lunedì 20 maggio 2024

Giovanni Paolo II e Jérôme Lejeune: Due vite al servizio della vita”


Papa Giovanni Paolo II e Jerome Lejeune


Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog la relazione scritta da George Weigel, rilanciata dal National Cathoic Register. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella traduzione da me curata.



Di Sabino Paciolla, 20 Maggio 2024


Nota dell’editore [del National Catholic Register]: Il biografo di Giovanni Paolo II George Weigel ha pronunciato le seguenti osservazioni il 18 maggio a Roma, in occasione della II Conferenza internazionale di bioetica, cattedra internazionale di bioetica Jérôme Lejeune. È ristampato con il permesso.




George Weigel

Molti dei partecipanti a questa conferenza sono esperti della vita e del pensiero di un grande uomo di scienza e di fede, il venerabile Jérôme Lejeune; io non lo sono. Ma come biografo di Papa Giovanni Paolo II, so qualcosa di questo discepolo esemplare e potente pensatore, e so che questo grande santo aveva la massima stima di Jérôme Lejeune.

Come disse Giovanni Paolo in una lettera al cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi, il giorno dopo che il dottor Lejeune fu chiamato a casa dal Signore, il dottor Lejeune aveva un “carisma”: un dono di Dio che lo autorizzava a “impiegare la sua profonda conoscenza della vita e dei suoi segreti per il vero bene dell’uomo e dell’umanità, e solo per questo scopo”.

Jérôme Lejeune, ha proseguito Giovanni Paolo, era diventato “uno degli ardenti difensori della vita, in particolare della vita dei bambini pre-nati”. E nel farlo, era disposto “a diventare un “segno di contraddizione”, indipendentemente dalle pressioni esercitate da una società permissiva o dall’ostracismo che ha subito”.

Così, in Jérôme Lejeune, il mondo ha incontrato “un uomo per il quale la difesa della vita è diventata un apostolato”. Il carisma che il dottor Lejeune aveva ricevuto è stato vissuto nel servizio evangelico a Cristo e ai piccoli di Cristo.

I rapporti tra Giovanni Paolo II e Jérôme Lejeune, segnati da un profondo rispetto reciproco che si è trasformato in una forma di amicizia spirituale, sono certamente noti a tutti voi.

Sappiamo della gratitudine di Giovanni Paolo per il lavoro del dottor Lejeune sulla e per la Pontificia Accademia per la Vita, di cui Lejeune è stato il presidente fondatore.

Sappiamo della gratitudine di Giovanni Paolo per il lavoro strenuo del dottor Lejeune in difesa dei nascituri, al quale ha conferito una singolare autorità, dati i suoi risultati come uno dei più importanti scienziati della vita del mondo.

Sappiamo che il 13 maggio 1981, a pranzo, discussero delle minacce alla famiglia che Giovanni Paolo II cercò di affrontare con la creazione del Pontificio Consiglio per la Famiglia, collegando la difesa della famiglia alla difesa della vita in tutte le fasi e in tutte le condizioni.

Sappiamo che Giovanni Paolo chiese al dottor Lejeune di guidare la delegazione della Santa Sede che si recò a Mosca dopo la morte del leader sovietico Yuri Andropov: un grande difensore internazionale della vita che rappresentava il Papa al funerale dell’uomo che, come capo della polizia segreta sovietica, il KGB, aveva incarnato l’insensibilità del comunismo nei confronti della santità della vita – e che forse era alla testa della catena causale che portò a un altro evento il 13 maggio 1981.

Sappiamo della gratitudine di Giovanni Paolo per i servizi che il dottor Lejeune era in grado di rendere, anche in mezzo al suo lavoro scientifico e nella sua ultima malattia, all’Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi sul Matrimonio e la Famiglia.

E ricordiamo la visita di Giovanni Paolo alla tomba del dottor Lejeune, un amico che ringraziava Dio per le grazie che avevano abbondato nella vita di un altro, raccomandando quell’amico alla Divina Misericordia – e poi cantando la Salve Regina con la famiglia Lejeune.

Sapere tutto questo, per quanto edificante, significa rimanere un po’ alla superficie delle cose. È importante scavare più a fondo per cogliere l’essenza di questi due uomini e del loro rapporto.

A questo proposito, mi viene in mente una conversazione che ebbi alla fine degli anni ’90 con l’allora cardinale Joseph Ratzinger. Sapevo che il cardinale, a differenza della brutta caricatura di lui che era onnipresente sulla stampa mondiale, aveva un bel senso dell’umorismo. Così quel giorno iniziai la nostra conversazione prendendolo in giro per una foto che avevo visto di lui, scattata alla fine degli anni ’60, in cui indossava una cravatta molto larga invece del colletto clericale. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si mise a ridere e disse: “Vede, è come ha insegnato il Santo Padre nella Fides et Ratio: Dobbiamo andare dal fenomeno alle fondamenta!”.

