lunedì 3 giugno 2013

Mattia Rossi. Esiste una musica sacra?









di Mattia Rossi

In una intervista di qualche mese fa, mons. Vincenzo De Gregorio (da settembre dello scorso anno Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma), pubblicata sull’“Osservatore Romano”, si può leggere: «Quello che è importante per la “musica sacra” di oggi come di ieri non è tanto l’aggettivo “sacro”, ma la parola “musica”». In queste parole, che non esito subito a definire pericolose, si odono fin troppo bene i riverberi del celebre “Documento 80”.

Per chi non fosse addentro, e non sapesse di che cosa si tratta quando citiamo il “Documento 80”, occorrerà fare una piccolissima premessa. Un gruppo di liturgisti – diciamo: non propriamente dei tradizionalisti… – nei convulsi anni postconciliari si riunì in una associazione, denominata “Universa Laus”, con lo scopo di incarnare lo “spirito” del Concilio Vaticano II, in particolare nelle sue (presunte) innovazioni in campo musicale: ne uscì, nel 1980, un breve documento programmatico denominato, appunto, “Documento 80”.

In esso, sin dalle prime righe, viene precisato come espressioni quali “musica sacra” sarebbero da rifiutare in quanto, sostanzialmente, non vi è musica che possa definirsi sacra in sé: «Non vi sono, in liturgia, canti o musiche che siano sacri in se stessi. Nel culto cristiano, non la musica è sacra, ma la viva voce dei battezzati che cantano in Cristo e uniti a lui», si legge.

Sin da queste affermazioni, che qui cercherò di confutare, si nota la forte divergenza col Magistero ecclesiale e, se vogliamo, anche con quel Concilio Vaticano II il cui “spirito”, Universa Laus, si propone di incarnare.

Leggiamo, infatti, al capitolo VI della “Sacrosanctum Concilium” (intitolato, non a caso, “La musica sacra”, locuzione che ricorrerà, in tutto il documento, più di venti volte): «la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie» (SC, 112). Riecheggiano, qui, le parole utilizzate da san Pio X nel motu proprio “Inter sollicitudines”: «La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità. Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità». Il Magistero ecclesiale, come si vede, discerne e riconosce un preciso genere sacro con chiare qualità tecniche e artistiche che possa ben adattarsi alla liturgia. Qualità che, il Magistero, non ha mai smesso di riconoscere presenti nel canto gregoriano e nella polifonia classica, i due bacini dai quale attingere.

Chi obietta che la “pastoralità” del Vaticano II non accompagna una “dogmaticità” musicale, occorre ricordare che, oltre che applicare questo criterio anche a tutti gli altri settori della liturgia (lingua, orientamento della celebrazione, architettura sacra, ad esempio), le banali facilonerie musicali prodotte in una cinquantina d’anni sono ben poca cosa rispetto ai supremi capolavori scritti, in quasi duemila anni, perseguendo proprio quelle «qualità necessarie» che una musica cultuale deve possedere.

Detto questo, però, ricordiamoci che c’è anche un altro confronto che non regge e al quale nessuno può sottrarsi, quello con la storia.

L’esistenza di un canto cristiano proprio è attestato già da san Paolo. Egli si presenta, infatti, come il primo testimone di una musica sacra grazie ad una serie di sue testimonianze, eccezionali in tutta la letteratura cristiana immediatamente successiva a Cristo. Ricordiamo la sua raccomandazione contenuta nella Lettera agli Efesini: «trattenendovi fra di voi con salmi, inni e cantici spirituali» (5, 19). Si presti bene attenzione, in questo caso, a non farsi tradire dalla traduzione: l’espressione «cantici spirituali», infatti, potrebbe far pensare, in prima analisi, ad un canto “interiore”, spirituale, appunto. Ora – ha dimostrato mons. Ernesto Teodoro Moneta Caglio – già da un punto di vista logico vi sarebbe un’incongruenza: se il canto è “interiore”, come è possibile “intrattenersi a vicenda”? È evidente che si tratta di canto vero e proprio e, confrontando la versione greca, notiamo che il termine «spirituale» corrisponde a pneumatikos, cioè “ispirato”: negli autori cristiani il riferimento è allo Spirito Santo che, col suo soffio, ispira il canto cultuale. Questo è confermato da un altro passo paolino: «ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando nei vostri cuori a Dio, per impulso della grazia, con salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3, 16). Anche qui, il canto non può essere solamente “interiore” dato il suo scopo, in questo contesto, educativo ed edificatorio («ammaestratevi e ammonitevi»). Più esplicita è, infine, la testimonianza contenuta negli Atti degli Apostoli: «[in carcere] verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (Atti 16, 25). Il contesto, qui, è indubbio e testimonia, oltre al fatto che Paolo cantasse, anche che il livello qualitativo di quel canto dovesse essere tale da destare quantomeno attenzione negli ascoltatori.

