venerdì 10 marzo 2023

L’amor proprio




L’amor proprio - Prima parte - La natura dell’amor proprio

La natura dell’amor proprio


di Don Curzio Nitoglia

(da sì sì no no, 15 febbraio 2023)

Gioverà non occultare i propri difetti, facendo tuttavia attenzione a non recar scandalo ai semplici, accettando le umiliazioni che ne derivano.

Spesso succede che il Signore ci guarisce dalla vana gloria mandandoci qualche umiliazione. Perciò, è bene vedere nelle diverse umiliazioni che occorre soffrire dei rimedi provvidenziali; una sorta di medico e medicina assieme, inviati da Cristo stesso a guarire le nostre ferite spirituali e specialmente la superbia.


Per fare tutto ciò dobbiamo riuscire a ignorare la nostra ascesi, ossia la nostra presunta bravura spirituale e le nostre pretese virtù. Gesù ci ha detto: “Non sappia la tua mano destra ciò che ha fatto la sinistra” (Mt., VI, 3); anzi anche quando avessimo fatto tutto ciò che ci è comandato da Dio, dovremmo considerarci come “servi inutili e peccatori” (Lc., XVII, 10).

Un rimedio molto efficace che ci aiuta grandemente a non sentire orgogliosamente di noi è quello di riportare brevemente e senza scendere nei dettagli (per non riattizzare la tentazione) alla memoria i molti peccati che abbiamo commesso.
Insomma “chi si abbassa sarà innalzato e chi si eleva sarà abbassato” (Lc., XIV, 11), poiché coloro che cercano la gloria quaggiù non ne godranno lassù.


L’Imitazione di Cristo ci raccomanda “ama nesciri et pro nihilo reputari” cioè se vuoi essere conosciuto e amato da Dio, devi essere ignorato e disprezzato dagli uomini.
Gli atteggiamenti esterni che sono una spia per accorgerci di essere affetti dalla febbre dell’amor proprio sono: la pretesa di sapere, la smania di mostrare agli altri di sapere, l’ostinazione nel proprio giudizio e la sfiducia preconcetta in quello degli altri, la certezza assoluta di avere ragione totalmente, lo spirito di contraddizione e di polemica esagerata, la voglia di salire in cattedra e d’insegnare a tutti gli altri, il desiderio di comandare e il rifiuto di sottomettersi a chi sta in alto. Perciò, per guarire occorrerà: lottare contro la ricerca della volontà propria, dei propri capricci; munirsi di una sana diffidenza o perplessità nei riguardi del proprio giudizio; rinunciare ad autogiustificarsi; evitare di contraddire gli altri tranne quando neghino verità evidenti di ordine naturale o soprannaturale; non salire in cattedra, non dar sfoggio di sé, parlare poco e non voler comandare.

In san Paolo è divinamente rivelato: “Cos’hai, che non abbia ricevuto da Dio? Se l’hai ricevuto perché te ne glorifichi come se fosse tuo?” (I Cor., IV, 7). Inoltre: “L’iniziativa non è dell’uomo che vuole o che corre, ma di Dio che fa misericordia” (Rom., IX, 16).


Infine, il “rimedio dei rimedi” per vincere la febbre dell’orgoglio è l’orazione mentale: ossia, il colloquio amoroso con Dio, come un amico parla con l’amico, infatti, solo l’aiuto, il soccorso e la cura protettrice di Dio potranno farci prendere coscienza di quel che siamo veramente (un nulla) e di quel che possiamo da noi stessi (il male, la menzogna e il peccato).
I peccati “occulti”

Soltanto Dio invisibile può scorgere e guarire il nostro orgoglio più o meno nascosto, di cui neppure noi abbiamo piena consapevolezza: “Et ab occultis meis munda me” (Salmo XIX, 13). Nessun uomo riuscirebbe a guarire l’orgoglio invisibile e occulto di cui non è pienamente consapevole; tutto ciò è paragonabile a un morbo grave e insidioso, che cova e lavora segretamente nel nostro organismo senza alcun sintomo sino a che non esplode, ma allora è molto spesso troppo tardi.


San Massimo il Confessore insegna che “spesso ci s’inorgoglisce delle doti intellettuali, per esempio l’intelligenza, la memoria, il bel parlare e il bello scrivere” (Centurie sulla Carità, III, 84); poi, spiega san Giovanni Climaco, la situazione si aggrava e diventa molto più pericolosa perché a ciò fa seguito l’invaghirsi delle proprie qualità spirituali, come “il pregar molto, il predicar bene, essere virtuosi” (La scala, XXI, 31), questo è il “peccato occulto” per eccellenza.
Ora la vanagloria o l’invaghirsi di qualità esteriori (ricchezze, bellezza, forza, simpatia) è un vizio evidente e grossolano di cui ci si accorge e ci si può correggere più facilmente (SAN GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 11; SAN GREGORIO MAGNO, Moralia, VIII, 43), mentre l’orgoglio o vanagloria intellettuale è già più sottile, perché si situa al livello puramente raziocinativo e mentale. Normalmente, una persona che si dà veramente alla vita spirituale si accorge di questo difetto. Il pericolo estremo o il vero “peccato occulto” è il gloriarsi delle proprie “virtù apparenti”, come se fossero nostre e non un dono gratuito di Dio.


