di Padre Giovanni Cavalcoli OP
La vita della persona comporta due orientamenti del suo spirito: uno, volto al di fuori di se stessa, verso la realtà esterna, distinta da lei, realtà materiale e spirituale, e quindi verso le altre persone e verso Dio. E questa è l’attività con la quale la persona si apre all’altro, esce in qualche modo da se stessa o trascende se stessa.
Essa così entra in relazione con le cose, col mondo, con gli altri e con Dio. Questa relazione può essere fisica o spirituale. Con Dio non può che essere evidentemente soltanto spirituale, dato che Egli è purissimo Spirito. Con le persone può essere sia fisica che spirituale, essendo esse composte di anima e corpo. Con gli enti inferiori è soltanto fisica o al massimo psicologica.
Si tratta della trascendenza, dal verbo latino transcendo, che è composto da trans, che significa oltre, e scando, che vuol dire salire. Il trascendere dunque è un superare, un elevarsi, un andar oltre o un salire oltre. Il trascendente si può intendere anche come qualcosa che sta oltre, più in alto o al di là.
Per questo il vero trascendere, che comporta in qualche modo un salire, è attuato solo verso i valori più alti dello spirito, innanzitutto verso Dio, che è il sommo Trascendente, che, per la sua infinita grandezza, sta infinitamente oltre i limiti del nostro essere personale, benché creato a sua immagine e somiglianza. Per questo S.Agostino, nel De vera religione (c.39), ci rivolge il famoso transcende teipsum, trascendi o va oltre te stesso, per indicarci il modo di raggiungere Dio.
Il trascendere in questo senso corrisponde al cammino di perfezionamento della persona. Abbiamo qui pertanto il progresso intellettuale e morale. La persona aumenta il proprio patrimonio culturale e perfezionai suoi rapporti con Dio e con il prossimo.
Che vuol dire trascendere se stessi? Possiamo andare al di là di noi stessi? Possiamo salire o superare noi stessi? Certamente. Anzi sta qui la dignità del pensiero e della volontà, la grandezza della nostra immaginazione, insomma la dignità della persona. Questo non toglie la finitezza della persona né le miserie di questa vita, e tuttavia consente alla persona di avvicinarsi indefinitamente a quel sommo Bene trascendente, che è Dio.
Però questa autotrascendenza va intesa bene. Essa è sì un innalzarsi, un elevarsi, un salire, un superare, ma attenzione a non confondere questo atto che caratterizza la potenza dell’intelletto e della volontà con una forma di trascendenza che non migliora la persona, ma alla fine la degrada.
Questo trascendersi infatti non dev’essere inteso come autoesaltazione, come un volersi attribuire o un voler realizzare una grandezza o una intelligenza o una potenza che non ci spettano, un voler dare a noi stessi qualcosa che travalica o che va oltre le nostre possibilità e le nostre vere aspirazioni, i nostri diritti e i nostri reali bisogni.
Questo trascendersi non sarebbe più sana e legittima manifestazione della persona, ma sarebbe prevaricazione ed empietà, simile al tentativo degli antichi mitici Giganti di scalare il cielo, o quello di Prometeo di strappare il fuoco agli dèi o il folle volo di Icaro.
Per questo Cristo dice che chi si esalta, sarà umiliato. Egli sa che l’uomo ha desiderio di salire, di grandezza. Ma tale desiderio può essere soddisfatto, ci insegna il divino Maestro, solo con l’umiltà, ossia col riconoscere la nostra dipendenza da un Dio trascendente.
Sta in questa superbia o tracotanza (da trasns-cogitare, cioè un pensare oltre il lecito), che i Greci chiamano ybris, il difetto della filosofia idealista, come per esempio quella di Hegel o di Giovanni Gentile, per i quali lo spirito umano, sotto pretesto della sua apertura all’Infinito ed all’Assoluto, non avrebbe nulla fuori di sé, o al di sopra di sé non esisterebbe nulla di trascendente, ma lo spirito umano avrebbe la possibilità di autotrascendersi superando il proprio io empirico fino a prendere coscienza del proprio essere Assoluto.
