Conferenza a Pistoia del 9 novembre 2012
di Padre Giovanni Cavalcoli, OP
Dal punto di vista del genere letterario - questo lo si dice
poco -, i documenti del Concilio devono essere visti anzitutto come testi
giuridici emanati dalla legittima autorità,
che in questo caso è il Magistero della Chiesa. E’ questa l’angolatura
giusta per porre adeguatamente il problema dell’interpretazione dei testi
conciliari, a prescindere da quello che comunemente è chiamato “stile
pastorale” del Concilio, del quale parleremo più avanti.
Al riguardo bisogna dire che qualunque testo letterario o
giuridico, secolare o religioso, nel nostro caso appartenente agli insegnamenti
della Chiesa cattolica, può offrire difficoltà interpretative. L’interpretazione autentica e sicura spetta
all’Autorità che ha emanato il testo (direttiva, dottrina, insegnamento o
legge). Una prima difficoltà interpretativa è data proprio dal fatto che i
testi conciliari, benchè dotati in se stessi di valore giuridico, sono effettivamente
espressi in uno stile pastorale che non fa emergere sempre con chiarezza tale
forma giuridica.
Occorre comunque rilevare che il Magistero della Chiesa, per
la sua bimillenaria esperienza culturale, giuridica, dottrinale e pastorale, è dotato
di un carisma speciale assicuratole dal divin Fondatore, per cui ha sempre avuto doti di chiarezza,
semplicità e precisione nel suo linguaggio, sempre preoccupato com’è di
farsi capire anche dai semplici e dagli indotti, come una saggia madre che
parla al suo piccolo.
La Chiesa, dovendo insegnare agli
uomini i misteri trascendenti, che superano anche le più alte intelligenze, ha tuttavia, attingendo allo stesso
linguaggio biblico, una straordinaria
dote di spiegare tali misteri a tutti, benchè detti misteri comunque
restino oscuri, per cui mancano le parole pienamente adeguate per esprimerli,
anche se sono veraci ed appropriate. Questa però è una qualità dello stile
giuridico: la legge o la verità devono essere comprese da tutti, anche se
naturalmente ciò non esclude all’occorrenza la necessità dell’interpretazione.
Chiediamoci adesso che cosa è in generale l’interpretazione.
Essa è l’attività chiarificatrice del
senso di un testo operata dall’interprete, che può essere interprete ufficiale,
al fine di far comprendere il vero senso di un testo oscuro o dubbio. L’interprete
non insegna nessun contenuto per conto proprio: deve solo far capire che cosa
dice un dato testo, senza alterarne il senso. L’interpretazione, soprattutto in
documenti di carattere religioso, morale o teologico, è compito delicato,
riservato normalmente a persone qualificate o incaricate nei singoli ambiti.
Nella letteratura religiosa, poetica, filosofica o giuridica
l’interprete o critico privato può sbagliare. Si suppone tuttavia che valga
l’interpretazione dell’Autorità o dell’Autore che ha pubblicato il documento o
l’opera letteraria. Nel caso della Chiesa Cattolica, il Magistero, depositario del dato rivelato, è infallibile
nell’interpretare le fonti della Rivelazione, che sono la Sacra Scrittura e
la Sacra Tradizione, nonché i documenti emanati dal Magistero stesso di carattere
dogmatico e morale. Neppure la Chiesa
sbaglia quando condanna come eretica una certa dottrina. Il Magistero però
può errare eccezionalmente nel campo giuridico, disciplinare, liturgico-cerimoniale
e pastorale.
Interprete
normalmente qualificato degli insegnamenti del Magistero, quindi anche quelli
del Concilio, è il teologo in comunione con lo stesso Magistero sotto la guida
del Papa. Mentre il Magistero è l’ultima istanza, infallibile, dell’interpretazione
delle dottrine di un Concilio ecumenico quale è stato il Vaticano II, l’interpretazione
del teologo, per quanto autorevole e dotato di incarichi ufficiali, è
fallibile.