San Giovanni Climaco insegna, perciò, che “il demone della vanagloria sente una gioia particolare quando vede moltiplicarsi le virtù in un’anima portata all’orgoglio spirituale, e che, come la formica aspetta che avvenga la raccolta e il grano sia maturo, così la vanità spirituale aspetta che tutte le nostre buone azioni siano ammassate” (La scala, XXI, 2-3).
Sant’Evagrio Pontico costata che “l’orgoglio spirituale arriva solo dopo la distruzione dei difetti più appariscenti” (Riflessioni, 57). E san Massimo il Confessore insegna: “Se tu vinci le passioni più grossolane, fa attenzione alla vanagloria spirituale che sùbito ti assalirà” (Centurie sulla Carità, III, 59).


È per questo motivo che Gesù ci ordina di “rinnegare noi stessi” (Mt., XVI, 24) e di “morire a noi stessi” (Gv., XII, 24). Se non mortifichiamo noi stessi e il nostro egoismo, le nostre azioni, anche quelle apparentemente più buone, saranno guastate dal nostro amor proprio, dalla volontà propria, dalla fiducia presuntuosa ed esagerata in noi e il giorno del Giudizio ci ritroveremo senza meriti soprannaturali, avendo agito per amor nostro e non per la gloria di Dio.

Santa Maria Maddalena de’ Pazzi diceva: “Il maggior traditore che abbiamo è l’amor proprio, il quale fa come Giuda, in baciarci ci tradisce” (A. PUCCINI, Vita di Maria Maddalena de’ Pazzi, vol. II, Firenze, 1611, parte 6, cap. 1, p. 499).
San Tommaso d’Aquino insegna che “L’uomo veramente umile si stima inferiore agli altri, non per gli atti esteriori, ma perché teme di compiere per orgoglio nascosto persino il bene che fa” (S. Th., II-II, q. 161, a. 3).
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange insegna che uno dei maggiori ostacoli alla vita spirituale è l’orgoglio dell’anima, per il quale ci gloriamo della nostra perfezione e giudichiamo con molta severità gli altri. “Allora, Gesù ci spoglia dei beni sui quali avevamo concentrato la nostra affezione disordinata, e pensa Lui stesso a scavare nel nostro io malato a una profondità tale che neppure noi sospettiamo” (Vita Spirituale, Roma, Città Nuova, 1965, p. 177).

“Quale triste eredità del peccato, la natura umana è fortemente inclinata verso il male. L’egoismo, che è radicato nelle più segrete profondità del nostro essere, offusca la chiarezza dell’intelletto. Allora, l’egoismo c’impedisce la visione retta e oggettiva delle cose. Ciò avviene soprattutto quando l’amor proprio è interessato a farcele vedere in un determinato modo” (A. ROYO MARÌN, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960, p. 502).
Vale più la pratica della grammatica

Venendo alla pratica, san Luigi Maria Grignion de Montfort scrive che “Chi non ha lo spirito di Gesù Cristo, che è lo spirito della Croce, non appartiene a Cristo (Rom., VIII, 9)” (Lettera Circolare agli amici della Croce, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 219).
Inoltre: «Dio permette che i suoi più grandi Santi cadano in qualcuna delle colpe più umilianti, sia per abbassarli di fronte a se stessi e agli altri, sia per distogliere il loro sguardo e il loro pensiero da un ripiegamento vanitoso sulle grazie che Egli loro concede e sul bene che fanno, “perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor., I, 29). […]. Appena il nostro spirito, si sofferma con occhio di compiacenza su qualche dono di Dio, sùbito questo regalo, quest’azione, questa grazia si macchia e si rovina, e Dio ne distoglie lo sguardo. […]. A quante umiliazioni e croci Dio ci manda allora incontro! In quante colpe ci lascia cadere» (Lettera Circolare agli amici della Croce, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, pp. 242-243).

S. Agostino dice che “Dio sopporta meglio le azioni cattive accompagnate dall’umiltà, che non le opere buone infettate dall’orgoglio”.
San Gregorio Nisseno aggiunge: “Un carro di buone opere, ma tirato dalla superbia, conduce all’inferno, mentre un carro di peccati ma condotto dall’umiltà, arriva in Paradiso”.


In breve, la via per giungere all’umiltà sono le umiliazioni e non c’è mortificazione più grande che quella di vedere le nostre miserie e di toccarle con mano.


Sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali ci insegna che per unirci a Cristo dobbiamo imitarlo nel “patire ogni ingiuria, ogni disprezzo” (La Regalità di Cristo e la sua chiamata, n. 98). Inoltre, Gesù ci chiama “al desiderio degli obbrobri e dei disprezzi, perché da queste due cose nasce la vera umiltà” (I due stendardi, n. 146). Infine, ci ammonisce che per amare, imitare e rassomigliare veramente a Gesù Cristo dobbiamo “scegliere gli obbrobri con Cristo coperto di essi piuttosto che onori, e preferire essere stimati da niente e stolti per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, piuttosto che savio e prudente agli occhi del mondo” (I tre gradi di umiltà, n. 167).


Un rimedio efficacissimo, è quello insegnatoci da san Luigi Maria Grignion de Montfort.
Egli spiega che “quando si versa dell’acqua pura in un vaso dal fondo cattivo, oppure quando si versa del buon vino in una botte guasta; l’acqua limpida e il buon vino prendono facilmente un cattivo odore”. Lo stesso avviene, “quando Dio mette le sue grazie e rugiade celesti nel vaso dell’anima nostra, guastata dal peccato originale e attuale: i suoi doni ordinariamente si corrompono a causa del cattivo lievito e del fondo malvagio lasciati in noi dal peccato, e le nostre azioni, non escluse quelle ispirate dalle virtù più sublimi, ne risentono” (Trattato della vera devozione a Maria Santissima, parte II, cap. I, § 3, n. 78, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 312).

