giovedì 27 giugno 2013

La Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa






"La Liturgia è più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente"

del Card. Malcolm Ranjith



Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Em.mo Autore, l'intervento tenuto dal Cardinale Malcolm Ranjith al Convegno "Sacra Liturgia 2013, culmen et fons vitæ et missionis ecclesiæ" a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, il 25 giugno 2013.


Miei cari amici,

Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale 'Sacramentum Caritatis' (22 febbraio 2007) così parla della Liturgia: “Nella Liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione ... modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore” (Sacramentum Caritatis, n.35), mostrandoci la vera natura della vita liturgica cristiana che egli chiama “veritatis splendor” e “l’affacciarsi del Cielo sulla Terra” (Sacramentum Caritatis, n.35).

La bellezza della Liturgia, quindi, risiede non primariamente in ciò che facciamo noi o quanto interessante e soddisfacente essa sia per noi, bensì in quanto veniamo attratti intimamente in qualcosa di profondamente divino e liberante. La Liturgia è allora più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente. È la vittoria pasquale di Cristo celebrata nel cielo e sulla terra. A questo punto, farei un excursus biblico per mostrare quanto la missione della Chiesa, continuazione di quella di Israele, è intimamente legata alla celebrazione della sua Liturgia.



CULTO E STORIA D’ISRAELE

Uno studio attento del “perché” di Israele nella storia della salvezza indica che Dio lo ha chiamato all’esistenza e lo ha formato, per una missione di santificazione del mondo. Se consideriamo la formazione del testo, vediamo come esso ha il suo centro gravitazionale nell’antico culto d’Israele. Tutto il Pentateuco è intessuto di formule del Credo che la comunità recitava nel santuario di Gerusalemme: “Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio ti dà in eredità e la possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: «Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi». Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato»” (Deut. 26, 1-11). L’esegeta Gerhard Von Rad ha identificato altre forme di questa formula di fede in Deuteronomio 6, 20-24 e in Giosuè 24, 2b-13. Per quanto tale interpretazione sia stata criticamente analizzata, col tentativo dello stesso Von Rad di rendere indipendenti queste formule dalla tradizione del Sinai, lo sfondo cultuale dell’uso di tali formule, il loro influsso sulla formazione della storia delle tradizioni del Pentateuco e della vera identità di Israele, è stato generalmente riconosciuto. Ciò che è importante per noi è il fatto che ogni azione di Dio nella chiamata all’esistenza del popolo d’Israele, la sua crescita come nazione, specialmente mediante il ruolo dei patriarchi, la liberazione dalla schiavitù e il definitivo stabilirsi nella terra promessa prendendone possesso, sono state viste come qualcosa che Dio stesso ha determinato e che ha un chiaro orientamento liturgico: Israele è chiamato al culto e all’adorazione di Dio, nella sua venuta all’esistenza e nella sua destinazione. In epoca successiva, Israele assume gradualmente il compito di diventare la nazione eletta per condurre tutte le nazioni sulla terra al culto di Dio nella nuova Gerusalemme, divenendo così in tal missionario. Quest’ultimo aspetto è particolarmente visibile nei Profeti, specialmente in Isaia, che parla delle nazioni che affluiscono nella nuova Gerusalemme per rendere culto a Dio (cfr. Is. 2, 2-4; Is. 66, 18-21). Quindi il centro di gravità è veramente il ruolo d’Israele nel portare tutte le nazioni della terra al culto di Dio sul Santo Monte, a Gerusalemme.



CULTO E ALLEANZA

Questo aspetto cultuale predominante del ruolo d’Israele nella storia della salvezza è molto ben visibile anche negli eventi del Sinai. Il Cardinale Joseph Ratzinger nel suo libro "Introduzione allo Spirito della Liturgia" dimostra come il culto di Dio è il vero motivo dietro l’intera storia dell’esodo. Il futuro Papa focalizza l’attenzione sulla frase chiave usata da Mosè e Aronne che contiene le parole che il Signore stesso aveva ordinato loro di pronunciare davanti al faraone: “lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es. 7,16). Scrive il Papa a pag. 11 che “questa espressione ... viene ripetuta con leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e Aronne (cfr. Es. 7,26; 9,1.13; 10,3). Nel corso delle trattative con il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. Il faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente: “andate a sacrificare al vostro Dio, nel paese!” (Es. 8,21). Ma Mosè, tenendo fede al comando di Dio, insiste nell’affermare che per il culto è necessario l’Esodo. Il luogo in cui andare è il deserto … dopo le piaghe successive il faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso. Egli ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli uomini … Mosè, però non può negoziare con il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo al compromesso politico ... per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del faraone, che questa volta è disposto a concedere molto di più e acconsente che anche donne e bambini possano partire «solo restino il vostro gregge e il vostro armento» (Es. 10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il bestiame, poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non arriveremo laggiù (Es. 10,26)». In tutto ciò non si parla della terra promessa: unico scopo dell’Esodo appare l’adorazione, che può avvenire solo secondo la misura di Dio, e che sfugge alle regole del gioco del compromesso politico” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 11-12).