Un grave
inconveniente che si è verificato a partire dal postconcilio sino ai nostri
giorni è stato quello del sorgere di numerosi teologi, anche di fama e dotati
di indubbie qualità, i quali, non essendo stati oggetto di una sufficiente vigilanza
da parte dei Vescovi, hanno cominciato da una parte a ignorare, a contraddire e
a falsificare l’interpretazione del Magistero e dall’altra ad assumere un
atteggiamento di eccessiva autonomia dal medesimo, sino a proporsi audacemente in
alcuni casi estremi come alternativa all’insegnamento episcopale e pontificio.
E’ nato così quello che con dolore Paolo VI chiamò “magistero parallelo”, certo privo di qualunque carisma di
infallibilità, al contrario degli insegnamenti del Magistero ufficiale, che è assistito,
come si sa, dalla presenza dello Spirto Santo per esplicita promessa di Cristo.
Sin dagli anni del
postconcilio sono sorte così, tra i teologi e gli esegeti, due correnti di
ermeneutica del Concilio, una autoproclamatasi “progressista” (nome di per sé innocuo), ma in realtà di
orientamento modernista, la quale ha
visto il Concilio come smentita della Tradizione del Magistero precedente e
come assunzione globale e acritica della modernità (da qui il nome più
appropriato di “modernismo”), sotto pretesto che uno degli scopi del Concilio
era quello di far avanzare la conoscenza della Parola di Dio e della santità nella
Chiesa (ecco il sano tradizionale progressismo cattolico), in un confronto con
la modernità. Esponenti di spicco di tale corrente sono stati Rahner,
Schillebeecxk e Küng, i teologi liberazionisti, nonchè l’altrettanto famoso Catechismo Olandese.
Gli esponenti di
questa corrente si fondano, come già il modernismo dei tempi di S.Pio X, su di
una gnoseologia fenomenista, relativista, evoluzionista, storicista e
soggettivista, che viene a rendere impossibile l’oggettività, immutabilità ed
universalità dei concetti dogmatici, per cui viene smarrita o negata la
continuità degli insegnamenti della Chiesa dal preconcilio al Concilio e quindi
al postconcilio. E’ quella che il Papa chiama “esegesi di rottura”. L’idea del progresso, in sé giusta, è da
questi modernisti falsificata secondo il modulo evoluzionista, per il quale il
progresso comporta la smentita o la negazione di ciò che in precedenza era
ritenuta verità. Dunque la verità di oggi è la negazione della verità di ieri.
Essere moderni, essere aggiornati vuol dire respingere come superato e falso
ciò che la Chiesa ha insegnato anche come dogma sino al momento del Concilio.
Per costoro la verità comincia nel 1962. Prima c’è l’errore.
Pei modernisti la Chiesa insegna sì un
verità, ma solo legata al tempo ed all’attuale situazione storica, cambiata
la quale, anche ciò che oggi è vero diventerà falso. La verità è solo nella
modernità, nel senso del momento
presente, passato il quale il vero diventa falso e sorge un nuovo vero in
contraddizione col precedente. E difatti i modernisti, passati ormai
cinquant’anni dal Concilio, lo considerano ormai superato e sostituito dalla
loro visione della fede, della Chiesa e del cristianesimo, che peraltro è un coacervo
disordinato e sincretistico degli errori più disparati raccolti qua e là dalle
diverse dottrine e religioni dell’umanità, antiche e moderne.
L’altra corrente si è
presentata come custode e propugnatrice della “Tradizione” contro le dottrine
del Concilio giudicate infedeli alla “Tradizione”. Mi riferisco soprattutto
all’ormai famoso Mons.Lefèbvre, il
quale accusò le dottrine conciliari di essere inquinate di modernismo, sostenendo
che esso aveva ceduto in particolare ai princìpi illuministici e razionalisti
della Rivoluzione Francese, nonchè al naturalismo, indifferentismo, ed antropocentrismo
del sec.XIX, dando come verità dottrine che in precedenza erano state
condannate e falsificando l’immutabile deposito rivelato tradizionale della Chiesa.
Per i lefevriani la Chiesa è stata nella verità fino al 1962. Da quella data
essa ha deviato dalla Tradizione e i lefevriani si sentono il compito di
riportarvela. I lefevriani non negano il primato dei Papi postconciliari e
l’autorità del Concilio; tuttavia sostengono che si sono sbagliati.