La necessità della schiavitù mariana

Di qui la necessità della vera devozione a Maria per vuotarci del cattivo fondo che rimane in noi. Infatti, da noi stessi non vi riusciremmo mai, sia perché nessuno è buon giudice di se stesso (cercheremmo di coprire o di non mettere a fuoco le nostre cattive inclinazioni), sia perché non abbiamo da soli la forza necessaria ma abbiamo bisogno della grazia di Dio, che è distribuita da Maria “Mediatrice universale di ogni grazia”.
Perciò, in primo luogo dobbiamo conoscere bene, con la luce dello Spirito Santo e il buon consiglio di Maria, le nostre cattive inclinazioni e soprattutto quelle più nascoste ai nostri occhi carnali. Poi, con l’aiuto dello Spirito Paraclito e di Maria, possiamo avere la forza per combatterle e sradicarle del nostro animo. Non a caso uno dei sette Doni dello Spirito Santo è quello del Consiglio e una delle litanie della Madonna la invoca quale “Mater Boni Consilii”.
La devozione o schiavitù mariana è definita da san Luigi de Montfort “un segreto nell’ordine della grazia per fare in poco tempo, con dolcezza e facilità operazioni soprannaturali, come lo spogliarsi di sé, il riempirsi di Dio e il divenire santi” (Ibidem, parte II, cap. I, par. 3, n. 82, p. 315).
La devozione alla Madonna è necessaria anche a causa della nostra condizione di natura ferita, la quale è talmente inclinata al male che se ci appoggiassimo solamente sulle nostre capacità, le nostre azioni rischierebbero fortemente di essere macchiate dall’amor proprio.

San Luigi de Monfort scrive: «Quanti “cedri del Libano” e “stelle del firmamento” son caduti e hanno perso la loro altezza e il loro splendore! Da che dipende questo strano cambiamento? Non certamente dalla mancanza della grazia divina, ma, dall’assenza d’umiltà. Costoro si credevano – occultamente e impercettibilmente – più forti e più abili di quanto non fossero. […]. Così, per questo loro appoggio sulle loro forze – anche se pareva loro di contare soltanto sulla grazia di Dio – il Signore ha permesso che fossero derubati e abbandonati a se stessi» (Ibidem, parte II, cap. I, par. 5, n. 87, pp. 319-320).
È chiaramente espresso anche qui – alla luce della Mariologia – il concetto di “peccato occulto”, ossia ci si appoggia su di sé, per un certo impercettibile e inconfessabile amor proprio, egoismo e orgoglio spirituale, non esplicitamente, ma occultamente, sembra che si conti solo su Dio invece si segue il proprio “io” e allora si va incontro alla rovina illudendosi di avanzare sulla via della santità, che è puramente esteriore e per nulla affatto reale e interiore.
Il rimedio proposto da san Luigi de Montfort è quello d’affidare a Maria Santissima il tesoro della grazia divina, che portiamo in vasi fragili (2 Cor., IV, 7), affinché ce lo custodisca e ci difenda dal nostro peggior nemico, che non è il mondo e neppure il demonio, ma il nostro “io” nel quale vive “quel certo spirito di proprietà che si insinua impercettibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 1, n. 137, p. 349) e che biblicamente si chiama “peccato occulto” (Sal., XIX, 13).
La Madonna è colei che “purifica le anime da ogni macchia di amor proprio e dall’impercettibile attaccamento alla creatura che s’insinua insensibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 145, p. 355).
Infatti “Gesù esamina il dono che gli facciamo e spesso lo respinge per le macchie di amor proprio di cui è contaminato” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 149, p. 356).
“Con la luce che lo Spirito Santo ci darà, per mezzo di Maria, conosceremo il nostro fondo cattivo, la nostra corruzione e incapacità di ogni bene soprannaturale […]. In séguito ci disprezzeremo come una lumaca che tutto insudicia con la sua bava […]. Insomma, la Vergine Maria ci renderà partecipi della sua umiltà. Perciò ci disprezzeremo, non disprezzeremo nessuno e ameremo di essere disprezzati” (Ib., parte III, cap. IV, par. I, n. 213, pp. 399-400); come diceva anche san Filippo Neri: “Sperne teipsum, sperne nullum, sperne se sperni”.

Conclusione

Raccomandiamoci a Maria con la bella preghiera che ha scritto san Luigi de Montfort: «Tenete, mia cara Madre, tutto ciò che ho fatto di bene con l’aiuto della grazia, del vostro Figlio divino; io non sono capace di mantenerlo a causa della mia debolezza e della mia incostanza. Purtroppo si vedono tutti i giorni i cedri del Libano cadere nella polvere e le aquile che s’innalzavano sino al sole diventare uccelli notturni; “mille giusti cadono alla mia sinistra e diecimila alla mia destra” (1). Perciò mia potentissima Regina, mantenete e custodite tutto il mio bene perché ho paura che me lo rubino, sorreggetemi perché ho timore di cadere; io vi do tutto ciò che ho. “Depositum custodi” (2). “Scio cui credidi” (3). So bene chi siete ed è per questo, che mi raccomando e consacro totalmente a voi; voi siete fedele a Dio e agli uomini e voi non permetterete che perisca nulla di ciò che io vi confido; voi siete potente e nessuno può nuocervi né tanto meno rapire ciò che avete tra le vostre mani» (Il segreto di Maria, parte II, cap. 3, par. 5, n. 40, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 460).