E’ quella che essi chiamano “immanenza”, opposta alla trascendenza. O se parlano di trascendenza o elevazione (per esempio la Erhebung di Hegel), questa trascendenza non comporta affatto il contatto con una realtà esterna e realmente trascendente, al sommo della quale ci sia Dio, ma si tratta di un semplice atto di autocoscienza o di presa di coscienza di un “Dio”, che è una semplice idea dell’uomo, un semplice “essere” che coincide con l’essere pensato o, come dice Hegel col “concetto”. Questo immanentismo è stato più volte condannato dalla Chiesa, soprattutto da S.Pio X e da Pio XII, come del resto è stato condannato l’idealismo sino all’enciclica del Beato Giovanni Paolo II Fides et Ratio.
Infatti, assumendo la gnoseologia dell’idealismo, che rifiuta di ammettere l’esistenza di un reale esterno al pensiero, presupposto al pensiero e indipendente dal pensiero – s’intende il pensiero umano -, per cui si risolve l’essere nell’essere pensato o nell’“idea”, l’uomo viene a pretendere di far dipendere da sé non solo pensiero col quale pensa il reale, ma lo stesso reale, avocando a sé un potere creatore del reale che spetta solo a Dio e quindi praticamente mettendosi al posto di Dio.
L’uomo, identificando l’essere con l’essere pensato sotto pretesto che l’essere è oggetto del pensare, viene a pretendere che non esista essere che non sia da lui pensato, cosa che il realtà vale solo per l’onniscienza divina, ideatrice e creatrice dell’essere. L’uomo viene inoltre a concepire la propria natura, la sua e quella degli altri, come prodotto del suo pensiero e della sua libertà dimenticando il fatto che essa invece è creata da Dio ed regolata in lui e negli altri dalla legge divina e non dall’assoluto arbitrio dell’uomo.
L’idealista così sul piano morale, ritenendosi Dio o un apparire di Dio, viene ad avere di sé una considerazione senza limiti, mentre per lui gli altri, essendo semplici esseri da lui pensati, ossia semplici suoi pensieri, e non persone concrete e reali esistenti indipendentemente da lui, diventano subordinati ai suoi interessi divini ed assoluti. Abbiamo l’apologia del più perfetto egocentrismo ed egoismo, sotto pretesto dell’immanenza di Dio nella coscienza della persona.
L’etica dell’idealismo non riesce neppure ad edificare una convivenza umana decente che assicuri la giustizia e la pace. Essa infatti è presa tra due fuochi: o l’accentuazione dell’Io Assoluto a scapito degli io empirici, o l’assolutizzazione degli io empirici, dove l’Assoluto resta una semplice astrazione. Nel primo caso si ha la risoluzione e quindi il dissolvimento di tutti gli io empirici nell’unico Io Assoluto, che si incarna in alcune entità empiriche, come il capo, il partito o lo stato; nel secondo caso si ha quella che l’idealista chiama “intersoggettività”, per la quale si ha una lotta implacabile tra una molteplicità di assoluti ognuno dei quali cerca di prevalere sull’altro: quello che Thomas Hobbes chiama homo homini lupus.
Tuttavia gli idealisti per sostenere la loro filosofia contro il realismo e le altre filosofie, amano coalizzarsi tra di loro sotto forme apparentemente unitarie, ma nella loro condotta reale restano tra di loro in una competizione irresolubile, dato che ognuno di loro si considera una teofania dell’Assoluto. Dato che non possono esistere più Assoluti, essi tendono ad escludersi a vicenda.
Quanto alla parola “immanenza”, essa non è brutta, ma va distinta dall’immanentismo. In-manere in latino vuol dire semplicemente “rimanere in un luogo”. Ora non c’è nessuna difficoltà ad ammettere che Dio con la sua grazia sia in noi, nella nostra anima, come in un “tempio”, stando alle parole di San Paolo. Anzi è questo lo scopo del cristianesimo. Ma dev’essere ben chiaro che per quanto Dio abiti nel nostro intimo, Dio è Dio e noi siamo noi, restando cioè una differenza infinita tra la nostra essenza e quella divina.
Invece l’idealista su questo punto non fa assolutamente chiarezza, ma col parlare del “pensiero” senza ulteriori specificazioni, senza cioè distinguere pensare umano e pensare divino, essere reale ed essere pensato, cosa reale e idea della cosa, dato mentale ed essere esterno, fa una gran confusione lasciando credere che il pensare umano possa uguagliarsi al pensare divino e possa avere i suoi stessi poteri.