Se ci pensiamo, si tratta di accuse gravissime, che suppongono la negazione dell’infallibilità del Magistero
conciliare, benchè in linea di principio non si neghi (come invece fanno i
modernisti) l’immutabilità del dogma, del dato rivelato e di quello
tradizionale.
Tuttavia c’è la pretesa
di vagliare e giudicare le dottrine del Concilio rifacendosi direttamente alla
Tradizione, quasi a voler cogliere il Concilio in fallo, a voler “correggerlo”
o a respingerlo una volta trovato sbagliato, “alla luce della Tradizione”, dimenticando
che l’interpretazione della Tradizione spetta al Magistero della Chiesa ed emerge
nello stesso Concilio, sommo testimone della Tradizione, il quale, come ha
insegnato Paolo VI, ben lungi dall’aver tradito la Tradizione, l’ha fatta sviluppare,
cioè ce l’ha fatta conoscere meglio in continuità col Magistero precedente.
Discontinuità,
contraddizioni, falsificazioni, ambiguità, incoerenze che possono apparire a tutta
prima - ci insegnano i Papi del postconcilio - sono solo apparenti, per cui un
esame più approfondito ed attento, un’esegesi del “progresso nella continuità”,
è tale da renderci consapevoli della verità intangibile delle dottrine del Vaticano
II.
L’ermeneutica del
Vaticano II richiede il riferimento ai tre gradi di autorevolezza delle
dottrine del Magistero esposta nella Nota
illustrativa della Formula conclusiva della Professio Fidei della Congregazione
per la Dottrina della Fede in appendice alla Lettera Apostolica di Giovanni
Paolo II “Ad tuendam fidem” del 18 maggio 1998.
Atteso che il grado
massimo di autorità del dato rivelato è la Parola stessa del divin Maestro
contenuta nel Vangelo, riassunto nel Simbolo
della Fede (il “Credo”), subito al di sotto di questa Parola c’è l’insegnamento
della Chiesa, la quale, assistita dallo Spirito di Cristo, ci interpreta e ci trasmette infallibilmente
il divino messaggio della salvezza ovvero il dato della Rivelazione
contenuto nella Scrittura e nella Tradizione.
Per comprendere esattamente quanto ciascuna delle dottrine
del Concilio impegna la nostra adesione alla Parola di Dio mediata ed interpretata
alla Chiesa, bisogna far riferimento a
questi tre gradi di autorità delle dottrine della Chiesa. Si tratta sempre
e comunque di dottrine assolutamente ed immutabilmente vere, quindi in tal
senso “infallibili”, perché, iniziando dal grado di massima autorità, di fede teologale
esplicita e dichiarata, abbiamo la dottrina
detta “di fede definita”, quello che comunemente vien detto “dogma” (I
grado). Quando il Magistero dà una definizione di questo tipo, si dice
Magistero “solenne e straorinario”. “Solenne” vuol dire “insegnato con la forza
massima dell’autorità”; straordinario vuol dire “insegnamento nuovo”. Nei gradi
inferiori ci può essere novità, ma comunque meno autorità.
Al secondo grado abbiamo ciò che è implicitamente o indirettamente
di fede, ossia la dottrina detta “prossima alla fede” o semplicemente “dottrina
della Chiesa”, dottrina detta “definitiva
ma non definita”, impegnante quindi non la fede teologale, ma la fede nell’infallibilità
della Chiesa, detta anche “fede ecclesiastica”.
Al terzo grado infine abbiamo dottrine che chiedono un’adesione detta “religioso ossequio della
volontà”. in questo grado non c’è la certezza, ma solo probabilità che la proposizione sia di
fede. In un tempo successivo questa certezza potrà emergere e la dottrina potrà
essere anche elevata alla dignità di dogma definito.
Una questione
importante che interessa l’ermeneutica del Concilio è qual è la natura dei contenuti
teologici del Concilio. I Papi del postconcilio ci hanno spiegato e del
resto ciò risulta evidente da una semplice lettura dei testi, che questi documenti
riguardano i due rami fondamentali della teologia: la dogmatica e la morale. Una
distinzione oggi frequente è quella fra l’elemento “dottrinale” e l’aspetto “pastorale”,
dove qui per “pastorale” s’intende “morale”, in quanto il Concilio dà direttive
ai Pastori su come e dove guidare il Gregge; ma, come vedremo più sotto, con
questo termine si fa riferimento anche al linguaggio del Concilio.