L’amor proprio - Seconda parte - Umiltà contro amor proprio


Il miglior antidoto contro il morso dell’amor proprio, è l’umiltà. Perciò, cerchiamo di vedere in cosa consista esattamente questa virtù.

Innanzitutto, per renderci atti ad acquistare la vera umiltà di cuore e non di parole soltanto, occorre cercare di non prestare attenzione ai difetti del prossimo, di non giudicarlo spietatamente e di usare misericordia verso di lui.

L’umiltà è la radice di tutte le altre virtù, proprio come l’orgoglio lo è di tutti i vizi.

Un esempio calzante c’è dato dalla vita di sant’Antonio abate del deserto, il quale narra di aver visto per dono di Dio «tutte le reti del demonio dispiegate in terra, e, gemendo disse: “Chi riuscirà, o Signore, a passare indenne oltre queste trappole diaboliche?” e la voce di Dio gli rispose: “L’umiltà!”» (ISAIA DI SCETE, Asceticon, III, 3).

L’umiltà secondo la teologia scolastica

Nella prima parte di quest’articolo abbiamo studiato l’amor proprio e l’umiltà soprattutto (ma non esclusivamente) alla luce dell’insegnamento della teologia patristica.

Nel presente vediamo come la scolastica abbia ripreso e sublimato l’insegnamento dei Padri ecclesiastici.

San Tommaso d’Aquino, il “Dottore Ufficiale” della Chiesa, insegna che l’umiltà è il fondamento della vita spirituale cristiana, proprio perché elimina l’orgoglio che è la radice e il principio di ogni peccato, in quanto ci allontana da Dio.

Ora, l’Angelico (S. Th., II-II, q. 161) spiega che se l’umiltà deve reprimere l’amor proprio in tutte le sue forme (specialmente quelle più sottili e perniciose: orgoglio intellettuale e spirituale); tuttavia, l’atto proprio e principale dell’umiltà non è negativo (ossia la repressione dei moti d’orgoglio), ma esso ha un duplice oggetto: umiltà positiva nei confronti di Dio e del prossimo (come la carità)

I - Umiltà verso Dio


Occorre che la creatura si abbassi sino alla terra (umiltà deriva dal latino humus ossia terra) dinanzi a Dio che l’ha creata dal nulla e ha formato il corpo del primo uomo col fango della terra.

Quest’attitudine di abbassarsi davanti a Dio significa riconoscere, non solo in teoria ma anche e soprattutto in pratica, la nostra inferiorità e piccolezza di fronte al Creatore; inoltre, dopo il peccato originale e i nostri peccati attuali dobbiamo riconoscere anche la nostra miseria o abiezione.

Come si vede l’umiltà vera non è affettazione o ipocrisia, ma è fondata sulla verità e specialmente su questa: tra il Creatore e la creatura vi è una distanza infinita.

Questa verità naturale si basa su un duplice fondamento dogmatico o divinamente rivelato: 

1°) l’arcano della creazione ex nihilo, che persino i più grandi filosofi dell’antichità (Platone e Aristotele) non arrivarono a conoscere esplicitamente, anche se esso potrebbe essere conosciuto dalla ragione naturale;

2°) il mistero soprannaturale (che sorpassa assolutamente le forze della ragione naturale) della necessità della grazia santificante e di quella attuale per salvarci l’anima e per compiere anche il minimo atto salutare.

Dalla prima verità naturale e dal duplice fondamento dogmatico di essa, ne derivano quattro conseguenze, che ci aiutano a mantenerci – almeno teoricamente – nell’umiltà riguardo a Dio e a quanto di divino c’è nelle creature.

Prima conseguenza: riguardo a Dio creatore, tutte le creature razionali devono riconoscere - non solo in teoria ma anche in pratica - che per noi stessi siamo un nulla, creati dal nulla e che se Dio non ci mantenesse nell’esistenza, ricadremmo nel nulla. Perciò, senza Dio creatore saremmo un niente assoluto.

Seconda conseguenza: Dio è non solo creatore ma anche ordinatore, ossia provvidenza che dirige tutte le creature al loro fine. Perciò, senza di Lui non avremmo alcuno scopo di vita e, inoltre, pur riconoscendoLo in teoria come provvido, se in pratica non ci lasciassimo condurre per mano da Lui passo dopo passo, sino al nostro traguardo, non vi giungeremmo mai. Di qui deriva la nostra dipendenza totale da Lui.

Terza conseguenza: nell’ordine soprannaturale, non possiamo fare neppure un passo senza il soccorso della grazia attuale. Questa verità è rivelata divinamente in san Paolo: “Nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non per mezzo dello Spirito Santo” (1 Cor., XII, 3).

Quarta conseguenza: dopo il peccato di Adamo e i nostri peccati dobbiamo riconoscere - non solo in teoria ma anche in pratica - non soltanto la nostra indigenza e il nostro niente ma anche la nostra malizia e miseria. La nostra volontà egoista, incostante e superba; il nostro carattere volubile; le contraddizioni del nostro spirito; la concupiscenza e l’avarizia che albergano in noi. Tutti questi disordini sono inferiori al nulla, sono come i numeri relativi rispetto allo zero.

La vera umiltà non è pusillanimità

L’abbassamento dell’umiltà è assai diverso dalla pusillanimità, che nasce dal rispetto umano e che rifiuta la fatica necessaria per giungere al proprio fine e dare gloria a Dio.