In tal modo l’idealista cade nel panteismo: l’uomo si fa Dio e con ciò stesso si cade anche nell’ateismo, in quanto l’uomo, non riconoscendo un Dio trascendente, pretende di sostituirsi a Dio nel pensare nell’agire, dando a se stesso un’illimitata libertà che in realtà si volge o può volgersi in ogni forma di licenza morale, non avendo più l’uomo da rispondere a un Dio che lo ha creato, ma solo rispetto a stesso divenuto legge a stesso e agli altri.
L’idealista stravolge completamente un sano concetto dell’interiorità. Egli può prendere a pretesto l’interiorismo agostiniano (in interiore homine habitat Veritas), deformato dall’idealismo cartesiano o magari dal soggettivismo luterano. Il concetto di “uomo interiore” è di indubbia ascendenza paolina (II Cor 4,16; Ef 3,16) e sappiamo quanto il cristianesimo ha stima della coscienza e della stessa coscienza soggettiva, ma nel quadro di un sano realismo, per il quale il pensiero e la coscienza non sono arbitri dell’essere, ma l’essere è esterno all’uomo e dipende solo da Dio creatore. Il mio stesso corpo è esterno e indipendente dal pensiero col quale lo penso e il mio pensiero sarà vero se sarà adeguato all’essere del mio corpo come del resto ad ogni essere col quale vengo a contatto.
E l’interiorità non è solo la mia interiorità, quasi fossi io solo lo spirito e la coscienza, mentre tutto ciò che mi sta fuori sia solo materiale e mera apparenza. Ma anche ogni altra persona, distinta da me, ha la sua interiorità, che per me dev’essere sacra ed inviolabile ed oggetto di sommo rispetto, benché possa realizzare una profonda comunione con essa, senza che però io abbia alcun diritto, quasi fossi io il principio dell’essere, a subordinare a me chicchessia o il mondo intero.
Questo è solo privilegio di Dio, che del resto ha uguale dominio su di me e solo così si ha un vero rispetto per la grandezza del pensiero, della coscienza e della libertà della persona come essere singolo ed associato, sotto la signoria benevola e misericordiosa del Dio Altissimo, presente nei cuori ma infinitamente trascendente e Signore dell’essere e della storia.
Libertà e Persona 14 ottobre 2012
Essa così entra in relazione con le cose, col mondo, con gli altri e con Dio. Questa relazione può essere fisica o spirituale. Con Dio non può che essere evidentemente soltanto spirituale, dato che Egli è purissimo Spirito. Con le persone può essere sia fisica che spirituale, essendo esse composte di anima e corpo. Con gli enti inferiori è soltanto fisica o al massimo psicologica.
Si tratta della trascendenza, dal verbo latino transcendo, che è composto da trans, che significa oltre, e scando, che vuol dire salire. Il trascendere dunque è un superare, un elevarsi, un andar oltre o un salire oltre. Il trascendente si può intendere anche come qualcosa che sta oltre, più in alto o al di là.
Per questo il vero trascendere, che comporta in qualche modo un salire, è attuato solo verso i valori più alti dello spirito, innanzitutto verso Dio, che è il sommo Trascendente, che, per la sua infinita grandezza, sta infinitamente oltre i limiti del nostro essere personale, benché creato a sua immagine e somiglianza. Per questo S.Agostino, nel De vera religione (c.39), ci rivolge il famoso transcende teipsum, trascendi o va oltre te stesso, per indicarci il modo di raggiungere Dio.
Il trascendere in questo senso corrisponde al cammino di perfezionamento della persona. Abbiamo qui pertanto il progresso intellettuale e morale. La persona aumenta il proprio patrimonio culturale e perfezionai suoi rapporti con Dio e con il prossimo.
Che vuol dire trascendere se stessi? Possiamo andare al di là di noi stessi? Possiamo salire o superare noi stessi? Certamente. Anzi sta qui la dignità del pensiero e della volontà, la grandezza della nostra immaginazione, insomma la dignità della persona. Questo non toglie la finitezza della persona né le miserie di questa vita, e tuttavia consente alla persona di avvicinarsi indefinitamente a quel sommo Bene trascendente, che è Dio.