Il Cardinale quindi prosegue affermando che il vero fine dell’esodo non era la terra o la formazione di uno stato per il popolo, ma quello di servire Dio nel luogo da Lui stesso indicato. Infatti, la semplice assegnazione della terra al popolo, o il suo raggiungere lo status di nazione, non avrebbe potuto renderlo il popolo eletto di Dio. È piuttosto la sua speciale relazione con Dio che fa del popolo ciò che esso è. Tale è anche la base dell’alleanza che Dio ha stretto con il popolo. Infatti, l’alleanza è ratificata in una cerimonia minuziosamente regolata come un momento di culto. L’alleanza quindi comprende il culto, la legge e l’etica, come il Cardinale continua a spiegare. Che questa alleanza avesse un orientamento cultuale appare chiaro quando Ratzinger presenta un’analisi della storia di Israele attraverso la chiave della sua fedeltà al servizio di Dio: “tutte le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio, volgendosi agli idoli - ai poteri e ai valori mondani - viene meno anche la sua libertà” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 15).



CREAZIONE E CULTO

Il fatto che la storia di salvezza nell’Antico Testamento sia immersa nelle forme della fede e del culto di Israele, è reso chiaro anche nella redazione sacerdotale del racconto della creazione, nel primo capitolo del libro della Genesi. Il suo linguaggio e lo stile sono nettamente sacerdotali e cultuali. Ma la considerazione più importante in tutto questo discorso è che esso non vuole essere uno studio scientifico o cosmologico sulle origini dell’universo e dell’uomo, ma che, alla base delle sue affermazioni, vi è la fede in Dio che essi avevano adorato e che aveva fatto con loro l’alleanza al Sinai, a far credere loro che quel loro Salvatore era anche il loro Creatore. Come Gerhard Von Rad afferma: “la fede nella creazione non è né base né obiettivo delle dichiarazioni contenute nei capitoli 1 e 2 della Genesi. Piuttosto, la posizione di entrambi gli autori, Jahvista e Sacerdotale, è fondamentalmente fede nella salvezza e nell’elezione. Essi sostengono questa fede con la testimonianza che questo Dio che ha concluso l’alleanza con Abramo e al Sinai, è anche il Creatore del mondo”(Gerhard von Rad, Genesi, SCM Press Ltd, London 1976, p.46).
Scrive il Cardinale Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”: “La creazione va verso il sabato, verso quel giorno in cui l’uomo e tutta la creazione prendono parte al riposo di Dio, alla sua libertà … schiavi e padroni in questo giorno sono uguali … se però se ne volesse dedurre che l’Antico Testamento non ha legato creazione e adorazione, che esso porta ad una mera visione della liberazione della società come scopo di tutta la storia, … si interpreterebbe erroneamente il significato del sabato. Infatti il racconto della creazione e le prescrizioni sinaitiche sul sabato provengono dalla stessa fonte; … il sabato è il segno dell’alleanza tra Dio e l’uomo; esso riassume molto bene l’essenza dell’alleanza. A partire da qui possiamo così definire l’intenzione dei racconti di creazione: vi è creazione perché vi sia un luogo per l’alleanza che Dio vuole concludere con l’uomo. Lo scopo della creazione è l’alleanza, la storia d’amore tra Dio e l’uomo” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 21-22). Questo è chiaramente indicato anche mediante l’uso della parola ebraica “bara” che indica Dio come colui che separa gli elementi attraverso i quali il cosmo emerge dal caos ed anche, come lo stesso Cardinale precisa, “indica il processo fondamentale della storia della salvezza, vale a dire l’elezione e la separazione del puro dall’impuro, … la creazione spirituale, la creazione dell’alleanza, senza la quale il cosmo creato rimarrebbe una scatola vuota. Creazione e storia, creazione, storia e culto, stanno dunque in un rapporto di interdipendenza” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.23).

In tutto ciò, l’affermazione di fondo è il fatto che le narrazioni bibliche e la storia di Israele hanno come obiettivo il culto e la lode dell’unico e vero Dio e la fedeltà al patto fatto con Lui sul Sinai. Israele non avrebbe potuto esistere in un modo differente da ciò che era stato chiamato a realizzare. Israele è costituito come la comunità che associa se stessa al culto celeste di Dio (Is. 6,1-4) e riceve la propria missione di diventare sorgente di salvezza per tutti gli uomini di buona volontà. Il linguaggio cultuale e l’accento posto sull’Alleanza, che deve essere fedelmente rispettato, costituiscono il filo che corre attraverso le pagine della Bibbia e della storia della salvezza. Il culto, per così dire, percorre le pagine della storia biblica conferendovi un’ottica centrata su Dio. Per ciò questa diventa non semplicemente la storia di una nazione ma la storia di una relazione, quella tra Dio e Israele. L’esistenza di Israele è per la santificazione dell’umanità per mezzo del suo rapporto d’alleanza con Dio e la sua espressione concreta, la fedele adorazione di Dio nel tempio (cfr. Is. 6, 6.18-20).



