lunedì 26 dicembre 2022

Santo Stefano diacono e protomartire, nell'ottava di Natale





S. Stefano

primo dei 7 diaconi scelti dagli Apostoli per essere aiutati nel loro Ministero
lapidato alla presenza di Paolo (di Tarso) prima della conversione
primo martire, è venerato sia dalla Chiesa Cattolica sia da quella Ortodossa

Preghiera con Indulgenza plenaria: qui


Qui, Le meditazioni liturgiche tratte dall’Année Liturgique di dom Propser Guéranger (Le Mans 1841-1866) per il tempo di Natale.


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di Tito Casini

Per essere uno dei santi, come si dice, più grossi, santo Stefano primo testimonio si trova nel calendario liturgico due volte l'anno: la festa e l'ottava. E siccome la sua festa cade il 26 dicembre (l'ottava, quindi, il 2 gennaio), il nome di Stefano figura nell'anno di Dio al principio e alla fine: come dire che ai due poli dell'anno rifulgono due corone.


Quanto poi alla sua grandezza, basta guardare dove lo ha messo la Chiesa: la sua festa, il giorno dopo Natale; l'ottava, il giorno dopo la Circoncisione: sempre, cioè, accanto a Gesù, preferendolo perfino a san Giovanni evangelista (27 dicembre), che non può, nel calendario, poggiare il capo sul petto del Signore perché di mezzo c'è Stefano.


E Stefano veramente si merita di stare accanto a Gesù, perché non solo a Gesù rese per primo la valida testimonianza del sangue - primo avverando le parole di Gesù: «Ecco ch'io vi spedisco de' profeti e de' savi e degli scribi, e voi, parte ne ucciderete e metterete in croce, parte ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città» - ma gli rassomigliò in maniera che, leggendone nel Nuovo Testamento la storia, ci s'illude a un certo punto di aver tra mano non gli Atti di Luca ma un quinto Vangelo dopo quel di Giovanni.


Infatti, la storia degli Apostoli principia, nel racconto del pittore a Teofilo, dagli ultimi atti di Gesù.
Dicendo l'ultime parole: «Mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e Samaria e sino agli estremi del mondo», Gesù si era tolto da poco ai discepoli, alla madre e alla terra. La nuova loro orfanezza era stata già consolata dall'avvento della Terza Persona, che li aveva a fuoco rilavorati, nel cuore, nella mente e nella lingua; già Pietro, parlando, come capo, una prima volta a una folla mista di «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e de' paesi della Libia intorno a Cirene, avventizi romani sia giudei che proseliti, Cretesi e Arabi», ne aveva tratto, da tutti inteso, tremila credenti; e una seconda volta, aggiungendo la parola al prodigio, altri duemila ne aveva portati al battesimo (così si avveravano sotto i loro occhi le parabole poco prima udite del lievito e del chicco di senapa); già, per questo, Pietro e Giovanni avean patito prigionia e battiture, uscendo dal carcere e dai flagelli «lieti d'esser fatti degni di patir contumelie per il nome di Gesù».


Ma nessuno, per quel nome, aveva reso ancora la calda testimonianza del sangue, non ancora la pianticella di Cristo era stata innaffiata da questo liquido prezioso, i fedeli non avevano ancora reliquie di santi da baciare, allorché dalla massa dei credenti Stefano emerse.


Quale delle due retate di Pietro lo aveva catturato a Cristo? Fosse l'una o fosse l'altra, egli era già buon servitore di Cristo allorché i Dodici, cupidi di predicare e pregare, chiesero di «sette uomini di buona riputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza» a' quali commettere il pensiero della dispensa: tra gli eletti, il primo fu Stefano, «uomo», torna a dir Luca, «pieno di Spirito Santo».


La fede - Cristo lo aveva detto - è fonte di prodigi: chi n'abbia quant'un chicco di senapa può dire a una montagna: lèvati di qui e buttati in mare - e quella gli dà retta. Stefano, che n'era «pieno», faceva infatti «prodigi e segni grandi tra il popolo», tanto da richiamare alla mente quell'altro di Nazaret, e da mettere in serio pericolo le fortune sinagogali.