Però questa autotrascendenza va intesa bene. Essa è sì un innalzarsi, un elevarsi, un salire, un superare, ma attenzione a non confondere questo atto che caratterizza la potenza dell’intelletto e della volontà con una forma di trascendenza che non migliora la persona, ma alla fine la degrada.
Questo trascendersi infatti non dev’essere inteso come autoesaltazione, come un volersi attribuire o un voler realizzare una grandezza o una intelligenza o una potenza che non ci spettano, un voler dare a noi stessi qualcosa che travalica o che va oltre le nostre possibilità e le nostre vere aspirazioni, i nostri diritti e i nostri reali bisogni.
Questo trascendersi non sarebbe più sana e legittima manifestazione della persona, ma sarebbe prevaricazione ed empietà, simile al tentativo degli antichi mitici Giganti di scalare il cielo, o quello di Prometeo di strappare il fuoco agli dèi o il folle volo di Icaro.
Per questo Cristo dice che chi si esalta, sarà umiliato. Egli sa che l’uomo ha desiderio di salire, di grandezza. Ma tale desiderio può essere soddisfatto, ci insegna il divino Maestro, solo con l’umiltà, ossia col riconoscere la nostra dipendenza da un Dio trascendente.
Sta in questa superbia o tracotanza (da trasns-cogitare, cioè un pensare oltre il lecito), che i Greci chiamano ybris, il difetto della filosofia idealista, come per esempio quella di Hegel o di Giovanni Gentile, per i quali lo spirito umano, sotto pretesto della sua apertura all’Infinito ed all’Assoluto, non avrebbe nulla fuori di sé, o al di sopra di sé non esisterebbe nulla di trascendente, ma lo spirito umano avrebbe la possibilità di autotrascendersi superando il proprio io empirico fino a prendere coscienza del proprio essere Assoluto.
E’ quella che essi chiamano “immanenza”, opposta alla trascendenza. O se parlano di trascendenza o elevazione (per esempio la Erhebung di Hegel), questa trascendenza non comporta affatto il contatto con una realtà esterna e realmente trascendente, al sommo della quale ci sia Dio, ma si tratta di un semplice atto di autocoscienza o di presa di coscienza di un “Dio”, che è una semplice idea dell’uomo, un semplice “essere” che coincide con l’essere pensato o, come dice Hegel col “concetto”. Questo immanentismo è stato più volte condannato dalla Chiesa, soprattutto da S.Pio X e da Pio XII, come del resto è stato condannato l’idealismo sino all’enciclica del Beato Giovanni Paolo II Fides et Ratio.
Infatti, assumendo la gnoseologia dell’idealismo, che rifiuta di ammettere l’esistenza di un reale esterno al pensiero, presupposto al pensiero e indipendente dal pensiero – s’intende il pensiero umano -, per cui si risolve l’essere nell’essere pensato o nell’“idea”, l’uomo viene a pretendere di far dipendere da sé non solo pensiero col quale pensa il reale, ma lo stesso reale, avocando a sé un potere creatore del reale che spetta solo a Dio e quindi praticamente mettendosi al posto di Dio.
L’uomo, identificando l’essere con l’essere pensato sotto pretesto che l’essere è oggetto del pensare, viene a pretendere che non esista essere che non sia da lui pensato, cosa che il realtà vale solo per l’onniscienza divina, ideatrice e creatrice dell’essere. L’uomo viene inoltre a concepire la propria natura, la sua e quella degli altri, come prodotto del suo pensiero e della sua libertà dimenticando il fatto che essa invece è creata da Dio ed regolata in lui e negli altri dalla legge divina e non dall’assoluto arbitrio dell’uomo.
L’idealista così sul piano morale, ritenendosi Dio o un apparire di Dio, viene ad avere di sé una considerazione senza limiti, mentre per lui gli altri, essendo semplici esseri da lui pensati, ossia semplici suoi pensieri, e non persone concrete e reali esistenti indipendentemente da lui, diventano subordinati ai suoi interessi divini ed assoluti. Abbiamo l’apologia del più perfetto egocentrismo ed egoismo, sotto pretesto dell’immanenza di Dio nella coscienza della persona.