E’ sbagliata pertanto quella interpretazione del Concilio,
diffusa tra i lefevriani, secondo la quale il Concilio sarebbe solo pastorale e
non dottrinale, così da relativizzare le dottrine del Concilio e poterle
liberamente contestare.
La parte dottrinale o
dogmatica non contiene nuovi dogmi definiti, quindi non riguarda il primo
grado delle dottrine, se non per la ripresa di dogmi già definiti. Invece
abbiamo novità, ossia esplicitazione o chiarimenti dottrinali con
l’enunciazione di dottrine di secondo e di terzo grado. Indubbiamente però non
è sempre facile, anche per gli esperti, stabilire quali sono di terzo e quali
di secondo. Alcuni teologi sostengono che sono tutte del terzo, ma la
discussione è aperta.
Frattanto in questi
cinquant’anni il Magistero ci ha fornito una gran quantità di documenti ed
insegnamenti che ci aiutano a comprendere il valore e il senso delle
dottrine del Concilio, sia soprattutto con documenti pontifici, che con
interventi di Dicasteri Romani, soprattutto della Congregazione per la Dottrina
della Fede (CDF), con la sua proposta della verità, accompagnata dalla
confutazione degli errori. Strumenti ermeneutici preziosissimi sono nel loro
rispettivo campo, il Catechismo della Chiesa
Cattolica (CCC) e il nuovo Codice di
Diritto Canonico (CDC). Compito prezioso è svolto anche dalla Commissione Teologica Internazionale (CTI),
benchè essa non costituisca Magistero ma semplice consesso di esperti.
Ci sono nel Concilio dottrine che ci fanno conoscere meglio
certi aspetti della dogmatica, per esempio il concetto di Rivelazione, il
rapporto Scrittura-Tradizione, la natura della liturgia, della Chiesa e dei
ministeri ecclesiali, il rapporto Chiesa-mondo, i sacramenti, i misteri
dell’escatologia, la mariologia. E vi sono altri contenuti che toccano la
morale, come per esempio la prassi liturgica, i doveri del Papa, dei vescovi,
dei presbiteri, dei diaconi, dei religiosi, dei laici, delle famiglie, dei
politici, dei lavoratori, degli artisti, dei missionari, nonché le attività
ecumeniche, il dialogo interreligioso e con i non-credenti, l’esercizio della
libertà religiosa, ecc.
Una questione
importante che interessa l’ermeneutica del Concilio è evidentemente quella del
linguaggio. Essa è strettamente legata alla qualifica di “pastorale”
comunemente data al Concilio. Infatti essa può riferirsi a contenuti di
carattere morale, concernente l’applicazione della teoria alla prassi, come ho
detto sopra, ma può riferirsi anche al particolare tipo di linguaggio che il
Concilio ha scelto di proposito per essere più comprensibile o favorevolmente
accolto dal mondo d’oggi ed essere più efficace nella diffusione del Vangelo,
dato che non dobbiamo assolutamente dimenticare che uno dei fini del Concilio è
quello di avviare quella che oggi si chiama “nuova evangelizzazione”.
In tal modo il Concilio, come ha tenuto in modo speciale ad
avviare un rapporto costruttivo col mondo moderno nell’ambito dei contenuti, così
ha cercato anche di usare un linguaggio
moderno nel modo di esprimersi e di comunicare. Sta qui la cosiddetta
“pastoralità” del linguaggio del Concilio in documenti, si badi bene non solo
di carattere morale o di contenuto pastorale, il che è abbastanza comprensibile,
ma anche in quelli di carattere dogmatico.
Inoltre, per
“pastorale” del Concilio s’intendono le direttive pratiche su come avviare i
rapporti col mondo moderno, a chi rivolgersi, cosa fare, come agire, come muoversi,
come parlare, a cosa mirare, per quali motivi, supponendo che il “cosa dire”
sia già scontato. Su questo piano la ricchezza delle indicazioni è molteplice.