La vera umiltà non è contraria alla magnanimità o grandezza d’animo ma è unita a essa. Infatti, bisogna tendere a grandi cose ma con umiltà.

Il pusillanime si rifiuta di fare quello che potrebbe fare; invece, l’umiltà fa abbassare la fronte dell’uomo davanti all’infinita maestà divina, affinché possa essere al suo vero posto di creatura finita di fronte al Creatore infinito, di modo che il Signore possa agire liberamente nel nostro intimo e unirci sempre di più a Lui. Perciò, l’umile non si scoraggia, ma si pone tranquillamente nelle mani di Dio e fa in modo che Dio si serva di lui come un pittore di un pennello per produrre un quadro.

La pusillanimità, infatti, è il difetto di coloro che per eccesso di sfiducia in se medesimi o per una falsa umiltà, oppure per eccessivo timore di cattiva riuscita, non fanno fruttificare i talenti che Dio ha loro dato, nicchiano e rimangono inoperosi. Essa s’oppone alla magnanimità, che inclina a intraprendere grandi opere in ogni genere di virtù.

II - L’umiltà verso il prossimo


San Tommaso d’Aquino scrive che “ciascuno deve riconoscere che in quello che ha di suo, è inferiore a quello che ogni altro uomo ha da Dio” (S. Th., II-II, q. 161, a. 3). Infatti, ogni uomo è un nulla, creato dal nulla e mantenuto nell’essere. Di suo ha soltanto la deficienza, le lacune, i limiti e l’indigenza. Perciò, in maniera non solo speculativa ma anche pratica, deve riconoscere che tutto ciò che proviene da se stesso è inferiore a tutto ciò che ogni altro ha e riceve da Dio, sia nell’ordine naturale sia in quello soprannaturale.

Sant’Agostino nelle Confessioni (l. II, cap. 8) scriveva: “Non est peccatum quod fecit homo, quod non possit facere alter homo, ubi desit gratia Dei a quo factus est homo / non esiste peccato che abbia commesso un uomo, che non possa fare ogni altro uomo, se gli manca la grazia di Dio che ha creato l’uomo”.
In realtà è proprio così, non è retorica; infatti, io posso fare lo stesso peccato di Giuda se mi abbandona la grazia di Dio che mi ha creato dal nulla.

San Tommaso d’Aquino spiega: “La causa del bene che noi operiamo, è l’amore di Dio verso di noi. Esso non è la conseguenza della nostra bontà. Perciò, nessuno sarebbe migliore di un altro se non fosse amato maggiormente da Dio, che tuttavia ama sufficientemente ogni uomo” (S. Th., I, q. 20, a. 3). Insomma, la Bontà di Dio causa il bene che è in noi e Dio amandoci ci rende buoni. Perciò è assolutamente falso ritenere che poiché noi siamo buoni, allora Dio ci ama.

Questo è il principio di predilezione, come viene spiegato dall’Angelico, che si fonda sulla divina Rivelazione: “Che cosa hai tu che non abbia ricevuto da Dio? Allora, se lo hai ricevuto, perché te ne glorifichi come se fosse tuo?” (1 Cor., IV, 7).

Questo è il vero fondamento dell’umiltà soprannaturale. Ogni orgoglio dovrebbe cadere a pezzi di fronte a quanto rivelato in san Paolo e spiegato teologicamente dall’Aquinate.

Ecco perché la vera umiltà verso il prossimo, specialmente quella soprannaturale, così ben spiegata da san Paolo e definita nei minimi dettagli da san Tommaso, è immensamente diversa dalla pusillanimità e dal rispetto umano, ossia dal timore del giudizio dei mondani (timor mundanus), cioè la paura del giudizio negativo e della conseguente collera o persecuzione da parte dei mondani nei nostri confronti che riesce ad allontanarci da Dio.

La pusillanimità, dal canto suo, rifugge il lavoro necessario, fugge le imprese grandi che possiamo e dobbiamo compiere e inclina alle cose mediocri o basse.

Invece, la vera umiltà, di cuore e non di bocca, non fugge le imprese grandi e difficili; certamente ci fa inchinare davanti a Dio, ma non davanti alla prepotenza dei malvagi. Così, l’umiltà fortifica in noi la magnanimità, facendoci tendere umilmente a cose grandi, come Maria Santissima: “Quia respexit humilitatem ancillae suae, fecit mihi magna Qui potens est” (Lc., I, 46 ss.). Il medesimo Gesù ha detto: “Il Figlio dell’uomo è venuto, non per essere servito, ma per servire e offrire la sua vita per la Redenzione di molti” (Mt., XX, 28).
In effetti, la Redenzione è l’Opus majus, ma il Verbo divino l’ha realizzato con l’annichilazione dell’Incarnazione, con la nascita a Betlemme, con la morte sulla Croce: ossia con l’umiltà massima, “concilians in Sé ima summis”.

Che cosa fare in pratica


Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (Le tre età della vita interiore, Monopoli/Roma, Edizioni Vivere in, 1984, III vol., p. 150) ci dà i seguenti consigli: 1°) non dobbiamo mai lodare noi stessi, “chi si loda s’imbroda”; 2°) non si devono ricercare gli elogi degli altri, sarebbe ridicolo e ci farebbe perdere il merito delle nostre buone azioni; 3°) dobbiamo accettare pazientemente i rimproveri meritati senza imbronciarci; 4°) alcune volte dobbiamo accogliere con pazienza persino un rimprovero immeritato; 5°) infine, sarebbe bene chiedere anche l’amore dei disprezzi, come ci insegna san Giovanni della Croce, il quale rispose a Gesù che gli voleva dare ciò che più desiderasse: “Pati e contemni pro Te Domine”.