CULTO, CERTEZZA DELLA VITTORIA

Il ruolo di Israele che porta i popoli all’adorazione di Dio sulla montagna santa, nel nuovo Testamento viene portato al suo compimento da Cristo stesso. Ciò è chiaramente indicato nel libro dell’Apocalisse, dove Cristo stesso adempie il suo sommo atto sacerdotale alla presenza di Dio. In esso, Cristo, chiamato “Agnello immolato” (cfr. Ap. 5, 6. 8. 12. 13; 7, 9. 10. 14. 17; 12, 11), siede sul trono e viene adorato con inni e cantici (Ap. 5, 9-10.12.13; 4, 8.11; 7, 12; 11, 17-18, ecc) ed è acclamato da una moltitudine di eletti vestiti di bianco (cfr. Ap. 7, 12). La presentazione dello scenario celeste nell’Apocalisse mostra allora un punto di vista fortemente centrato sul culto circa gli eventi escatologici profetizzati dal veggente. Nella scena della Gerusalemme celeste, dove Dio stesso e l’Agnello sono chiamati tempio (cfr. Ap. 21, 22) che è il cielo nuovo e la terra nuova (Ap 21,1), si parla di un altare (cfr. Ap. 6,9; 8,3) con i sette candelabri d’oro (cfr. Ap. 1,12), l’incenso (cfr. Ap. 8,4) e il suono di trombe e canti; si descrive anche il rito di intronizzazione e l’adorazione dell’Agnello (cfr. cap. 5, 6-14). Ciò che viene celebrato è il compimento di quella definitiva vittoria di Dio su Satana, del bene sul male. Gesù, l’Agnello immolato, è diventato la sorgente della salvezza che Dio compirà alla fine del tempo e che appunto è già in corso in colui nel quale ogni cosa è fatta nuova: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate ... ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap. 21, 3-5).

Questo messaggio di speranza per l’umanità si fonda sulla certezza che il culto celeste di Dio, mediante l’Agnello immolato, continua ed è la garanzia della definitiva e completa vittoria del bene sul male alla quale l’umanità tende. È questo che conferisce alla storia il significato e la direzione finale. La visione del veggente invita la Chiesa, che è la comunità dei suoi discepoli e la presenza continua di Cristo nella storia, il corpo mistico, ad essere fedele al Signore e ad essere piena di speranza che la vittoria sarà sua, nonostante il fatto che nel tempo la Chiesa sia sottoposta a un periodo di prova, poiché il culto dell’Agnello sacrificale in cielo continua e, in certo senso, emergerà gradualmente nell’esistenza umana, attraverso la vita di consacrazione o santificazione che dobbiamo seguire sulla terra, e nel modo in cui noi stessi adoriamo l’Agnello o ci associamo al Suo eterno sacrificio. È in questo senso che Papa Benedetto ha affermato che “il nuovo tempio, non eretto da mani d’uomo, è presente, ma è al tempo stesso ancora in costruzione. Il grande gesto dell’abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al traguardo, ma è solo cominciato. La Liturgia cristiana è Liturgia in cammino, Liturgia del pellegrinaggio verso il cambiamento del mondo, che avverrà quando Dio sarà «tutto in tutti»” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.47).

La Liturgia quindi vorrebbe determinare finalmente l’intero processo di autentica crescita, della trasformazione e della santificazione dell’esistenza umana. La salvezza stessa è opera propria di Dio, e la Chiesa la affretta unendosi totalmente e profondamente al suo Signore nella completa realizzazione del Suo Servizio sacerdotale e nella celebrazione di quella Liturgia celeste, qui sulla terra.



ACTIO CHRISTI

La Liturgia è prima di tutto Actio Christi, come la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II ha affermato: “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo … esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado. Nella Liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla Liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo. (cfr. Ap. 21,02; Col. 3,1; Eb. 8,2)" (Sacrosanctum Concilium, nn. 7- 8).

La Mediator Dei, l’enciclica di Papa Pio XII sulla Sacra Liturgia, ha dichiarato: “La Chiesa dunque, fedele al mandato ricevuto dal Suo Fondatore, continua l’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia. Ciò fa in primo luogo all’altare, dove il sacrificio della Croce è perpetuamente rappresentato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 1) e, con la sola differenza del modo di offrire, rinnovato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 2); poi con i Sacramenti, che sono particolari strumenti per mezzo dei quali gli uomini partecipano alla vita soprannaturale; infine col quotidiano tributo di lodi offerto a Dio Ottimo Massimo” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 432). Ha inoltre dichiarato: “insieme con la Chiesa è presente il suo Divino Fondatore: Cristo è presente nell’augusto Sacrificio dell’altare … nei sacramenti” e “infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 449).