Seguiamo dunque la prescrizione di Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio e passiamo dal “fenomeno” al fondamento”, riflettendo sulle radici intellettuali della passione che Giovanni Paolo II portava nelle cause della vita, passione che trovava rispecchiata nell’opera e nella testimonianza del suo amico Jérôme Lejeune.

Questa riflessione può iniziare da un corso di laurea in filosofia tenuto dal futuro Papa all’Università Cattolica di Lublino nel 1956-57.

Durante i suoi anni di permanenza nella facoltà di Lublino, Karol Wojtyla conduceva ogni anno un esame approfondito di un particolare filosofo o filosofi, in un seminario da lui diretto per gli studenti laureati. In questo seminario, nel 1956-57, Wojtyła e i suoi studenti più avanzati fecero un’attenta lettura delle filosofie di David Hume e Jeremy Bentham, sotto il titolo generale di un esame di “Norma e felicità”. L’effetto netto dello scetticismo di principio di Hume sulla capacità degli esseri umani di conoscere con certezza la verità di qualsiasi cosa, concludeva Wojtyła, era quello di spingere un cuneo spesso tra la morale e la realtà, in modo tale che la vita morale inevitabilmente andasse alla deriva in una nebbia di soggettività radicale. Il risultato di questa deriva, per Bentham, era l’utilitarismo: L’utilità, non la dignità, sarebbe stata la misura dell’uomo e del bene.

Ecco, appunto, un professore di filosofia preveggente.

Il professor Wojtyła e i suoi studenti, in una piccola università cattolica in una zona oscura della Polonia, stavano guardando a più di 30 anni nel futuro post-comunista: un futuro che nessun altro sembrava in grado di immaginare, dato il soffocante smog culturale della vita comunista. E nel farlo, iniziavano a sondare il terreno intellettuale della prossima lotta in difesa della dignità umana e della sacralità della vita: la lotta per difendere intellettualmente, e per incarnare nella cultura e nella legge, la dignità inalienabile e il valore infinito di ogni vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. Anche in mezzo alla peste comunista, Wojtyła e i suoi studenti, nell'”unico posto tra Berlino e Seoul dove la filosofia era libera” (come uno dei colleghi di facoltà del futuro Papa descrisse la loro università), leggevano filosofi britannici relativamente sconosciuti in Polonia e analizzavano la minaccia al futuro umano che sarebbe stata rappresentata se il loro pensiero fosse stato incarnato nella cultura, nella società, nella politica e nell’economia.

Karol Wojtyła portò questa preoccupazione – che la dignità umana e la santità della vita sarebbero state in grave pericolo se un’etica utilitaristica, sottoprodotto del nichilismo metafisico e dello scetticismo epistemologico, avesse avuto la meglio – al Concilio Vaticano II e oltre. Così, nel 1968, scrisse a un altro amico francese, il gesuita Henri de Lubac, con il quale aveva collaborato alla preparazione della bozza finale di quella che sarebbe diventata la Gaudium et Spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno, a proposito del lavoro intellettuale in cui era impegnato in quel momento in mezzo al suo pesante programma di attività pastorali:


“Dedico i miei rarissimi momenti liberi a un lavoro che mi sta a cuore e che è dedicato al senso metafisico e al mistero della PERSONA. Mi sembra che il dibattito odierno si svolga a questo livello. Il male del nostro tempo consiste innanzitutto in una sorta di degradazione, anzi di polverizzazione, dell’unicità fondamentale di ogni persona umana. Questo male è ancora più di ordine metafisico che di ordine morale. A questa disintegrazione pianificata a suo tempo dalle ideologie atee, dobbiamo opporre, piuttosto che una sterile polemica, una sorta di ‘ricapitolazione’ del mistero inviolabile della persona”.
Qui, suggerisco, siamo arrivati al “fondamento” del “fenomeno” delle “due vite al servizio della vita” – un fondamento costruito su una grande convinzione, un’analisi perspicace e due impegni fermi:

Primo, la convinzione che ci sono verità inscritte nel mondo e in noi, verità che possiamo conoscere con la ragione sia filosofica che scientifica in un processo di ricerca che può essere facilitato dalla frequentazione della Rivelazione divina; secondo, una chiara lettura dei segni di questi tempi, in cui l’umanità si stava mettendo in grave pericolo perdendo la presa su quelle verità, e soprattutto sulla verità che ogni vita umana non è un semplice aggregato di materiali biologici, ma è la vita di una persona, un essere spirituale con un valore infinito e un destino eterno; terzo, un fermo impegno a difendere l’unicità di ogni vita umana, in qualsiasi condizione e in qualsiasi stadio di sviluppo; e, quarto, un impegno altrettanto fermo a impostare questa difesa della vita in termini che potessero essere accettati da coloro che stavano perdendo la presa sulle verità inscritte nella natura e in noi.