L’esempio pratico, di umiltà vissuta e insegnata, che ci ha lasciato Gesù.

Umiltà del Verbo Incarnato modello della nostra 
L’amor proprio. Terza parte


Il Verbo Incarnato è l’esempio pratico della somma e infinita grandezza che ha voluto chinarsi sino all’infima bassezza. Infatti, in Gesù si trova l’unione più perfetta di questi due estremi (la Divinità infinita con l’umanità non solo creata, ma umiliata e sofferente), eppure l’unione di questi estremi, di per sé incompatibili, in Gesù risulta essere addirittura meravigliosa.

In san Paolo (Fil., II, 5) è divinamente rivelato: «Gesù, benché sussistesse nell’Essenza di Dio, non ritenne per Sé avidamente quest’eguaglianza con Dio, ma annientò Se stesso prendendo la forma di schiavo e facendosi simile all’uomo […]; Egli ha umiliato Se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte di croce».

L’attitudine del Verbo Incarnato, che unisce nella Persona divina del Figlio due nature infinitamente distanti: quella divina e quella umana, è l’esatto opposto di quella di Lucifero e dei Trans/umanisti, i quali, pur essendo semplici creature, vorrebbero eguagliarsi a Dio. Invece, al contrario, Gesù si è realmente annichilato.

Certamente il Verbo Incarnato è rimasto Dio consustanziale al Padre e allo Spirito Santo, tuttavia ha pure assunto realmente la nostra povera, finita, creata natura umana.
In questo senso Egli si è annichilito, annientato, umiliato.

Infatti, prendendo la natura umana si è fatto “schiavo”, proprio perché l’uomo, creatura di Dio, è servo del suo Padrone e Signore. Perciò, il Verbo divino ha assunto nella propria Persona infinita la natura di servo.

Così Egli ha umiliato Se stesso per darci un esempio, infatti, Gesù ci ha insegnato esplicitamente: “Imparate da Me che sono mite e umile di cuore” (Mt., XI, 29).

L’umiltà consiste nella dipendenza da Dio e dall’Autorità alla quale Egli ci confida; invece, l’orgoglio mira all’indipendenza assoluta da ogni superiore sia umano sia divino. Ora, il Verbo s’è incarnato per guarire il nostro orgoglio e s’è abbassato sino a farsi uomo, a nascere in una stalla e a morire sulla croce.

L’umiliazione, perciò, rende meritorie le nostre azioni, anche le più basse, a tal punto che queste, per quanto naturalmente sembrano inutili possono diventare fecondissime di meriti soprannaturali.

Il Verbo divino, con la sua Incarnazione, Passione e Morte ha reso utilissima la cosa più orripilante e naturalmente inutile: il dolore e la sua manifestazione estrema, la morte!
La morte di Gesù, a uno sguardo puramente umano e naturale, è stata la più vergognosa. Egli, con ciò, ha voluto farci capire che per entrare nel Regno dei Cieli è necessario l’abbassamento della morte.

Gesù ci sprona a tendere alle cose più grandi (il Cielo), ma a farlo umilmente, con la totale sottomissione alla volontà (anche se crocifiggente) del Padre, conciliando umiltà e magnanimità.

E’ l’insegnamento del Vangelo, ripreso da santa Teresina del Bambino Gesù, la maestra della piccola via dell’infanzia spirituale: “Chi si farà umile come questo bambino, sarà il più grande nel Regno dei Cieli” (Mt., XVIII, 1).

In san Giacomo (IV, 10) è divinamente rivelato: “Umiliatevi davanti al Signore, ed Egli vi solleverà”.

San Tommaso d’Aquino (In Epist. II ad Cor., XII, 7) spiega che «come la Carità è la radice di tutte le Virtù, così l’orgoglio è la radice di tutti i vizi, poiché esso è il desiderio disordinato della propria eccellenza; infatti, la si vuole, senza subordinarla a Dio. Così ci allontaniamo da Dio: ecco il principio di ogni colpa ed ecco il motivo per cui “Dio resiste ai superbi mentre dà la sua grazia agli umili” (Gc., IV, 6). Ora, essendovi negli uomini virtuosi il bene per il quale possono inorgoglirsi, Dio permette talvolta che i suoi eletti abbiano in sé qualche infermità, qualche difetto, e talvolta persino un peccato mortale che impedisca loro d’insuperbirsi, che li umili veramente, e faccia loro conoscere che con le proprie forze non possono reggersi e ancor meno perseverare».

Ecco come nei grandi santi si conciliano l’umiltà e la magnanimità: essi tendono verso opere grandi in mezzo alle prove e alle umiliazioni più cocenti.

Nella Madonna Santissima vi è qualcosa di simile. Ella è Immacolata, ma nel Magnificat canta che la sua anima glorifica il Signore perché Egli ha guardato la bassezza o l’umiltà della sua schiava, tuttavia Egli ha fatto in lei grandi cose.


L’amor proprio - La guarigione dell’orgoglio
Quarta parte



La natura dell’orgoglio

L’orgoglio è un peccato dello spirito, che in sé è meno vergognoso e meno degradante dei peccati carnali, ma è molto più grave di essi (comunque – pure essi – sono “peccati mortali” (1)), poiché ci allontana molto di più e diametralmente da Dio (S. Th., I-II, q. 73, a. 5).

