di Padre Giovanni Cavalcoli OP
S.Caterina da Siena dice che quanto più si ama il bene, tanto più si deve odiare il male. Non è, questo, altro che l’enunciato fondamentale della morale, un principio evidente, noto a tutti. Eppure nell’atmosfera presente di diffuso buonismo siamo immersi nella retorica dell’“amore” à gogo e si ha quasi ritegno a parlare dell’odio.
Nell’omiletica o nella pubblicistica cattolica corrente gli si accenna quasi di sfuggita, come cosa sulla quale non è il caso di fermarsi o come cosa talmente orribile, che si stenta a credere che esso esista. Diffusa infatti è l’idea che nessuno tra noi sia veramente “cattivo”, nutra effettivamente cattive intenzioni o abbia cattiva volontà.
Se facciamo il male, lo facciamo involontariamente, in buona fede, senza saperlo, per “ignoranza invincibile”, come si dice nel linguaggio morale tradizionale. Spesso sentiamo dire che nell’uomo è naturalmente insito “il desiderio di Dio”: dunque tutti in fondo sono buoni, tendono al bene, tendono a Dio. Alcuni dicono che tutti sono in grazia, anche se non lo sanno (“cristiani anonimi”). Anche gli atei sono in grazia. Altri dicono che l’ateismo non esiste: l’ateo crede di essere ateo, ma in realtà è un credente (“atematico”). Altri sostengono che tutti si salvano e che l’inferno è “vuoto”. Tutte le religioni sono salvifiche. Secondo altri il diavolo non esiste, per cui non corriamo da lui nessun pericolo di essere tentati al male.
C’è chi condanna assolutamente e in ogni caso l’uso della forza, come se fosse cosa sempre ingiusta, come fosse sempre violenza, come fosse contraria all’“amore”. C’è chi fraintende l’evangelico “amore per il nemico”, come se questo “amore” richiedesse di essere conniventi e complici del torto subito dal nemico, mentre in realtà Cristo si riferisce al dovere di trovare lati buoni anche nel nemico. C’è chi pensa che “amare” significhi tollerare tutto, scusare tutto, anche i più tremendi delitti, anche gli atti più blasfemi fatti contro Cristo o la religione, magari in nome della libertà dell’arte e della cultura.
Lo stesso atto di fede, che di per sé sarebbe conoscenza, viene ridotto all’amore: fede come “incontro con Cristo”. Ma come faccio ad incontrarmi con Cristo se non conosco il vero su di Lui e non prendo per vero ciò che Egli mi insegna? Indubbiamente c’è e ci dev’essere la fede viva, formata dalla carità, la sola che salva, diversamente il semplice credere non serve a nulla. Ma resta pur sempre che il credere, che è atto del pensare o del conoscere, è distinto dalla carità, che è atto dell’amore e del volere.
Siamo sommersi fino al collo nella retorica dell’“amore”. E’ tutto e dovunque un parlare di “amore”, di “carità”, di “comunione”, di “comunità”, di “socializzazione”, di “unità”, di “scambio”, di “dialogo”, di “comunicazione”, di “fratellanza”, di “solidarietà”, di “misericordia” e via discorrendo. Si è inventata una “metafisica dell’amore”, mentre il vero oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, non l’amore.
In nome dell’“amore” si favorisce il rispetto umano e la viltà, si rinuncia alle proprie convinzioni di fede per non dispiacere agli altri, si giustifica l’indifferentismo religioso e la mancata correzione degli erranti, si chiama “amore” ciò che in realtà è lussuria, si cede ad ogni sopruso e si spingono gli oppressi a non difendersi dai prepotenti, si scusa ogni delitto, si disapprova il castigo dei criminali, si fanno le lodi del dolorismo con l’idea falsa che anche Dio “soffre”.