Il dottor Lejeune avrebbe dato voce a questo quarto impegno nella sua straordinaria testimonianza davanti a una commissione del Senato degli Stati Uniti il 23 aprile 1981. In quell’occasione, descrisse con un linguaggio accessibile la genetica dell’inizio della vita umana (“I cromosomi sono le tavole della legge della vita, e quando sono raccolti nel nuovo essere umano… descrivono completamente la sua costituzione personale”). Poi, ha spiegato come la costituzione genetica di ogni persona umana sia unica e irreplicabile. Infine, ha tratto l’ovvia conclusione scientifica: “Accettare il fatto che dopo la fecondazione è nato un nuovo essere umano non è più una questione di gusto o di opinione. La natura umana dell’essere umano, dal concepimento fino alla vecchiaia, non è un’ipotesi metafisica ma, piuttosto, un fatto evidente dell’esperienza”.

Giovanni Paolo II ha tratto le chiare conclusioni morali da questo fatto scientifico quando, nell’enciclica Evangelium Vitae, ha insegnato il principio generale che l’uccisione diretta e deliberata di qualsiasi vita umana innocente è sempre gravemente immorale, e poi ha applicato questo principio generale a un rifiuto di principio dell’aborto e dell’eutanasia, in qualsiasi circostanza. Una società giusta e giustamente ordinata, ha insegnato Giovanni Paolo, riconoscerà sia il fatto scientifico che la conclusione morale, e quindi fornirà protezione legale alla vita umana in tutte le fasi della vita e in tutte le circostanze della vita, fornendo allo stesso tempo cure compassionevoli a coloro che affrontano gravidanze in crisi e a coloro che affrontano malattie terminali.

Jérôme Lejeune e Giovanni Paolo II hanno capito che non si tratta di verità accessibili solo ai cattolici. Non è necessario il dono della fede per comprendere che la vita umana inizia al momento del concepimento e che la dignità di tale vita non è diminuita dalla debolezza, dalla disabilità o dalla malattia terminale. Non è necessario il dono della fede per capire che una società giusta avrà a cuore la vita innocente nella cultura e proteggerà la vita umana innocente nella legge. E così la Chiesa può sostenere il diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale su basi che qualsiasi persona moralmente seria può comprendere.

Sembra dolorosamente ovvio che, negli anni successivi alla morte di queste due grandi anime che hanno dedicato la loro vita al servizio della vita, le minacce alla dignità umana e alla santità della vita a cui Jérôme Lejeune e Giovanni Paolo II si sono sforzati di resistere con tanta forza si sono intensificate, come avete discusso in questi due giorni.

Ecco perché il lavoro continuo della Fondazione Jérôme Lejeune è così importante.

Ed è per questo che dobbiamo sperare che la decostruzione della Pontificia Accademia per la Vita e dell’Istituto Paolo II per gli Studi sul Matrimonio e la Famiglia, un processo doloroso che si può osservare nell’ultimo decennio, venga fermato, e poi invertito, negli anni a venire.

Per decenni, la [Pontificia] Accademia [per la Vita] e l’Istituto Giovanni Paolo II hanno svolto un lavoro creativo e innovativo nello sviluppo di una teologia morale cattolica e di una pratica pastorale in grado di affrontare la sfida degli assalti del XXI secolo alla dignità e alla santità della vita – e lo hanno fatto in modi che chiamavano le varie espressioni della cultura della morte alla conversione: una conversione alle verità inscritte nel mondo e nella condizione umana dal Creatore. Eppure, ora, l’accademia ha pubblicato un libro dall’ironico titolo La Gioia della Vita, scritto da teologi che possono solo essere descritti onestamente come dissenzienti dall’insegnamento autorevole dell’Evangelium Vitae. Quel libro non solo indebolisce la tesi cattolica di una cultura della vita che rifiuta i gravi crimini contro la vita identificati dall’Evangelium Vitae. Lo fa in termini di un’antropologia anti-biblica e anti-metafisica che sarebbe stata completamente estranea, anzi aborrita, sia da Jérôme Lejeune che da Giovanni Paolo II. E come la Pontificia Accademia della Vita tradisce il suo presidente fondatore, il dottor Lejeune, pubblicando e promuovendo un libro così poco informato e mal argomentato, così il ricostituito Istituto Giovanni Paolo II, ora in gran parte privo di studenti, tradisce l’intenzione del santo e dello studioso che lo fondò e che chiamò la teologia morale cattolica a un rinnovamento che non si arrendesse allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, ma piuttosto lo convertisse alla giusta ragione, alla vera compassione e al nobile esercizio della libertà.

Possiamo sperare e pregare che le virtù eroiche di Jérôme Lejeune siano ufficialmente riconosciute dalla Chiesa, in modo che possa unirsi al suo amico Giovanni Paolo II tra le file dei beati e dei canonizzati. Se ciò dovesse accadere, sarà perché la Chiesa si è convinta che queste due vite al servizio della vita sono state vissute da uomini coraggiosi, di fede e di ragione, che sapevano che la verità ci rende liberi nel senso più profondo della libertà – e che la testimonianza della verità ci chiama a essere, quando necessario, segni di contraddizione, come il Signore Gesù stesso.

Grazie




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