L’etica dell’idealismo non riesce neppure ad edificare una convivenza umana decente che assicuri la giustizia e la pace. Essa infatti è presa tra due fuochi: o l’accentuazione dell’Io Assoluto a scapito degli io empirici, o l’assolutizzazione degli io empirici, dove l’Assoluto resta una semplice astrazione. Nel primo caso si ha la risoluzione e quindi il dissolvimento di tutti gli io empirici nell’unico Io Assoluto, che si incarna in alcune entità empiriche, come il capo, il partito o lo stato; nel secondo caso si ha quella che l’idealista chiama “intersoggettività”, per la quale si ha una lotta implacabile tra una molteplicità di assoluti ognuno dei quali cerca di prevalere sull’altro: quello che Thomas Hobbes chiama homo homini lupus.
Tuttavia gli idealisti per sostenere la loro filosofia contro il realismo e le altre filosofie, amano coalizzarsi tra di loro sotto forme apparentemente unitarie, ma nella loro condotta reale restano tra di loro in una competizione irresolubile, dato che ognuno di loro si considera una teofania dell’Assoluto. Dato che non possono esistere più Assoluti, essi tendono ad escludersi a vicenda.
Quanto alla parola “immanenza”, essa non è brutta, ma va distinta dall’immanentismo. In-manere in latino vuol dire semplicemente “rimanere in un luogo”. Ora non c’è nessuna difficoltà ad ammettere che Dio con la sua grazia sia in noi, nella nostra anima, come in un “tempio”, stando alle parole di San Paolo. Anzi è questo lo scopo del cristianesimo. Ma dev’essere ben chiaro che per quanto Dio abiti nel nostro intimo, Dio è Dio e noi siamo noi, restando cioè una differenza infinita tra la nostra essenza e quella divina.
Invece l’idealista su questo punto non fa assolutamente chiarezza, ma col parlare del “pensiero” senza ulteriori specificazioni, senza cioè distinguere pensare umano e pensare divino, essere reale ed essere pensato, cosa reale e idea della cosa, dato mentale ed essere esterno, fa una gran confusione lasciando credere che il pensare umano possa uguagliarsi al pensare divino e possa avere i suoi stessi poteri.
In tal modo l’idealista cade nel panteismo: l’uomo si fa Dio e con ciò stesso si cade anche nell’ateismo, in quanto l’uomo, non riconoscendo un Dio trascendente, pretende di sostituirsi a Dio nel pensare nell’agire, dando a se stesso un’illimitata libertà che in realtà si volge o può volgersi in ogni forma di licenza morale, non avendo più l’uomo da rispondere a un Dio che lo ha creato, ma solo rispetto a stesso divenuto legge a stesso e agli altri.
L’idealista stravolge completamente un sano concetto dell’interiorità. Egli può prendere a pretesto l’interiorismo agostiniano (in interiore homine habitat Veritas), deformato dall’idealismo cartesiano o magari dal soggettivismo luterano. Il concetto di “uomo interiore” è di indubbia ascendenza paolina (II Cor 4,16; Ef 3,16) e sappiamo quanto il cristianesimo ha stima della coscienza e della stessa coscienza soggettiva, ma nel quadro di un sano realismo, per il quale il pensiero e la coscienza non sono arbitri dell’essere, ma l’essere è esterno all’uomo e dipende solo da Dio creatore. Il mio stesso corpo è esterno e indipendente dal pensiero col quale lo penso e il mio pensiero sarà vero se sarà adeguato all’essere del mio corpo come del resto ad ogni essere col quale vengo a contatto.
E l’interiorità non è solo la mia interiorità, quasi fossi io solo lo spirito e la coscienza, mentre tutto ciò che mi sta fuori sia solo materiale e mera apparenza. Ma anche ogni altra persona, distinta da me, ha la sua interiorità, che per me dev’essere sacra ed inviolabile ed oggetto di sommo rispetto, benché possa realizzare una profonda comunione con essa, senza che però io abbia alcun diritto, quasi fossi io il principio dell’essere, a subordinare a me chicchessia o il mondo intero.
Questo è solo privilegio di Dio, che del resto ha uguale dominio su di me e solo così si ha un vero rispetto per la grandezza del pensiero, della coscienza e della libertà della persona come essere singolo ed associato, sotto la signoria benevola e misericordiosa del Dio Altissimo, presente nei cuori ma infinitamente trascendente e Signore dell’essere e della storia.
Libertà e Persona 14 ottobre 2012
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