La Liturgia per noi nella Chiesa dunque non è solo una serie di azioni o riti, ma precisamente una persona, che è Cristo. È Cristo che rende gloria a Dio, ci invita ad unire noi stessi a Lui per essere totalmente trasformati in Lui diventando un sacrificio gradito a Dio (logikè latreìa – Rom. 12, 1-2) così che la sua missione diventi la nostra e noi diventiamo parte della Sua trasformazione, presenza santificante sulla terra. Questo è veramente il centro della vita e della missione della Chiesa, senza il quale tutto sarebbe ridotto al livello di un servizio di semplice altruismo, o ad un’associazione mondiale di benpensanti; e la priverebbe anche della sua finalità escatologica, poiché nella Liturgia la Chiesa celebra l’adesso dell’allora che porta al già e non ancora. Insomma, come per Israele, anche la vita della Chiesa diventa la storia di una relazione, quella tra Cristo e la comunità dei suoi discepoli, la cui esistenza è centrata sulla preghiera e sull’adorazione di Dio.
È questa centralità del ruolo di Cristo a rendere la Liturgia “sacra”, sottraendola alla creatività dell’uomo. La Sacramentum Caritatis afferma che “la bellezza intrinseca della Liturgia ha come soggetto proprio il Cristo” (Sacramentum Caritatis, n. 36). E Papa Benedetto XVI prosegue spiegando: “poiché la Liturgia eucaristica è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito, il suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non può subire il ricatto delle mode del momento” (Sacramentum Caritatis, n.37). L’enciclica Mediator Dei chiama la Liturgia il prolungamento dell’ufficio sacerdotale di Cristo; quindi ciò che realmente importa non è ciò che facciamo noi, quanto piuttosto ciò che Egli compie in noi e attraverso di noi.



ARS CELEBRANDI

Tuttavia c’è stato un momento in cui le famose parole 'ars celebrandi' sono state usate per intendere l’arte di celebrare come se si trattasse del nostro modo di celebrare bene, con stile, con l’accento posto sul ruolo del celebrante e su quello che egli fa, quasi fosse un artista che crea qualcosa dal nulla. Ma le cose stanno in un altro modo. Papa Benedetto XVI afferma: “L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza” (Sacramentun Caritatis, n. 38). Ars dunque non significa libertà di agire secondo il nostro gusto, quanto piuttosto richiamo alla necessità di essere uniti a Cristo, il Sommo Sacerdote, nella sua celeste Liturgia, e fedele aderenza alle norme e all’interiore senso mistico della celebrazione. Ratzinger ritiene che l’ars celebrandi debba “favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro” (Sacramentum Caritatis, n. 40). Questa ars è quindi intesa veramente come lo sforzo che facciamo per conformarci all’intimo senso mistico della natura celeste della Liturgia, essendo ultimamente frutto dell’azione di Dio, che si estende in e attraverso la vita umana, e porta con sé forme di espressione e linguaggi che superano la comprensione umana e i significati della comunicazione. Simboli, gesti, l’“ulteriorità” dell’atmosfera, e le parole sono in funzione dell’espressione, almeno in parte, della grandezza di ciò che sta accadendo. Il Concilio di Trento parla di questo quando afferma: “ la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti … similmente ha introdotto cerimonie, come le benedizioni mistiche, le luci, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande, e per indurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio” (Concilio di Trento, Decreto sul Sacrificio della Messa, cap. 5 in Conciliorum Oecomenicorum Decreta, Bologna 1991, pag. 734). In altre parole il simbolismo della Liturgia è il linguaggio attraverso il quale noi possiamo leggere, sperimentare, conformare noi stessi ed essere trasformati in Gesù. In quanto essa è profondamente orientata verso l’uomo e il suo linguaggio, la Liturgia ci permette di toccare il divino.

Questo non significa che ci stiamo basando su una concezione dualistica dell’uomo come semplicemente costituito di corpo e anima. Piuttosto, stiamo parlando della concezione paolina dell’uomo in quanto corpo, anima e spirito (cfr. 1 Tess. 5, 23), cioè del soma, psychè e pneuma. È nella sfera dello pneuma che la fede generata nella preghiera diventa un’energia profondamente trasformante – pneuma thes pisteos – fede sperimentata in profondità e pienezza (2 Cor. 4,13). È fede che ci spinge a camminare nella giustizia – dia pisteos gar peripatoumen – (2 Cor. 5,7). La preghiera ci orienta e ci stimola a una sorta di “intelligenza del cuore”. Anche il buddismo, ad esempio, contempla questo concetto: “sraddha” una conoscenza che stimola il cuore. Sant’Ambrogio nell’inno Splendor paternae gloriae, chiama questa particolare esperienza la sobria ebrietas che conduce a una sorta di rapimento mistico e a un senso di gioioso entusiasmo nell’essere toccati da Dio in profondità. Quando si celebra in modo giusto – secondo cioè questa particolare ars – si è in grado di essere potentemente trasformati dalla Liturgia – la metamorfosi di cui parla San Paolo in Romani 12,2.