I peccati carnali non si trovano nel demonio, che è un puro spirito e si dannò per il suo orgoglio, il quale lo spinse a gridare “non serviam!”.

La divina Rivelazione ripete assai spesso che l’orgoglio è il principio di ogni altro peccato (Eccli., X, 15), poiché esclude ogni vero e sano rapporto con Dio; cioè, la sottomissione della creatura al Creatore. Perciò, esso interrompe ogni nostra relazione con Dio e ci separa irrimediabilmente da Lui.

Anche il peccato originale fu un peccato d’orgoglio (S. Th., I-II, q. 84, a. 2), cioè il voler “essere come Dio” (Gen., III, 5) e il conquistare da sé la “scienza del bene e del male” (Gen., III, 6), per poter guidarsi da solo senza essere sottomesso a nessuno e neppure a Dio.

San Tommaso d’Aquino (S. Th., II-II, q. 162, a. 8 ad 1um) spiega che l’orgoglio è qualcosa di più di un peccato capitale, infatti esso è la sorgente e la radice di tutti i peccati capitali e soprattutto della vanagloria, che è uno dei suoi primi effetti.

La definizione esatta dell’orgoglio è abbastanza difficile poiché esso si oppone non solo all’umiltà, ma anche alla magnanimità o grandezza d’animo.

Ora, occorre fare molta attenzione a non confondere la grandezza d’animo con l’orgoglio e neppure confondere l’umiltà con la pusillanimità, cosa che purtroppo è abbastanza frequente.

L’anima umile deve essere d’animo nobile e grande, ossia deve tendere umilmente a fare grandi cose.

L’Angelico ci aiuta molto a ben discernere l’umiltà dall’orgoglio, la pusillanimità dalla magnanimità.

L’orgoglio è definito dall’Aquinate amore disordinato della propria eccellenza. Infatti, il superbo vorrebbe apparire superiore a quello che è realmente. Questo disordine, quando si porta verso beni sensibili, si trova nell’appetito irascibile, per esempio colui, che si gonfia della sua forza fisica. Invece, si trova nella volontà, quando tende a beni spirituali o meta/sensibili, per esempio, l’orgoglio intellettuale e spirituale. In questo secondo caso il nostro intelletto considera, più del dovuto, le nostre qualità e le deficienze altrui e arriva sino a ingrandire le altrui miserie per elevarsi sopra gli altri.

Come si vede l’orgoglio è assai diverso dalla magnanimità: ad esempio un soldato deve desiderare ardentemente la vittoria della sua Patria, invece, l’orgoglioso desidera smodatamente la propria eccellenza.

Ecco perché l’orgoglio è rappresentato da una benda posta sugli occhi. Infatti, esso c’impedisce di “vedere” o meglio conoscere la realtà sia riguardo a Dio, di cui si nega la grandezza infinita, sia riguardo al prossimo di cui non si sopportano le qualità e specialmente riguardo ai superiori dei quali non si vuol accettare la loro superiorità. Insomma, l’orgoglio ci acceca.
 
Le varie forme dell’orgoglio

San Gregorio Magno (Moralia, XXIII, cap. 5) enumera vari gradi d’orgoglio:
credere che sia nostro quello che invece abbiamo ricevuto da Dio;
credere di aver meritato per la nostra bontà ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente per pura Misericordia divina;
attribuirci virtù che non abbiamo;

disprezzare gli altri e pretendere di essere migliori di loro e, dunque, preferirci a loro.
Il grado massimo d’orgoglio è quello luciferino, che pretende di eguagliare Dio. Tuttavia, questo grado è assai raro in maniera esplicita. Sennonché, se in teoria riconosciamo che Dio è il nostro Creatore e noi le sue creature, in pratica ci accade spesso di stimare esageratamente noi stessi come se fossimo gli autori delle qualità che Dio ci ha dato. Questa è una forma di pelagianesimo o addirittura di “luciferismo”, implicito, pratico o anonimo. Allora, ecco che esageriamo le nostre poche qualità e chiudiamo gli occhi sui nostri numerosi difetti. Tutto ciò ci porta inavvertitamente ma immancabilmente a preferirci agli altri e a disprezzarli, come il fariseo che salito al Tempio per pregare non faceva altro che lodare se stesso, disprezzare il pubblicano e non pensava per nulla a lodare Dio (Lc., XVIII, 10 ss.).

Queste colpe d’orgoglio, che inizialmente sono veniali, possono diventare mortali se ci portano a compiere atti reprensibili.San Bernardo di Chiaravalle (De gradibus humilitatis, cap. X) enumera dodici gradi di orgoglio:la curiosità, dalla quale ci guardiamo assai poco e che invece è molto nociva per la nostra anima;

la leggerezza di spirito, che oggi va molto di moda;
la sciocca gioia e fuori luogo;
la boria o alterigia;
l’arroganza;
la presunzione;
l’ostinazione nel non voler riconoscere i propri torti;
il negare e nascondere i propri difetti e sbagli;
la rivolta;
la libertà sfrenata o libertinaggio;
l’abitudine a peccare sino a voler disprezzare Dio per giustificare il proprio vivere disordinato;
la singolarità e il voler essere fuori da ogni regola.