Se già con san Paolo possiamo supporre che la Chiesa abbia intrapreso un proprio binario musicale, questo ci viene confermato da un interessante passo di Clemente Alessandrino risalente alla fine del II secolo (a. 195 ca.): «si scelgano musiche dignitose, allontanando il più possibile le musiche di effetto svenevole atte a sollecitare il nostro prepotente istinto. Esse, composte ad arte con malizia, grazie alla flessuosità degli intervalli, trascinano alla mollezza e alla trivialità. Le melodie austere e dignitose, invece, precludono le licenze dell’ebbrezza. Bisogna, dunque, lasciare le melodie cromatiche alle gozzoviglie spudorate e alla musica amatoria ornata di fiori» (Pedagogo, I, 2, 4). Si noti anche come l’autore parli della musica cristiana come di una cosa normale: se essa foste stata appena agli inizi, non vi sarebbe così grande precisione e i toni sarebbero dovuti essere molto più “in difesa” della nuova musica.

A quest’altezza cronologica, dunque, è certo che la Chiesa ha già istituito un proprio canone smarcandosi da qualsiasi forma musicale profana (e gli studi di Moneta Caglio lo hanno dimostrato). Ha già rinunciato, la Chiesa, anche all’accompagnamento strumentale (è sempre Clemente Alessandrino a precisare, nel Pedagogo, che l’uso della lira o della cetra è permesso in un contesto ‘domestico’, mentre nel culto, scrive nel Protrepticus, ogni accompagnamento strumentale è da evitarsi) e alla metrica (i primi esempi di innodia cristiana – Magnificat, Nunc dimittis, Benedictus le Odi di Salomone – non sono metrici).


Infine, vi è, dal punto di vista documentale, la preziosa testimonianza offerta dal cosiddetto “papiro di Ossirinco” (POxy 1786), un papiro, risalente al III secolo, riportante un testo greco con notazione musicale alfabetica, melodia assai sviluppata se consideriamo l’antichità. La sua scoperta costituì una clamorosa sconfitta per i critici: nessuno, infatti, poteva immaginare una tale ricchezza melica (la sua ricostruzione melodica, grazie alla notazione alfabetica, poté risultare sicura) per il canto cristiano dei primi secoli. In esso sono ravvisabili i principali caratteri sacri: un testo di destinazione liturgica (dossologia) non metrico la cui musica era riconducibile al tetrardus.

Universa Laus (e, forse, anche De Gregorio) parrebbero sconfitti. Eppure, di fatto, non lo sono. Anzi, imperano! In questo contesto relativista, nel quale non esiste più il sacro e tutto è lecito, è inevitabile il proliferare di una Babele liturgico-musicale e una totale disfatta delle competenze di ciascuno. Si pretende che, anziché ricorrere all’ausilio di persone preparate (musicisti e cantori) che si facciano carico di dare voce all’assemblea nel canto, ognuno, senza particolari capacità, abbia la facoltà di intervenire: «La musica rituale corrente appartiene di solito alla “pratica comune” della società circostante: non richiede, cioè, una competenza musicale particolare […]. La musica rituale, nella maggior parte dei casi, rimane a livello della pratica musicale comune» (Documento 80, 4, 2 e sgg). E’ chiaro che qui non c’è più solamente la musica in gioco, ma l’intera Divina Liturgia, la Liturgia terrena, figura di quella della Gerusalemme celeste, del Cielo che discende sulla terra.

Il dilagare dell’antropocentrismo, infine, chiede, per U.L., che la scelta delle musiche solistiche e strumentali debba essere condotta secondo la «maggiore o minore accessibilità alla competenza musicale degli ascoltatori. Da tali musiche ci si aspetta comunque un apporto che, a giudizio dell’assemblea, sia positivo». Non vi è più l’autorità ecclesiale, ma il singolo gusto di ciascuno, in barba alle raccomandazioni del Magistero ecclesiale su canto gregoriano e polifonia. E’ chiaro che se il parametro di riferimento è il gusto di pochi, le mediocri banalità di certa musica liturgica sono inevitabili.

Mi pare, in conclusione, che le tesi di partenza di Universa Laus possano considerarsi fallaci, prima ancora che in base a qualsiasi presa di posizione ideologica nel tormentato dibattito postconciliare, dal punto di vista storico, liturgico e musicologico.





http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/   domenica 2 giugno 2013

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