In tal modo la nostra intera vita cristiana viene animata profondamente dall’azione di Dio che la Liturgia contiene. E così, celebrando la Liturgia in un modo che non rispecchia abbastanza questa sua nobiltà, si potrebbe privare la Chiesa del suo profondo dinamismo divino. È qui che sembra che abbiamo barcollato. Sicuramente le parole come “nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium, n. 34), “legittimo progresso” (Sacrosanctum Concilium, n. 23), “evitino inutili ripetizione” (Sacrosanctum Concilium, n. 34), adoperate nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium non sono affatto un invito a usare liberamente un’ascia sui simboli della celebrazione liturgica e i loro significati e scopi. Ad esempio, tralasciare alcune genuflessioni, benedizioni e preghiere, e ridurre o mettere da parte alcuni degli oggetti che formalmente costituiscono i requisiti e gli arredi prescritti per la celebrazione dell’Eucaristia, è stato per molti un segnale sbagliato. Ne risulta una Liturgia priva di “cuore”, cioè del proprio dinamismo interiore, riducendo tutto a una questione di “testa”.
La pressoché totale eliminazione dell’uso del latino, del canto gregoriano, di alcuni dei gesti e simboli che davano espressione alla santità di ciò che avviene all’altare, o la spogliazione dello spazio sacro di quei simboli che esprimevano gli aspetti celesti del Santissimo Sacramento, nulla di tutto questo veniva richiesto dal documento conciliare. Una lettura carente della Sacrosanctum Concilium è stata sufficiente per convincere molti di tutto ciò, ma il Concilio non chiedeva simili scelte radicali.



COERENZA LITURGICA

Per queste ragioni, la Liturgia non può essere facilmente manipolata, poiché essa si trova al centro della vita della Chiesa e della sua missione. È infatti ciò che afferma Gesù stesso quando parla alla donna Samaritana: “Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (Gv. 4, 23). Il “culto in Spirito e Verità”, secondo l’esegeta Raymond E. Brown, intende qui il ruolo di Gesù stesso come l’adorante per eccellenza nei tempi escatologici. Gesù diviene il tempio, e il “culto in Spirito” appartiene solo a “coloro che hanno lo Spirito con il quale Dio li genera, lo Spirito con il quale Dio li genera dall’alto” (cfr. Gv. 3, 5): (Raymond E. Brown, The Gospel According to John, Doubleday & Co. Inc. New York 1966, p. 180). Il culto nella verità viene visto anche come “coerenza”, che è ciò che Gesù esige da noi poiché egli è la Verità (Gv. 14,6). È qui che nella Liturgia la fede si trasforma in una vita coerente che San Paolo chiama la logiké latreia (Rm. 12,1). San Paolo spiega il latreia come trasformazione di vita e sacrificio gradito a Dio: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare (metamorphousthe) rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm. 12, 1-2). La Liturgia è perciò non solo legata al suo aspetto celebrativo ma molto di più alla sua coerenza parenetica. La lex orandi diventa la lex credendi e la lex vivendi della comunità dei discepoli di Cristo, la Chiesa – ciò che Papa Benedetto XVI chiamava “coerenza eucaristica” (cfr. Sacramentum Caritatis, n. 83).



LATINO E LITURGIA

Riguardo all’uso del latino nella Liturgia occorre sottolineare quanto il Concilio decretava: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, n. 36), e consentiva l’uso del vernacolare nelle letture, nelle monizioni e in alcune preghiere e canti. Naturalmente, affidava alla competente autorità ecclesiastica territoriale decidere se e in quale misura il vernacolare fosse da usare nella Liturgia, sempre tuttavia con l’approvazione della Santa Sede. Anche riguardo al canto gregoriano il Concilio è prudente in quanto, mentre apre ad altri generi di musica sacra, soprattutto la polifonia, afferma che la Chiesa “riconosce il canto gregoriano come proprio della Liturgia romana”, per cui “gli va riservato il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n. 116). Tale concessione limitata del Concilio per l’uso della lingua vernacolare nella Liturgia è stata avventurosamente estesa dai riformatori; essendo il latino quasi totalmente scomparso dalla scena, esso è rimasto l’orfano più amato nella Chiesa. Dico questo non perché io sia un fanatico del latino; provengo da una terra di missione nella quale il latino non è compreso da quasi tutta la mia comunità. Ma è un errore credere che una lingua debba essere sempre compresa da tutti. La lingua, come sappiamo, è un mezzo di comunicazione di un’esperienza che, il più delle volte, e più ampia della stessa parola. Lingua e parole sono perciò secondarie e, in ordine d’importanza, vengono dopo l’esperienza e la persona. La lingua porta sempre con sé una kenosis – cioè un impoverimento nella sua espressione. Più tale esperienza passa per la comunicazione in altre lingue, più tende a divenire sempre meno espressiva della originalità dell’avvenimento. Ad esempio, il termine “OM” nella liturgia induista è intraducibile; inoltre le religioni orientali usano una lingua che è strettamente limitata alle loro forme di preghiere e di culto: l’induismo usa il sanscrito, il buddismo il pali e l’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi, e esse vengono usate solo nella loro forma cultuale; ognuna di queste lingue è rispettata e riservata, fin dall’inizio, per l’espressione di “qualcosa che va al di là dei suoni e delle lettere”. Il giudaismo, per esempio, usa il tetragramma JHWH per indicare l’impronunciabile nome di Dio. Di per sé, le quattro lettere del sacro tetragramma non hanno sfumature linguistiche, ma costituiscono il nome santissimo di Dio nella tradizione scritta della Masora.