Ma almeno quando si parla di “carità” s’intendesse quella vera, fondata in verità, atto libero della volontà, dono della grazia, virtù teologale indirizzata anzitutto a Dio, regina delle virtù, insegnata dalla Chiesa e dai santi! Invece no: anche nei nostri ambienti cattolici spesso essa è ridotta ad emozione soggettiva o al massimo a un sentimento o ad impulso meramente umano o solidaristico, anche se lodevole, ma del tutto al di sotto della vera carità cristiana, che dev’esser fondata sui nobilissimi motivi della fede: possedere nel proprio cuore la stessa carità di Cristo, esser figli del Padre e mossi dallo Spirito Santo, membra vive di quella soprannaturale Comunità d’amore che è la Chiesa Sposa di Cristo, con tutti i temi connessi a queste sublimi verità.
Innanzitutto bisogna distinguere l’amore dalla carità, troppo spesso presi per sinonimi, e questo già vuol dire partire col piede sbagliato. L’amore conduce alla carità e la carità suppone l’amore, ma non sono affatto la stessa cosa, benché si assomiglino, perché entrambi vengono da Dio e conducono a Dio. Ma l’amore è un impulso emotivo sensitivo, che hanno anche gli animali, è, secondo un termine tradizionale della morale, senza dargli un senso negativo, una “passione”.
Certo una passione può diventare violenta, irresistibile e incontrollata e allora si può cadere nel peccato o anche nella pazzia. Ma la passione come tale è un moto dell’appetito sensitivo che fa naturalmente parte dell’animale in generale e quindi compreso quell’animale razionale che è l’uomo. Tutto sta a moderare o disciplinare sapientemente la passione, onde farla servire ai fini più alti della vita.
L’amore è un moto o una tendenza che va spontaneamente verso il bene sensibile, possedendo il quale il soggetto prova piacere. L’opposto dell’amore è appunto l’odio, anch’esso dunque una passione o un’emozione fatta per fuggire il male, che provoca dolore. Nell’uomo a questi due impulsi fondamentali dell’istinto si aggiungono i due moti fondamentali del volere.
E qui troviamo un amore più nobile, che non sorge come nell’animale, dalla semplice percezione del senso, ma dalla conoscenza intellettuale, sicché questo più elevato amore, capace di desiderare il bene universale o assoluto, è detto tradizionalmente “appetito intellettuale”. La carità si innesta direttamente su questo livello dell’amore (il “voler bene”, ossia il bene della persona amata), senza però escludere affatto il piano inferiore dell’amore sensibile.
Discorso analogo e speculare va fatto per l’odio. Come esiste un odio dal punto di vista affettivo e psicologico, così esiste un odio spirituale, ossia nella volontà. E come si può odiare o rifiutare un bene sensibile con l’odio-passione, un bene evidentemente visto come male o doloroso, così si può odiare un bene intellettuale o spirituale con l’odio volontario della volontà. In quanto rifiuto del bene o attaccamento a un falso bene, il peccato comporta sempre una forma di odio, che in fin dei conti è odio per Dio Legislatore della vita morale.
Ed anche nel caso dell’odio nella volontà, il soggetto vede come male il bene rifiutato, altrimenti non lo rifiuterebbe, in base al principio fondamentale citato sopra dell’amore per il bene e dell’odio per il male. Nel caso dell’odio nella volontà il discorso si fa più sottile ma più importante. Ed è di questo secondo tipo di odio che si parla poco e del quale qui invece vogliamo dire qualcosa.
Ciò significa che l’odio non è necessariamente e sempre uno sfogo passionale, non vuol dire sempre dare in escandescenze, perder la testa, arrossire in volto con occhi sanguigni, digrignare i denti, aggredire selvaggiamente, respingere con evidenti moti esterni di orrore. Queste sono le manifestazioni più grossolane dell’odio, anche se assai pericolose e riprovevoli, dove l’uomo, perdendo il lume della ragione, diventa come una bestia feroce, accecato dall’ira o assetato di vendetta o anche sotto l’influsso di una malattia mentale.
