. 131
La sentenza della Terza Sezione civile della Cassazione che ha riconosciuto, a favore di entrambi i genitori, dei fratelli e della stessa interessata, il diritto al risarcimento dei danni per nascita indesiderata nei confronti di un ginecologo che non aveva diagnosticato, durante la gravidanza, la sindrome di Down della bambina, così impedendo alla madre di abortire, non può che suscitare in tutti amare riflessioni.La società non può non interrogarsi sugli effetti che la legge 194 sull’aborto ha prodotto in oltre trent’anni di vigenza, non solo sulla vita spezzata di milioni di bambini, ma sulla coscienza sociale nei confronti dell’altro, del malato del disabile, del debole.
Leggiamo il passo nel quale la Corte giustifica l’estensione del diritto al risarcimento non solo alla madre e al padre, ma anche ai fratelli; anch’essi, infatti, avrebbero subito un “danno” dall’ingresso in famiglia di una sorellina con un cromosoma in più; per questi fratelli, affermano i giudici (con un linguaggio un po’ ostico),
“non può non presumersi l’attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori.
Danno intanto consistente, tra l’altro, nella inevitabile, minore disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono, invece, non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato; consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza, pur senza che questo incida affatto sull’orizzonte di incondizionata accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la concreta situazione in cui si trova”.
A parte la chiusura grottesca, che richiama la “doverosa accoglienza nei confronti di ogni essere umano che si affaccia alla vita, quale che sia la sua condizione”, dopo avere affermato che la madre aveva il diritto di far uccidere quella bambina per il solo fatto che era affetta da sindrome di Down; e prescindendo anche dalla definizione per le persone Down di “vita malformata” (!), vediamo quale visione di vita, di famiglia, di società, propugna la Corte. La famiglia ideale è, evidentemente, quella di pochi figli sani che “succhiano” il tempo e l’impegno dei genitori, per i quali il compito è quello di evitare loro qualsiasi “potenziale sofferenza”.
L’amore all’interno della famiglia è commisurato al tempo dedicato ai figli, alla salute e anche – perché no? – ai soldi disponibili. Ecco che la nascita di una sorellina down è vista come il disastro per l’intera famiglia: per la madre, che ne soffrirà nella sua salute; per il padre, che vivrà accanto ad una donna sofferente; e per i figli, a cui i genitori potranno dedicare meno tempo e che, talvolta, saranno meno sereni e meno distesi; e già nel futuro la presenza di una sorella down comporterà problemi economici, ma anche assistenziali: i fratelli dovranno occuparsi di lei anche dopo la morte dei genitori.
Ma il quadro è realistico? Davvero le famiglie che hanno un figlio down sono meno serene? Davvero i genitori, costretti ad accudire la “figlia meno fortunata”, amano meno i suoi fratelli?
E il rapporto tra i fratelli “più fortunati” e quella “meno fortunata”? La Corte non ne parla, quasi che la bambina down sia una bambola, incapace di ogni rapporto, destinata soltanto ad essere soggetto passivo dell’accudimento da parte dei suoi familiari. Ma è davvero così?
Questo passo della sentenza dovrebbe essere da sola sufficiente a scandalizzare non solo le famiglie che vivono questa esperienza, ma tutti noi. La Corte ci propone una visione della vita in cui la malattia, l’handicap, la debolezza sono viste come un ostacolo alla realizzazione piena dei soggetti sani, che devono essere “liberati” da ogni “potenziale sofferenza”.
La legge 194 fornisce questo strumento di liberazione: l’uccisione del bambino malato come diritto soggettivo della madre e di tutta la famiglia.
Non possiamo accettarlo; dobbiamo continuare a riflettere su questa legge omicida.
Comitato Verità e Vita 5 Ottobre 2012
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