L’uso liturgico del latino nella Chiesa, anche se inizia attorno al IV sec., dà origine a una serie di espressioni che sono uniche e costituiscono la fede stessa della Chiesa. Il vocabolario del Credo è chiaramente pieno di espressioni in latino che sono intraducibili. Il ruolo della lex orandi nel determinare la lex credendi della Chiesa è validissimo nel caso dell’uso del latino nella Liturgia, perché la dottrina evolve spesso nell’esperienza di preghiera. Per tale ragione, un sano equilibrio tra l’uso del latino e quello del vernacolare dovrebbe essere, a mio avviso, mantenuto. La reintroduzione dell’usus antiquior fatta da Papa Benedetto XVI non era quindi un passo all’indietro, come qualcuno lo definì, ma un’iniziativa per ridare alla sacra Liturgia un senso di stupore mistico e una maniera per tentare di impedire una palese banalizzazione di ciò che è fondamentale per la vita della Chiesa. Si deve dare onore e sostegno a tale iniziativa del Pontefice, che può condurre anche all’evoluzione di un nuovo movimento liturgico che potrebbe sfociare nella “riforma della riforma”, ardente desiderio di Papa Ratzinger. Di fatto, alcuni elementi dell’usus antiquior riflettono meglio il senso di stupore e devozione con il quale noi siamo chiamati a ri-presentare gli eventi del Calvario nelle nostre celebrazioni eucaristiche. E poiché noi accettiamo i molti sviluppi positivi del novus ordo come, per esempio, il più ampio uso del testo biblico e un maggiore spazio di partecipazione della comunità nei vari momenti della Messa, dobbiamo anche assicurare che ciò che accade sui nostri altari non perda la propria capacità di operare una vera trasformazione spirituale della comunità. Ed è per questo che si rende necessario un avvicendamento degli elementi più positivi delle due forme: cioè la “riforma della riforma”. La stessa definizione delle due forme come usus antiquior e novus ordo è per me erronea, poiché il sacrificio del Calvario non è mai antico, ma è sempre nuovo e attuale.



CONCEZIONI ERRONEE

Un altro aspetto del processo di un rinnovamento davvero profondo della Chiesa, a causa del ruolo decisivo che ha il culto nella sua vita e missione, è la necessità di purificare la Liturgia da alcune concezioni erronee che sono penetrate nell’euforia delle riforme introdotte da alcuni liturgisti dopo il Concilio – cosa che, bisogna riconoscere, non è mai stata nella mente dei padri conciliari quando approvarono la storica Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.


a. Archeologismo

Apre la lista un genere di falso “archeologismo” che echeggiava lo slogan “torniamo alla Liturgia della Chiesa primitiva”. Si nascondeva qui l’interpretazione che soltanto ciò che si celebrava nella Liturgia del primo millennio della Chiesa fosse valido, si pensava che il ritorno a ciò facesse parte dell’aggiornamento. La Mediator Dei insegna che questa interpretazione è sbagliata: “La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol 6, Bologna 1995, n. 487). Inoltre, poiché le informazioni sulla prassi liturgica nei primi secoli non sono chiaramente attestate nelle fonti scritte del tempo, il pericolo di un arbitrio semplicistico nel definire tali prassi è ancora maggiore e corre il rischio di essere pura congettura. Inoltre non è rispettoso del processo naturale di crescita delle tradizioni della Chiesa nei secoli successivi. Né è in consonanza con la fede nell’azione dello Spirito Santo lungo i secoli. Ed è oltretutto altamente pedante e irrealistico.


b. Sacerdozio ministeriale

Un’altra concezione erronea di riformismo in materia di Liturgia è la tendenza a confondere l’altare con la navata. Si osserva spesso che la distinzione essenziale nella Liturgia tra il ruolo del clero e quello dei laici è confuso a causa di una comprensione sbagliata della differenza tra l’ufficio sacerdotale di tutti i fedeli (sacerdozio comune) e l’ufficio del clero (sacerdozio ministeriale): una differenza ben spiegata nella Lumen Gentium. Questo documento chiarisce che il sacerdozio comune di tutti i battezzati è stato sempre affermato dalla Chiesa (cfr. Ap. 1,6; 1 Pt. 2,9-10; Mediator Dei, nn. 39-41; e Lumen Gentium, n. 10), così come il sacerdozio ministeriale; i quali, a loro modo, partecipano entrambi “dell’unico sacerdozio di Cristo … quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium, n. 10). La Costituzione liturgica del Concilio afferma che la Liturgia prevede una distinzione tra le persone “che deriva dall’ufficio liturgico e dall’ordine sacro” (Sacrosanctum Concilium, n. 32). La Mediator Dei era ancor più categorica affermando che: “Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l’imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale” (Mediator Dei, in Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 468).