Ma bisogna dire con tutta chiarezza e a ragion veduta che non sono queste la manifestazioni più gravi e peccaminose dell’odio. Sono invece quelle che sorgono dalle cattive intenzioni e dalla malafede, dall’ignoranza colpevole, con le caratteristiche proprie della colpa morale ovvero del peccato, secondo la formula tradizionale: “piena avvertenza e deliberato consenso” e la cattiva volontà ovvero la malizia della volontà, quella che propriamente si chiama “malvagità”, parola che i buonisti vorrebbero espungere dal vocabolario, ma che purtroppo dev’esser mantenuta perché la malvagità purtroppo esiste (e come!) e produce realmente sciagure e frutti di morte fino alla dannazione dell’inferno per il malcapitato odiatore. E qui siamo evidentemente agli antipodi più netti della carità. Essa risplende maggiormente se messa a confronto con questo suo acerrimo nemico, che è l’odio.
Occorre però certamente saper usare con saggezza queste parole “malvagità” o “cattiveria”, perché non si tratta mai di ipostatizzare questi attributi quasi che in essi si risolvesse la totalità della persona, ma occorre sempre ricordare la distinzione fra il peccato e il peccatore. Come ho detto sopra, non c’è persona così cattiva o malvagia che non abbia lati buoni. Qui sta il fondamento del precetto evangelico dell’amore per il nemico. Non avrebbe senso amare il nemico in quanto nemico, ma lo si ama in quanto conserva dei lati buoni.
Su questo punto, proprio per la salvaguardia della dignità stessa del peccatore, che mantiene la sua dignità di persona anche quando pecca, bisogna opporsi con la massima nettezza alla stupidità e all’ipocrisia del buonismo, anche se indubbiamente qui ci si para innanzi un quadro anzi un abisso impressionante per non dire terrificante, che vorremmo non vedere, anche per i legami e la connivenze che a questo punto sorgono con quello che la Scrittura chiama “potere delle tenebre”, ossia la malizia del demonio. Infatti l’odio puramente intellettuale e volontario, ossia spirituale, è la specialità del demonio, che facilmente vorrebbe trascinare in questo odio lucido e calcolato, non passionale ma così ancor più crudele, noi poveri esseri umani figli di Adamo peccatore.
Il fatto che l’odiatore in questo caso possa mantenere una certa padronanza di sé, un contegno emotivamente controllato, anzi dalle apparenze miti per non dire signorili, quindi apparentemente “caritatevoli”, non toglie nulla alla malizia della sua volontà e alla gravità della sua colpa, proprio per il suo essere lucida, cosciente e libera, puramente fondata sullo spirito, spirito che però, in tal caso, non esitiamo a dirlo, è uno spirito diabolico.
Questi odiatori non lasciano trasparire nulla, anzi possono mantenersi gentili col loro nemico – da qui tra l’altro la loro ipocrisia – salvo ad aggredire furiosamente quando meno te l’aspetti, come il serpente nascosto nell’erba. Pensiamo per esempio alla famosa notte di S.Bartolomeo dove gli assassini invitarono le loro vittime ad una magnifica cena, o alla tragica fine di Nabucodonosor, certamente ucciso da un suo intimo la notte seguente ad un banchetto che aveva offerto per i suoi collaboratori ed amici. Sommo bene di questo odio sotto l’apparenza dell’amicizia è il tradimento di Giuda.
E’ questo lo spirito che anima i grandi traditori, i grandi eretici, i personaggi più crudeli ed astuti, che mossi o da ideologie deliranti o da ostinati fanatismi o dall’ambizione o dalla sete di potere, complottano o studiano piani complessi e bene organizzati di offesa o di distruzione dell’umanità o di interri popoli. Pensiamo ai grandi piani politici, culturali e militari delle più atroci dittature della storia, come la persecuzione nazista degli ebrei o le purghe del periodo staliniano e cose del genere.
L’odio stesso che ha mandato a morte Cristo è stato un odio di questo genere, ispirato da Satana, odio sorprendentemente venuto da persone che avrebbero dovuto essere esempio di virtù: scribi, farisei, sommi sacerdoti. Non c’erano di mezzo basse passioni, se non forse la sete del denaro, ma soprattutto c’erano la superbia, l’ambizione, il fanatismo religioso, l’invidia nei confronti di Cristo. E i martiri lungo la storia del cristianesimo seguono la stessa sorte. Eppure la loro carità eroica vince le potenze del male, del peccato, dell’odio e dell’inferno.
Libertà e Persona 20 novembre 2012
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