Meno male che lo zelo dei postulatori di Barabba era sempre acceso?
Non potendola con lui a fatti, e serbandosi di ricorrere alle cattive quando proprio non vi fosse stata altra via, i vincitori di Gesù si provarono con Stefano a parole. Ma Stefano, come era potente di mano, così era di lingua, e i sermonisti della sinagoga quante volte si attriccarono con lui tante n'ebbero la peggio, col bel guadagno che il popolo, assistendo alla gara, si buttava sempre più dalla parte del vincitore. Inutile confondersi: per concluder qualcosa bisognava rimetter mano al borsellino. Fortuna che Giuda non era stato molto esigente: in fondo alla pelle di montone c'era sempre tanto (la comprar due testimoni che si fossero contentati di una cosa giusta.

Trovati - cosa facile - i testimoni, e ammaestrati ben bene che non s'imbrogliassero poi al momento buono come que' due balordi dell'altra volta, con pochi altri spiccioli, spesi per mettere insieme un po' di baccano, Stefano fu preso e menato dinanzi al sinedrio.

L'accusa era anche questa volta di maldicenza grave e continuata contro il tempio e la legge, e, a provarla, ecco i testimoni. L'usciere comincia la chiama, e il primo che si presenta dice: «Quest'uomo non fa che sparlare contro il luogo santo e la legge: difatti, gli abbiam sentito dire che Gesù, quel tal Nazareno, distruggerà questo luogo e muterà i riti che ci ha tramandato Mosè». Ne viene un altro e: «Quest'uomo non fa che sparlare contro il luogo santo e la legge: difatti...» Il terzo, idem. Le testimonianze erano così chiare e concordi che il sommo presidente non ebbe bisogno, per l'onor della cosa, di fare altre domande o di rimetterei un'altra volta il vestito, ma senz'altro diede la parola a Stefano, perché, se poteva, si discolpasse: «Stanno proprio così le cose?»


Ma Stefano doveva aver badato poco a quel che si diceva di lui, perché, dicon gli Atti, «guardandolo fisso, tutti quei che sedevano nel consiglio videro il suo viso fatto come il viso di un angelo». La sua conversazione era stata, come vuol Paolo, nei cieli.

Tuttavia, all'interrogazione del sommo sacerdote rispose. Rispose, anzi, con un lungo discorso: un compendio di tutta la storia patria da Abramo in giù, con dei continui «ma» a marcare il contrasto fra la costante larghezza di Dio e la costante ingratitudine del suo popolo... Non era davvero quello il verso di rabbonire verso di sé i suoi giudici, e men che meno fu la finale. Infatti, lui che aveva esordito così onestamente chiamando i suoi accusatori col nome di fratelli, e i giudici con quel di padri («Fratelli e padri, vogliate ascoltarmi...»), terminò chiamandoli rispettivamente traditori e assassini: «...Voi pure siete come i padri vostri. Quale dei profeti i padri vostri non perseguitarono? Uccisero perfin quelli che annunziarono la venuta del Giusto, di cui ora voi siete stati i traditori e gli assassini».


Le facce di quei fior di galantuomini a sentirsi titolare in quella maniera è più facile immaginarsele che descriverle. Luca dice che «digrignavano i denti».

Ma il colmo della misura fu quand'egli aggiunse, fissando il cielo - la sua conversazione era già tornata lassù -: «Ecco io vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo stare alla destra del Padre!» Sibilando di rabbia come bisce accerchiate dal fuoco e tappandosi per l'orrore le orecchie, gli si affulcarono addosso... lo trascinaron fuor del sinedrio.


E i sassi volarono d'ogni parte sul corpo del diacono, che si veniva vestendo di rosso, come il sacerdote per la messa dei Martiri. Egli, guardando il cielo aperto, sorrideva beato, come se invece di pietre gli lanciassero, per festa o gioco, morbide rose. Lapides torrentis illi dulces fuerunt... Quando gli parve d'esser tutto parato, anch'egli si mosse per fare il suo introito all'altare di Dio: «Signore Gesù,» disse, «ricevi lo spirito mio». Si ricordò che non eran rose quelle che gli ricadevano imporporate d'attorno, non accoliti, chi le lanciava, che gli porgessero i paramenti e il vino, - e pregò, come il Sommo Sacerdote aveva pregato: «Signore, non imputar loro questo peccato!»

«Ciò detto,» registra Luca con espressione che non si cesserà di ripetere, «si addormentò nel Signore».



Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 155-161.




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