Il risultato di tale confusione di ruoli nell’epoca moderna è la tendenza a clericalizzare i laici, e a laicizzare il clero. Indice di tale confusione è la sempre maggiore rimozione delle balaustre d’altare dai nostri presbiteri e il rimanere seduti o accovacciati per terra attorno all’altare; fin troppe persone hanno preso a entrare e a circolare sul presbiterio causando distrazione e disturbo alle nostre funzioni liturgiche. La Santa Eucaristia, in tale situazione, diventa uno spettacolo, e il sacerdote uno showman. Il sacerdote non è più come nel passato – come ha scritto K. G. Rey nel suo articolo Coming of age manifestations in the Catholic Church – : “il mediatore anonimo, il primo tra i fedeli davanti a Dio e non al popolo, rappresentante di tutti, che offre con loro il sacrificio recitando prescritte preghiere. Egli oggi è una persona distinta, con caratteristiche personali, il suo personale stile di vita, con la propria faccia rivolta al popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non sanno gestire … diviene per loro il livello di successo del proprio potere personale e perciò l’indicatore del sentimento di sicurezza personale e di autostima” (K. G. Rey, Pubertätserscheinungeng in der Katolischen Kirche, Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25). Il prete qui diventa l’attore principale che recita un dramma con altri attori sull’altare, e quanto più sono capaci e sensazionali, tanto più sentono di recitare bene. In uno scenario simile, il ruolo centrale di Cristo svanisce, e anche se in un primo momento tutto ciò può sembrare gradevole, alla lunga diventa estremamente banale e noioso.


c. Actuosa participatio

Un altro e diffuso orientamento liturgico male interpretato è l’actuosa participatio, termine ufficializzato dalla Sacrosanctum Concilium quando dichiara che: “È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia” (Sacrosanctum Concilium, n.14). E continua: “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della Liturgia” (ibidem). Purtroppo ciò ha condotto ancora di più alla distrazione e alla spettacolarità, invece che ad un autentico servizio di devozione e di pietà nella Liturgia. Nel suo libro Introduzione allo spirito della Liturgia Papa Benedetto definisce actuosa participatio come uno spirito di totale e devota assimilazione nell’azione di Cristo, Sommo Sacerdote, (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 169s). Si chiede il Papa: “In che cosa consiste però questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile, il più spesso possibile” (Joseph Ratzinger, cit., p.167).

Ma già nella Mediator Dei Papa Pio XII spiegava quale dovesse essere la partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico: “Che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 506-507). Deve esserci quindi una sorta di sinergia, uno spirito di profonda comunione tra di noi e l’Agnello, il cui divin sacrificio di lode è incessante nella Liturgia celeste. Sempre in Introduzione allo spirito della Liturgia il Cardinale Ratzinger scriveva: “Il punto è che, alla fine, venga superata la differenza tra l’actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra – la nostra per il fatto che siamo divenuti «un corpo e uno spirito»”(Introduzione allo spirito della Liturgia, p. 170). Nell’esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis, Papa Benedetto XVI enumera alcune delle disposizioni personali atte a realizzare tale senso di partecipazione con Cristo, quali “lo Spirito di costante conversione”, la “confessione sacramentale e digiuno”, una “maggiore consapevolezza del mistero celebrato e del suo rapporto con la vita”, la “santa comunione” nella quale siamo totalmente assimilati a Lui, ed anche il “raccoglimento e silenzio” (Sacramentum Caritatis, nn. 53-55). In breve, la participatio riguarda più l’essere che il fare, senza il quale, come scrive il Cardinale Ratzinger, noi non comprendiamo alla radice il “theo-dramma” della Liturgia, che finisce per scivolare in mera parodia (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.171).

E perciò necessario e urgente che la Liturgia sia presa seriamente da tutti i responsabili. Essa non è qualcosa su cui noi come comunità o come individui possiamo decidere. Poiché è Cristo che celebra nella Liturgia, essa è un’opera affidata alla Chiesa, promuove e porta a compimento la sua missione. Il Concilio Vaticano II è chiaro quando afferma che: “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor. 5,7), viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor. 10,17)” (Lumen Gentium, n. 3).

L’Eucaristia perciò redime l’umanità e costruisce la Chiesa, la quale diventa ciò che afferma Papa Giovanni Paolo II: “«sacramento» per l’umanità, segno e strumento della salvezza operata da Cristo … per la redenzione di tutti” (Ecclesia de Eucharistia, n.22). Il Papa continua dicendo che: “dalla perpetuazione nell’Eucaristia del sacrificio della Croce e dalla comunione col corpo e con il sangue di Cristo, la Chiesa trae la necessaria forza spirituale per compiere la sua missione. Così l’Eucaristia si pone come fonte e insieme come culmine di tutta l’evangelizzazione” (ibidem). E perciò l’Eucaristia, per la quale la comunità dei fedeli e ogni discepolo di Cristo vengono assorbiti in Lui, poiché Lui ci assume su in Sé, ci fa diventare una comunità, e così siamo chiamati a partecipare alla sua missione redentrice e diveniamo parte della comunità dei redenti essendo stati purificati da Lui.
La Chiesa, perciò, viene formata dalla Liturgia e trae da essa la forza per svolgere la sua missione sulla terra. Grazie a questo intimo legame con Cristo, Sommo Sacerdote, la Chiesa nella sua esistenza e missione si muove nel regno dell’azione salvifica di Dio. Perciò Essa non s’impegna nella missione come semplice comunità umana o associazione altruistica, ma è il canale dell’azione salvifica di Dio. L’assoluta necessità della Chiesa per la redenzione dell’umanità scaturisce da questo rapporto unico. Se non esiste questa dimensione ulteriore della Liturgia, tutto finisce come in un grande show, senza nessun effetto salvifico.

