di Sandro Magister
Come nei sinodi precedenti, anche questa volta Benedetto XVI ha aperto la prima sessione dei lavori, lunedì 8 ottobre, con una “lectio divina” sui testi dell’ora terza recitata poco prima con i padri sinodali.
Il papa ha parlato a braccio, come sempre in simili occasioni. Prima che fosse diffuso il testo della sua “lectio” sono quindi passate parecchie ore, necessarie per trascriverla, fargliela rileggere e metterne in bella copia la stesura approvata.
La conseguenza è che quando l’indomani i media hanno avuto a disposizione il testo integrale della “lectio”, la notizia era già stata sorpassata da altre più fresche. E praticamente è stata ignorata.
Un motivo in più per dare una scorsa a questo intervento del papa, che proprio in simili occasioni svela al massimo grado il suo intimo pensiero e le sue prime intenzioni, con la spontaneità tipica del linguaggio parlato:
“Cari fratelli, la mia meditazione si riferisce alla parola ‘evangelium’…”
Quella che Benedetto XVI ha più volte indicato come “la priorità” del suo pontificato, quella di riavvicinare gli uomini a Dio, ha occupato la prima parte della “lectio”.
E proprio a partire da questo primato di Dio il papa è passato poi a parlare della Chiesa. Con un rimando implicito alla disputa sulla natura del Concilio Vaticano II, da alcuni visto come una sorta di assemblea costituente.
Ecco che cosa ha detto in proposito Benedetto XVI:
«Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Dio. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: Adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito gli apostoli possono agire con lui e con la sua presenza e far presente quanto fa lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro. Dio ha parlato vuol dire: “parla”. E come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto il Vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio».Più avanti Benedetto XVI si è soffermato sulla parola “confessio”. Così:
«La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo “io” di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella “confessione” che ci parla della sua concezione verginale, della nascita, della passione, della croce, della risurrezione. Questo mostrarsi di Dio è tutto una persona: Gesù come il Verbo, con un contenuto molto concreto che si esprime nella “confessio”. [...] Qui è importante osservare anche una piccola realtà filologica: “confessio” nel latino precristiano si direbbe non “confessio” ma “professio”: questo è il presentare positivamente una realtà. Invece la parola “confessio” si riferisce alla situazione in un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa. In altre parole, questa parola “confessione”, che nel latino cristiano ha sostituito la parola “professio”, porta in sé l’elemento martirologico, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte. Alla confessione cristiana appartiene essenzialmente la disponibilità a soffrire: questo mi sembra molto importante. Sempre nell’essenza della “confessio” del nostro Credo, è implicata anche la disponibilità alla passione, alla sofferenza, anzi, al dono della vita. E proprio questo garantisce la credibilità: la “confessio” non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la “confessio” implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione. Questo è proprio anche la verifica della “confessio”. Si vede che per noi la “confessio” non è una parola, è più che il dolore, è più che la morte. Per la “confessio” realmente vale la pena di soffrire, vale la pena di soffrire fino alla morte. Chi fa questa “confessio” dimostra così che veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita. Proprio nella dimensione martirologica della parola “confessio” appare la verità: si verifica solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che “porto” la mia vita perché trovo la vita in questa confessione”.
Settimo Cielo 9 ottobre 2012
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