Molto pericoloso è l’orgoglio intellettuale e ancor più quello spirituale. Infatti, esso può portarci a non accettare l’interpretazione tradizionale dei dogmi, ad attenuarli o addirittura a deformarli per renderli più accessibili alle esigenze dello spirito del mondo contemporaneo.

In altri l’orgoglio può produrre un attaccamento ostinato alle proprie opinioni sino al punto di non voler neppure ascoltare le ragioni della parte contraria. Infine, alcuni che – in teoria – sono nella verità, sono talmente pieni di sé e soddisfatti della loro conoscenza speculativa, che si dimenticano di dovere tutto quel che hanno ricevuto a Dio. Ora, se uno è pieno di sé, come può ricevere la grazia di Dio? Quest’orgoglio intellettuale e spirituale è un ostacolo insormontabile alla grazia salvifica.

Dal punto di vista spirituale, l’orgoglio può portarci a un grande accecamento, che ci fa arrivare a ritenere la nostra stessa vita spirituale come una sorgente segreta d’orgoglio, perché finiamo per compiacerci delle nostre opere buone stimando eccessivamente noi stessi come se fossimo gli autori principali di esse.

I difetti che nascono dall’orgoglio


Il primo grado dell’orgoglio è la presunzione, che consiste nel desiderio disordinato di fare cose che sono aldilà delle proprie forze (S. Th., II-II, q. 130, a. 1). Per esempio pensiamo di poter risolvere le questioni più difficili, sentenziamo con precipitazione e con assoluta certezza sui problemi disputati e più ardui, volendo insegnarli a tutti gli altri. Invece di costruire la nostra vita spirituale sull’umiltà, si aspira soprattutto all’azione eclatante, clamorosa e vistosa o si presume di essere giunti ai massimi gradi della vita unitiva o mistica.

Il secondo grado è l’ambizione. Infatti, siccome presumiamo eccessivamente delle nostre forze e ci reputiamo superiori agli altri, allora nasce in noi la smania di dominarli, di imporre loro le nostre opinioni in materia di dottrina anche con una certa prepotenza e arroganza (S. Th., II-II, q. 131, a. 1).

Infine, con il terzo grado, l’orgoglio ci porta alla vanagloria ossia alla bramosia di essere stimati per noi stessi senza riferire tale onore a Dio. Questo è il caso del pedante che si compiace di fare sfoggio della sua scienza parlando senza posa, che arriva poi sino alla pertinacia, ossia alla contesa aspra nel difendere le proprie opinioni, causando la discordia, la critica acerba e piena d’acredine (S. Th., II-II, q. 132, aa. 1-3).

Come guarire l’orgoglio


Il grande rimedio è riconoscere la grandezza infinita di Dio e la nostra dipendenza totale da Lui che è nostro Creatore, non solo in teoria ma anche in pratica. Infatti, spesso sappiamo teoricamente di essere stati creati dal nulla ma nella pratica ci comportiamo come se fossimo la causa e il fine di noi stessi.

San Tommaso d’Aquino spiega: “Siccome l’amor di Dio per noi è causa di ogni nostro bene, Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci ci rende buoni, perciò nessuno sarebbe migliore di un altro se non fosse più amato da Dio, che ama tutti sufficientemente” (S. Th., I, q. 20, a. 3).

Insomma, è del tutto sciocco gloriarsi di un bene che è in noi, come se non lo avessimo ricevuto da Dio, come se fosse nostra proprietà e non fosse ordinato a onorare Dio, sorgente e fine di ogni bene.

In breve il rimedio contro la mala pianta dell’orgoglio è riconoscere non solo de iure ma anche de facto che da noi stessi siamo nulla, che siamo stati creati dal nulla, dall’amore totalmente gratuito di Dio, indipendentemente da ogni nostro merito.

Attenzione! È importante che questo principio non resti in noi come pura teoria, ma che sia vissuto nella pratica e diriga tutti i nostri atti.

Per arrivare a tanto sono necessarie le umiliazioni concrete, che sole potrebbero purificare l’orgoglio radicato in ogni uomo dopo il peccato originale.

Le litanie dell’umiltà


Il cardinale Raffaele Merry del Val ha compendiato la dottrina dell’umiltà, alla quale in pratica si giunge solo attraverso le umiliazioni, in queste bellissime litanie, dette dell’umiltà, che sottopongo alla riflessione del lettore, raccomandandogli di recitarle e meditarle spesso:

«O Gesù, mite e umile di cuore, esaudiscimi.
Dal desiderio di essere stimato, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere amato, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere onorato, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere lodato, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere preferito agli altri, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere consultato, liberami o Gesù.
Dal desiderio di essere approvato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere umiliato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere disprezzato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere respinto, liberami o Gesù.
Dal timore di essere calunniato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere dimenticato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere preso in giro, liberami o Gesù.
Dal timore di essere ingiuriato, liberami o Gesù.
Dal timore di essere sospettato, liberami o Gesù!».

Che la Madonna ci ottenga la grazia di mettere in pratica quanto chiesto in queste litanie.
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1 - Non tutti i peccati mortali hanno la stessa gravità. Infatti, essi sono - più o meno - gravi, a seconda che si allontanano più o meno dalla retta ragione. La gravità del peccato varia secondo il loro oggetto, ossia se il peccato è commesso contro una cosa, una persona o Dio. Inoltre, la gravità del peccato varia anche secondo la dignità delle virtù cui esso va contro. Perciò, i peccati della carne sono di maggiore infamia, ma sono inferiori ai peccati di spirito (S. Th., I-II, q. 73, aa. 2-5).








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