Gesù Cristo morto di Andrea Mantegna (1470-1474 circa o 1483 circa)
Domenica XXXI del Tempo Ordinario (Anno B)
(Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34)
di Alberto Strumia
Le letture di questa domenica contengono più insegnamenti di quanto, di solito, siamo abituati ad attribuire loro. E addirittura degli insegnamenti che non ci aspetteremmo se ci attenessimo al modo moralistico e penalizzante di considerare il cristianesimo che di esso si è fatta la maggior parte della gente comune. Comunemente, infatti, la gente considera il cristianesimo come una limitazione di ciò che è “umano”, dovuta ad una serie di regole che proibiscono di godersi la vita a quanti lo seguono.
1 – Il primo insegnamento, che traiamo dalla prima lettura, riguarda, infatti, quella che, con una formula sintetica, possiamo chiamare “la convenienza umana della fede”. Già fin dall’Antico Testamento, infatti, il Signore insegna al popolo di Israele che è più vantaggioso, anche per la vita terrena – individuale, familiare, sociale e di tutto il popolo – vivere attenendosi ai Comandamenti che Egli ha dato a Mosè sul monte Sinai. E questo perché quella Legge corrisponde alla natura dell’uomo, così come il Creatore l’ha predisposta. Anche se, talvolta ciò può costare fatica e sacrificio, alla prova dei fatti, alla prova della storia, una vita condotta seguendo i comandamenti, una cultura di popolo, una giustizia sociale che si fondano sulla “legge morale naturale” rendono “più vivibile” l’esistenza del singolo come quella della società. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, questa “convenienza” si mostra ancora più esplicitamente come “convenienza umana del cristianesimo”, per cui è più umano essere cristiani che non esserlo. Ai nostri giorni ciò si dimostra, alla prova dei fatti, talmente vero, che la vita impostata senza la fede in Cristo, o peggio contro di Lui, o addirittura su una dottrina cristiana manipolata fino ad essere rinnegata, diviene insopportabile per il singolo e insostenibile per la società e per i popoli. Oggi siamo arrivati a questo punto.
2 – Un secondo insegnamento, viene di conseguenza e possiamo chiamarlo con la formula “verifica del cristianesimo”. Nel Vangelo, infatti, vediamo, forse non senza nostra sorpresa, che Gesù si lascia “mettere alla prova” e “valutare” dallo scriba che «gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità”». Figuriamoci se Gesù poteva non aver «detto bene» e se lo scriba poteva permettersi di giudicarlo! Invece il Signore lo permette, anzi vuole essere “verificato” (= “mostrato vero”) in quello che dice, “messo alla prova dei fatti”. L’esperienza gli dà ragione. Questa “verifica” è una riprova della sua “credibilità”. Il cristianesimo è anche “ragionevolmente credibile”, perché porta frutti benefici all’uomo, anche se questi possono richiedere tempo, prova, fatica, croce, sacrificio, come del resto anche tutto il normale lavoro dell’uomo. La sfida culturale lanciata da Benedetto XVI che invitava a “vivere come se Dio esistesse” è, in ultima analisi, proprio un suggerimento a “verificare il cristianesimo”. L’avere rinunciato a questa sfida da parte della Chiesa di oggi, per adeguarsi alla mentalità del mondo è il più grave peccato che in essa si potesse commettere. È l’apostasia da Cristo! E tutti ne stanno già pagando le prime conseguenze.
3 – Il terzo insegnamento, che è quello centrale, è condensato nel famoso Comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Questo viene, normalmente, capito al contrario di quello che è, con un grave danno per la fede. Spesso, infatti, lo si riduce ad un “imperativo categorico” (di kantiana memoria), moralistico che impone di spendersi per il prossimo senza altra ragione che il “dovere”. Questo non è l’insegnamento di Cristo! Perché l’amore del prossimo non si sostiene se non è fondato su una motivazione ragionevole e umanamente conveniente. La generosità per la generosità, l’altruismo per l’altruismo, l’umanitarismo per l’umanitarismo, alla fine non si sostengono e finiscono per degenerare nel narcisismo di chi trova in essi un motivo per compiacersi di se stesso, per sentirsi più bravo degli altri e farsi vedere come tale («Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini», Mt 6,2). Anche se la volontà di partenza può essere sincera e l’impegno inizialmente gratuito, con il tempo non si può reggere, tanto è vero che anche le migliori organizzazioni umanitarie finiscono, quasi sempre, per spendere più denaro per mantenere se stesse di quello che impiegano effettivamente per la finalità per la quale erano nate.
– Al contrario, la natura umana richiede che prima di tutto uno ami se stesso, la propria vita, e cerchi il suo bene, la verità per la propria esistenza. Questa domanda di “verità della vita” porta a scoprire che essa c’è solo tra le braccia di “un altro” e che non basta “un altro qualunque”, ma si deve arrivare alla fine della catena, all’“Altro di tutti gli altri”, che è Dio: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza», perché scoprirai di essere amato da Lui e che solo stando con Lui vuoi veramente bene a te stesso. Questa è la “carità verso se stessi”: volersi bene perché si è preziosi agli occhi di Dio. Ciò ti aiuta ad amarti anche quando hai tutto il mondo contro di te, o ti sembra che sia tale.
– Oggettivamente parlando, l’amore per il prossimo viene di conseguenza, e non prima. Anche se, nell’esperienza esistenziale, in certi casi, può essere la porta che apre la strada verso la scoperta dell’amore di Dio. Ma l’amore di Dio c’era già prima anche se non te ne eri ancora accorto. Ecco perché nell’ordine previsto dal secondo grande Comandamento viene prima l’amore per se stessi e poi l’amore per il prossimo e non viceversa: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La seconda lettura, poi, ci parla dell’unicità del sacerdozio di Cristo, che significa l’unicità del Suo Sacrificio sulla Croce che è l’unico a salvare, una volta per tutte, definitivamente, il mondo. Ecco perché non c’è nessuna equivalenza tra le religioni, perché l’unico sacrificio di Cristo è solo nel cristianesimo. Anche qui, quando si insegna qualcosa di diverso si cade in una “grande apostasia”. Ed quella dei nostri giorni!
Il nostro “sacerdozio ordinato” non moltiplica l’unico Sacerdozio di Cristo, ma ne prende parte, così come la celebrazione dell’Eucaristia, nella santa Messa, non moltiplica quell’unico Sacrificio, ma partecipa ad esso, eliminando – nel Sacramento – la distanza spazio-temporale tra le nostre celebrazioni e l’Ultima Cena.
Domandiamo, allora, al Signore di avere gli occhi della fede come li ebbe Maria che, piena di grazia, per virtù dello Spirito Santo, vedeva in anticipo, rispetto a tutti noi, ciò che il Figlio ci ha rivelato e «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19).
Bologna, 3 novembre 2024
(Ho riproposto in questa domenica una mia riflessione della domenica 4 novembre 2018 che trovo del tutto pertinente anche oggi, e non era ancora apparsa su questo blog)
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