Ciò che è stato lamentato da varie parti e che oggi emerge
sempre più chiaro è, nel Concilio, soprattutto per quanto riguarda le direttive
date ai Pastori, un atteggiamento
eccessivamente ottimistico ed in certo modo ingenuo nei confronti delle forze
ostili alla Chiesa che tuttora sussistono e che non vengono affrontate con
sufficienti energie di espansione e di difesa in nome di una misericordia che
rischia di dimenticare la giustizia e l’elemento ascetico della vita cristiana.
Curiosamente il Concilio
non parla di “eresie”, non usa nemmeno la parola, benchè vi siano
espressioni equivalenti. In realtà le eresie esistono anche oggi ed andrebbero
condannate. Invece in molti è nata l’idea che quella che una volta si chiamava
“eresia” era solo un diverso punto di vista che magari successivamente sarebbe
stato approvato dalla Chiesa.
Infatti i modernisti si sforzano di dimostrare con documenti
male interpretati, con diffidenza verso quelli autentici e assenza di giusto
criterio di valutazione, che molti di coloro che in passato la Chiesa ha
condannato come eretici, - le famose
“vittime dell’Inquisizione” - oggi, dopo il Concilio, si è scoperto che avevano
ragione - per esempio Lutero - e che erano dei “profeti”. Ma oggi sta sorgendo un’inquisizione
modernista peggiore della precedente, se non altro perché almeno questa
difendeva la verità, mentre questa difende l’eresia.
Da qui è nato il ben
noto fenomeno del “buonismo”, per il quale nella infondata convinzione che
nessuno ha cattiva volontà, tutti siamo in grazia di Dio e tutti ci salviamo, ne
consegue che tutto viene scusato e si tende a cadere in un cristianesimo fiacco
e deresponsabilizzante. Quei pochi che contestano queste falsità vengono
tacciati dai modernisti di essere “preconciliari” o sorpassati.
A tal proposito alcuni
canonisti hanno lamentato l’assenza dei tradizionali “canoni”, che un tempo
davano chiarezza, inequivocabilità, sicurezza e precisione alle disposizioni vincolanti e più importanti,
con un salutare timore della pena. Invece il tono del linguaggio è troppo
esortativo e troppo poco prescrittivo. Tutto sembra facoltativo e non è sempre
facile sapere che cosa c’è di obbligatorio. Lo stesso linguaggio giuridico è
quindi difettoso, perché caratteristica di questo linguaggio è invece il tono
prescrittivo, tale da incutere il rispetto della legge o della verità.
Il Vaticano II ha così
di proposito rinunciato ad un vocabolario tradizionale di tipo scolastico-giuridico,
che caratterizzò maggiormente certi Concili del passato, come per esempio il
Concilio di Trento e il Vaticano I, per adottare il linguaggio corrente della
cultura moderna: scelta indovinata, ma non priva di rischi, perché il
linguaggio corrente della cultura moderna, è spesso equivoco a causa di
soggiacenti errori dottrinali.
Il
Concilio ha voluto correre questo rischio. Certo il risultato è stato quello di
un linguaggio accessibile al comune
fedele, più comunicativo, più attraente, ma a volte troviamo espressioni
non chiare, equivocabili, quindi assolutamente bisognose di una buona interpretazione.
Ci si è dimenticati che anche il fedele deve saper apprendere il linguaggio
della Chiesa. Va bene facilitargli le cose, ma anche lui deve fare lo sforzo di
imparare.
Il Magistero di questi cinquant’anni si è sforzato in vari
modi, come abbiamo visto, di rimediare a questo difetto, e molto ha fatto. Ma il
persistere, anche da parte di dotti e di esperti, di interpretazioni contrastanti,
nonostante ogni buona volontà, circa certi insegnamenti, testimonia l’effettiva
realtà di queste difficoltà, che vanno risolte. E chi in definitiva può farlo? Evidentemente
il Magistero della Chiesa, sotto la guida del Papa, che per noi cattolici resta
sempre il definitivo punto di riferimento per l’interpretazione autentica ed
infallibile della Parola di Dio.
P.Giovanni
Cavalcoli, OP
Bologna,
6 novembre 2012
(Il grassetto è dell'Autore)
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