giovedì 2 marzo 2023

Case e proprietà, Papa pigliatutto: dottrina rovesciata



Con due documenti in pochi giorni, papa Francesco accentra in sé tutte le proprietà vaticane e chiede l’affitto ai cardinali. Nello stesso tempo, in materia dottrinale e morale spinge per la “devolution”. Esattamente l’opposto di quel che ha sempre chiesto il Magistero: la sussidiarietà va applicata alla società e alla politica, ma non alla Chiesa.


VATICANO

ECCLESIA

Stefano Fontana 02-03-2023

Due recenti interventi di Francesco invitano a qualche riflessione su un principio caro alla Dottrina sociale della Chiesa, quello di sussidiarietà, e su come esso venga inteso nell’amministrazione del Vaticano in rapporto al suo contrario, ossia l’accentramento.

Il 20 febbraio scorso, con il motu proprio “Il diritto nativo” [QUI] Francesco stabiliva che le proprietà degli enti e delle istituzioni afferenti alla Santa Sede non vanno intese come proprietà privata di questi ultimi, e come tali gestite, ma come proprietà della Santa Sede. Il motivo viene indicato nella superiorità del principio della destinazione universale dei beni su quello della proprietà privata, come attestato dalla Dottrina sociale della Chiesa. Mentre la proprietà in capo ai diversi enti ecclesiastici della Santa Sede si fonderebbe sul primato della proprietà privata, la sua concentrazione in capo alla Santa Sede garantirebbe il primato della destinazione universale dei beni.

Nei giorni scorsi, inoltre, è stato reso noto un nuovo Rescritto del Papa, da lui assunto il 13 febbraio con l’udienza concessa al Segretario per l’economia Caballero Ledo, nel quale si stabilisce che gli appartamenti vaticani saranno concessi ai cardinali da parte degli enti proprietari a fronte del pagamento di un affitto a termini di mercato, ossia agli “stessi prezzi applicabili a chi non abbia incarichi nella Santa Sede”, e qualsiasi eccezione dovrà essere decisa dal papa stesso.

Questi provvedimenti si aggiungono ad altri due che, seppure da ambiti diversi, sembrano confermare l’attuale tendenza ”accentratrice” del papa: la riduzione della competenza dei vescovi nelle autorizzazioni alla messa in rito antico e la nuova configurazione organizzativa della diocesi di Roma. A stupire è il contrasto di queste disposizioni con quanto avviene in ambito dottrinale di fede e morale, ove il processo sinodale sembra invece togliere competenze al centro per concederle alla periferia, al punto da mettere in questione la natura stessa della Chiesa e della sua gerarchia di ruoli.

Per tornare al principio di sussidiarietà: il papa non sembra volerlo rispettare in alcuni ambiti di tipo organizzativo ed economico, mentre appare intenzionato ad applicarlo in campi di maggiore attinenza con la natura profonda della Chiesa. Ci si chiede: ma le cose non dovrebbero andare in senso opposto?

Illustri canonisti in passato hanno chiarito che il principio di sussidiarietà, che a far tempo dal paragrafo 80 della Quadragesimo anno (1931) la Chiesa ha applicato alla società e alla politica, non è applicabile alla Chiesa stessa, intesa nel suo mistero e nella sua realtà profonda istituita da Cristo e animata dallo Spirito. La Chiesa universale ha il primato sulle varie articolazioni della Chiesa locale e sui singoli cristiani. Mentre nella società civile prima vengono la famiglia e i corpi intermedi sociali e territoriali e poi viene il potere politico centrale, nella Chiesa accade l’inverso: non sono i cristiani a fare la Chiesa ma è la Chiesa a fare i cristiani. Non sono i tralci a fare la vite, unendosi insieme tra loro, ma è la vite a fare i tralci. Non siamo noi ad avere scelto Cristo, ma è Cristo che ha scelto noi.

In contrasto con questa visione, e in ossequio ad un principio di sussidiarietà forse non bene concepito, si pensa oggi di delegare competenze proprie della Chiesa universale e del Sommo pontefice a sinodi continentali, nazionali o diocesani, di conferire compiti di definizione dottrinale a conferenze episcopali e, in futuro, di associare al vescovo un sinodo permanente composto di sacerdoti e di laici con compiti decisionali. Col principio di sussidiarietà si vorrebbe cambiare la struttura della Chiesa da “monarchica” in “democratica”.

Contemporaneamente non viene applicato il principio di sussidiarietà nella gestione ordinaria, amministrativa ed economica, ove invece potrebbe esserlo, dato che anche il Vaticano ha esigenze proprie di ogni altra società. In questi ambiti la Dottrina sociale della Chiesa non ha mai visto con favore l’accentramento. Le ultime decisioni prese da Francesco in questo senso possono avere motivazioni che noi non conosciamo. Per esempio, possono essere dovute a dover fronteggiare una situazione economica o finanziaria difficile, anche se non sembrano risolutive su questo fronte: come possono gli introiti dagli affitti degli appartamenti ai cardinali contribuire a questa sproporzionata finalità? Sta di fatto, comunque, che è almeno forzato intendere la proprietà privata nelle mani degli enti ecclesiastici afferenti alla Sante sede come sussidiaria rispetto alla destinazione universale dei beni che sarebbe garantita solo dalla titolarità dei beni in capo alla Santa Sede.

I due principi della proprietà e della destinazione universale sono sullo stesso piano e non è corretto considerare il primo come subordinato al secondo. So bene che certi passaggi delle encicliche sociali possono essere letti in questo modo, ma altri completano il quadro, affermando che Dio ha dato i beni a tutti perché venissero lavorati e non semplicemente usati in modo promiscuo. E il lavoro richiama la proprietà, senza della quale nessun bene è una risorsa.







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