di don Antonio Ucciardo
Pochi giorni fa gli italiani hanno scoperto che, insieme con il cielo di Dio, esiste anche un cielo degli uomini. E’ stato Roberto Benigni a rivelare la sorpendente verità, nel corso dello spettacolo dedicato alla Costituzione. Il riferimento non si arresta soltanto a questa considerazione. Il comico, infatti, ha pensato bene di contrapporre la Carta fondamentale della Repubblica ai Comandamenti divini. Questi sarebbero un insieme di divieti; quella rappresenta invece un messaggio attuale di propositività. La repressione e lo slancio, insomma.
Il nostro intento esula dal commento sulla bontà delle norme costituzionali, sempre perfettibili. Non diciamo nulla neppure sull’ idolatrazione della Carta, mentre potremmo dire, per ragioni anagrafiche, di non ricordare che in Italia si fosse tanto legati alla Costituzione. L’amor patrio della mia generazione s’arrestava sul Piave, il 24 maggio. Meglio tardi che mai, senza dubbio. Soprattutto considerando il ruolo determinante che i cattolici hanno avuto nella nascita e nello sviluppo della Repubblica. Non è un male amare la Patria. Tutt’altro! Non è un male riscoprirne la legge fondamentale e proporla anche nel modo pensato da Benigni. Purché sia chiaro che si parla di una carta e non dell’assoluto. Il confine è assai labile, ed è facile passare dalle norme allo Stato che da esse prende forma. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di uno Stato che si concepisca come l’assoluto, vale a dire come la fonte della felicità. Mi preoccuperebbe l’idea che i padri costituenti, al di là dei tanti compromessi di cui la Carta è zeppa, abbiano voluto regalarci il cielo. Forse perché penso ai molti tentativi nella storia di poter donare il cielo attraverso l’attuazione della felicità sulla terra. Milioni di morti, e non solo nel nostro Occidente, per donare ai sopravvissuti un sogno di felicità mediante il dono di uno Stato assoluto. C’è da rabbrividire soltanto all’idea che uno Stato possa proporsi ancora come il cielo sulla terra. E mi viene il sospetto che qualche nipotino di quei fabbricanti di felicità terrena possa considerare la Costituzione come il vascello su cui veleggiare verso nuovi lidi di progresso. Non mi spiegherei, altrimenti, quel riferimento alla propositività della legge terrena nei confronti della legge divina.
C’è una singolare contraddizione in questo enunciato di libertà. Il settimo comandamento, per esempio, impone (usiamo un verbo adatto!) di non rubare. Ora, non sembra che la Costituzione consenta di farlo. Questo vale per per tutte le norme sancite dalla Carta della Repubblica. Un italiano non può rubare, non può uccidere, non può testimoniare il falso. Non c’è nulla di religioso nella Costituzione, nemmeno il nome di Dio o il richiamo alle origini della nostra civiltà; eppure c’è molto di vincolante, ed anche di religioso, almeno nel senso generico di un riconoscimento di qualcosa che precede le leggi che gli uomini si danno e fissano sulla carta. Insomma, persino la legge degli uomini recepisce una legge ancora più grande, che è dentro i loro cuori. Riconoscere che il cielo degli uomini riflette il cielo di Dio, non è umiliante. E’ semmai autenticamente liberante. Da questo punta di vista non vi è contraddizione di sorta tra il progresso autentico e la dipendenza da una legge. Si può affermare, quindi, che Benigni si è contraddetto, così come cade inevitabilmente nella contraddizione chiunque voglia liberare il cielo degli uomini al riferimento a quell’altro cielo. Oggi bisogna capire, però, se questa contraddizione abbia ancora una sua validità ai fini della comprensione dell’uomo e della sua società. Perché la dipendenza indiretta da una legge che precede, è stata spesso ribaltata dal riconoscimento di una legge che è imposta dal piacere, dalla moda, dalla cultura, dalle idee di pochi, da quello che si chiama politicamente corretto. Con frequenza crescente questi modi di pensare e di pretendere determinano le condizioni per un loro riconoscimento anche legale, così che è lecito ritenere che si tenti, per altra via, la realizzazione di una società felice nella sua totale indipendenza da una norma superiore. Una società siffatta non sarà mai felice.
Soltanto la Chiesa è rimasta lucida davanti alla frenesia di chi, volendo costruire il cielo sulla terra, pensa di poter perseguire ed assicurare la felicità con il riconoscimento di quello che ciascuno vuole per sé. Benedetto XVI è stato, ancora una volta, al centro di critiche spietate per aver ricordato che “operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità”. Eppure, in quel Messaggio per la prossima giornata della pace, Egli ha scritto: “Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”. Lo scandalo corale per la minaccia al riconoscimento delle coppie gay ha finito per emarginare le forti parole che il Papa ha riservato a questi tempi di crisi e al bene comune. Come dire che della crisi economica, in fin dei conti, non sembra importare granchè ai fautori del nuovo cielo sulla terra. Come non sembra importare neppure della ragione.
Un poliziotto riprende due donne che si baciano in pubblico, e subito qualcuno prospetta, nel cielo che verrà, corsi di formazione delle forze dell’ordine (da non confondere con la rieducazione forzata di altri cieli passati…). Nulla di nuovo sotto il sole. Abbiamo già visto quale sia la propositività del poter fare quando si mandano in soffitta i presunti divieti dei Comandamenti. Alla fine ne perdiamo anche in razionalità.
Nel tragicomico spettacolo della laicità, posta sull’altare come la dea Ragione di due secoli fa, a questa nostra società serve soltanto un barlume del cielo vero. Forse vale la pena di invitare a vivere come se Dio ci fosse, secondo la proposta intelligente di Benedetto XVI, vincendo la ritrosia che da più parti del nostro cattolicesimo si avverte. E visto che uno Stato che non fosse retto secondo giustizia, si ridurrebbe a una grande banda di ladri – tanto per fare nostra una citazione di Agostino riproposta dal Papa- , adoperiamoci affinché nessuno ci rubi il cielo. A cominciare da quanti dovranno rappresentarci in quel santuario laico che rischia di inchinarsi davanti ad un pezzo di carta per non doversi inchinare davanti a Dio.
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