venerdì 5 aprile 2013

Il linguaggio di Papa Francesco




di Francesco Agnoli



Nella Chiesa sono tante sensibilità e carismi. Vi sono santi della carità intellettuale, come Agostino e Tommaso, e santi della carità più “materiale”, come Camillo De Lellis o Vincenzo de Paoli. Ogni santo, ma in genere ogni credente, ha il suo vocabolario, ama cioè sottolineare e vivere in particolare una parte del messaggio evangelico. Il nuovo papa, a quanto sembra, più che sulla Bellezza (liturgica come espressione della bellezza celeste), sulla Ragione (come attributo di Dio e dell’uomo che ne partecipa), sul Bene (con annessi principi non negoziabili), cari al precedente, sembra puntare su altre parole: misericordia, perdono, povertà, pace…

Ma le stesse parole possono patire interpretazioni molto diverse tra loro. Sino al punto di essere “vuote”, come sosteneva Pirandello: chi le pronuncia, le riempie di un senso, chi le riceve può benissimo imporne un altro. A me pare che i Mancuso, i Kung e tanti altri vogliano riempire le parole di papa Francesco di ciò che hanno in testa loro.

Prendiamo la parola “misericordia”. Nel suo primo Angelus e nella prima messa da pontefice, papa Francesco ha detto: “non dimenticate questo: il Signore mai si stanca di perdonare, siamo noi che ci dimentichiamo di chiedere perdono”; e ancora: “Abbiamo bisogno di capire questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza con i nostri peccati, come dice Isaia se ‘fossero rossi come lo scarlatto li renderà bianchi come la neve‘”. Alcuni hanno interpretato in vari modi queste parole. Qualcuno ha scritto che è finita la Chiesa che condanna, che definisce cosa è bene e cosa è male. In nome, appunto, della misericordia. Non è così. Francesco ha un approccio da pastore, più che da teologo. Non che le due cose si possano scindere del tutto, ma certo vi è differenza tra il modo con cui si comunica una verità alle singole persone che si incontrano e il modo in cui la si definisce, per tutti, nella sua oggettività, in un documento, un catechismo, una enciclica.

Anche al Vaticano II i cosiddetti tradizionalisti fecero una proposta: distinguiamo le posizioni dottrinali, che come tali devono brillare per chiarezza e precisione, dalle indicazioni pastorali, sul modo più opportuno, più caritatevole e più efficace, di trasmettere una verità. Non era una idea sciocca, e forse avrebbe impedito che in nome del “come” annunciare, si finisse talvolta per oscurare e scolorire il “cosa”. Ebbene papa Francesco, come tanti altri nella storia della Chiesa, pone l’accento sulla misericordia e il perdono, perché questa è la sua indole personale; perché in fondo questo è il succo della “Buona novella”: Cristo non si è fatto uomo solo per annunciare la legge (lo aveva già fatto Dio-Padre sul Sinai); nè per togliersi qualche sassolino dalle scarpe contro gli uomini malvagi; si è incarnato per salvarci, per perdonarci, per amarci. Annunciarlo, ribadirlo, non significa affatto dimenticare l’esistenza del peccato, dal momento che alle parole perdono e misericordia si affianca, implicitamente, una necessità: che noi riconosciamo il nostro bisogno di essere perdonati, cioè, appunto, il nostro peccato.

La parola misericordia riporta alla mente la tradizionale definizione delle “opere di misericordia corporale” (“Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, visitare i carcerati…”) e quelle di “misericordia spirituale”. Tra queste ultime la Chiesa, accanto al “sopportare pazientemente le persone moleste”, “insegnare agli ignoranti”…, richiede anche di “ammonire i peccatori”. Non manca certo nella predicazione del cardinal Bergoglio, e poi di papa Francesco, questa opera di misericordia: penso ai numerosi riferimenti alle tentazioni del demonio; alle sante ammonizioni contro l’arrivismo ecclesiastico e l’assopimento dei pastori; alla condanna delle ingiustizie sociali e del crimine dell’aborto… Chi scrive ha una speranza: che proprio con il suo linguaggio -che ad alcuni, legati ad una interpretazione politica della fede, appare “di sinistra”-, il papa distrugga una grande ambiguità: quella per cui i cattolici “di destra” sarebbero insensibili alla giustizia sociale ecc, ma a difesa della vita nascente e della famiglia, mentre i cattolici “di sinistra” sarebbero invece vicini ai poveri e ai deboli, tranne che ai bambini innocenti.

Prendiamo un’altra espressione di papa Francesco: quella di una Chiesa “per le strade”, “aperta”. Cosa si vuol dire? Che la preghiera non conta più? Che andare incontro al mondo significa cambiare i contenuti della propria fede, a seconda delle mode? Scrive Silvina Premat, giornalista argentina, su “Tracce” di aprile, che il cardinal Bergoglio nella sua Buenos Aires ha rilanciato i pellegrinaggi, “la vecchia abitudine della Via Crucis e delle processioni per le strade dei quartieri e i presepi viventi nelle piazze o in altri spazi pubblici”, invitando i suoi sacerdoti ad andare incontro alla gente nella condivisione dei bisogni e con le devozioni popolari. In altri tempi questo si sarebbe chiamato, con linguaggio tradizionale, “spirito missionario”.



  Il Foglio, 4 aprile 2013




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