Infatti Gesù e la Chiesa, sua mistica continuazione nella storia, sono intrecciati in un’unione assimilante che col suo potere anima e porta frutto nella missione. Egli lo ha confermato quando ha promesso agli apostoli di renderli “pescatori di uomini” (Mc. 1, 17). Ha affermato che la fruttuosità missionaria sarebbe dipesa dalla comunione degli apostoli con lui come la vita e i tralci (cfr. Gv. 15,5). È con la Liturgia, e specificatamente la celebrazione dell’Eucaristia, che tale comunione si produce in modo efficace. E più la Chiesa è unita a Cristo, il che avviene in modo potentissimo nell’Eucaristia e nella celebrazione della vita liturgica, più fruttuosa sarà la sua missione poiché è Cristo e il suo eterno sacrificio che redimono il mondo, non quello che facciamo noi.

Ciò rappresenta una grave responsabilità per la Chiesa, dare il dovuto peso alla sua vita liturgica. La Chiesa lo ha annunciato a tutti lungo i secoli. Parlando delle forme rituali il Cardinale Ratzinger dice che: “Esse sono sottratte all’intervento del singolo, della singola comunità o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura. Esse sono espressione del fatto che nella Liturgia mi viene incontro qualcosa che non sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualche cosa di più grande, che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 161). Perciò la chiara richiesta della Costituzione Sacrosanctum Concilium è normativa: “Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (Sacrosanctum Concilium, n. 22). Poiché Cristo è il soggetto principale dell’azione liturgica, non spetta a noi cambiare arbitrariamente o manipolare gli orientamenti essenziali o le norme della Liturgia. Altrimenti noi non saremmo diversi da coloro che, impazienti nell’attendere Mosè scendere dalla montagna, si costruirono un vitello d’oro da adorare; si erano fatti il loro rituale, il loro pasto, le loro bevande e il “rallegrarsi recitando Dio” e le Sacre Scritture ci dicono quello che accadde loro.

Anche ai nostri tempi ci sono persone che desiderano rendere la Liturgia più interessante o appetibile; si fanno le proprie regole, correndo così il rischio di svuotare la Liturgia del suo essenziale dinamismo interiore, col risultato finale che le cosiddette forme di culto diventano alla fine insipide e noiose. Se tale improvvisazione veramente rendesse la Liturgia più efficace e interessante, allora perché con queste sperimentazioni e creatività il numero dei partecipanti la domenica è oggi caduto drasticamente? Questa è una domanda che dobbiamo affrontare con coraggio e umiltà. È giusto considerare i requisiti antropologici di una sana Liturgia, soprattutto riguardo ai simboli, alle rubriche e alla partecipazione; ma non si deve ignorare il fatto che questi non avrebbero significato senza una correlazione alla chiamata essenziale di Cristo di unirsi a Lui nella Sua incessante Azione Sacerdotale.




Cari amici,
ci sono molti altri punti che possiamo e dobbiamo considerare in materia di Liturgia e la sua centralità nella vita della Chiesa ma il tempo ci obbliga a limitare tali temi. Forse li possiamo riprendere dialogando tra noi dopo questa presentazione.

Vorrei concludere leggendovi una bella riflessione che il Santo Curato d’Ars, umile servitore dell’Eucaristia, scrisse nel suo Piccolo Catechismo sulla Santa Messa: “tutte le buone opere insieme, non eguagliano il sacrificio della Messa in quanto sono opere di uomini e la Santa Messa è opera di Dio. Il martirio non è nulla in confronto; è il sacrificio che l’uomo fa della propria vita a Dio; la Messa è il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo corpo e del suo sangue. Oh, quanto grande è il sacerdote! Se egli lo capisse ne morirebbe … Dio gli obbedisce; dice due parole e nostro Signore scende dal cielo a questa voce e si rinchiude in una piccola ostia. Dio guarda sull’altare e dice: «quello è mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto». Nulla egli può rifiutare per i meriti dell’offerta di tale Vittima. Se noi avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro a un vetro, come a vino misto ad acqua” (The Little Catechism of the Cure’ of Ars, Tan Books and Publishers, Inc. Rockford, Illinois. USA, 1951 p. 37).

Grazie.

+ Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka)


Roma, 25 giugno 2013
Pontificia Università della Santa Croce

(trad. dall'inglese a cura di d. G. Rizzieri)



fonte: http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=2597

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