Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l'Urbaniana
di Rodolfo Papa
Il mito del progresso sembra essere uno dei miti più forti prodotti dalla modernità, tanto da resistere persino alla relativizzazione e al debolismo tipici della mentalità postmoderna. Il mito del progresso ha impregnato fortemente la riflessione sulla storia, e intrattiene un rapporto peculiare con la storicizzazione dell’arte.
Ancora oggi, la maggior parte dei manuali propone la storia delle arti come una successione continua “dal peggio al meglio” secondo un puro criterio cronologico, secondo il quale ciò che viene dopo è senz’altro migliore rispetto a ciò che viene prima [1].
Ma dove nasce questo mito? La nozione di progresso accompagna ogni riflessione umana, ma il mito moderno del progresso, inteso come «filo conduttore della comprensione unitaria e organica degli eventi storici», affonda le radici in modo peculiare nell’Illuminismo del XVIII secolo; infatti, come lo storico della filosofia Miccoli ha messo in evidenza, le progrès funge da «denominatore comune nella proporzione ottimistica stabilita tra l’accrescimento quantitativo delle scoperte scientifiche e l’incremento qualitativo della felicità che accompagna l’evoluzione del genere umano sotto forma di storia della civilizzazione» [2].
Il mito del progresso è strettamente legato ad una visione meccanicistica e quantitativa della realtà, nella quale ogni aumento viene registrato come sommatorio e come positivo. È intimamente connesso all’entusiasmo sollevato dal progresso scientifico; già Bacone, nel suo Novum Organondel 1620, sembra identificare il progresso in quanto tale con quello delle scienze, da lui intese come somma di conoscenza e potere, dunque dominio della natura: «non si tratta solo della felicità della contemplazione, ma del destino e della fortuna del genere umano e di tutta la potenza delle opere. L’uomo, infatti, ministro e interprete della natura, tanto opera e comprende quanto, dell’ordine della natura, avrà osservato, con l’attività sperimentale o con la teoria»[3].
Il progresso è soprattutto un modo di valutare la storia e il passaggio del tempo, nella convinzione che l’uomo, grazie allo sviluppo delle proprie capacità, riesca a dominare la realtà e a costruire un mondo ed una società via via migliori. Il mito del progresso è, infatti, alla base delle grandi utopie della modernità, a partire dalla Nuova Atlantide dello stesso Bacone, e viene condiviso da pensatori assai diversi.
Il mito del progresso si rivela, infatti, come una sorta di filo conduttore, entro il quale è possibile leggere esperienze del pensiero e della cultura assai diverse e distanti fra di loro.
Nel corso dell’Ottocento, per esempio, appaiono filosofie progressive tanto l’idealismo quanto il materialismo positivista, tanto Hegel quanto Comte. Sia la dialettica di Hegel che la legge dei tre stadi di Comte, che traduce “la marche progressive de l’esprit humain” non cadono nelle ingenuità del progresso lineare, essendo la prima segnata dalla peculiarità del processo della dialettica storica dello Spirito e la seconda dalle serie di oscillazioni variabili quasi biologiche.
Tuttavia il mito del progresso si semplifica via via nella visione del tempo secolarizzata: una linea retta verso il meglio, che non è più historia salutis ma histoire de la civilisation. Il futuro diventa il paradigma per il presente, un futuro fatto di tecnologia e innovazione, così nel Manifesto del futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, leggiamo: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno […]
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo [...] un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia […] Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! [...] Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente».
Il progresso entra in dialogo, e per certi versi sussume, le concettualità diverse dello sviluppo e dell’evoluzione, entrambe derivate dalle scienze biologiche. L’idea di sviluppo introduce l’idea di una crescita organica, teleologicamente motivata, mentre di contro l’evoluzione illustra un processo verso il più complesso dominato dal caso.
Entrambe, tuttavia, sia lo sviluppo che l’evoluzione, sembrano nutrire il mito stesso del progresso, che si rivela quanto mai onnivoro e invadente.
Tuttavia, è un mito che mostra presto i propri limiti e le proprie ambiguità. Inizialmente la critica al progresso appartiene a pochi che si soffermano a riflettere, successivamente, soprattutto dopo le Due Guerre Mondiali, appaiono evidenti a ciascuno le crepe di un mito ormai caduto.
Ma il mito del progresso viene denunciato già entro le soglie del XIX secolo. In modo particolare Nietzsche nella Seconda Considerazione Inattuale. Sull’utilità e il danno della storia per la vita del 1874, traccia, secondo alcuni, il confine finale della modernità [4]. Nietzsche critica la cultura occidentale, e in modo speciale lo storicismo che rende l’uomo incapace di storia, e che è un prodotto del razionalismo del progresso, della fede positivista nella scienza.
Ma ancora prima di Nietzsche, è Leopardi a porre una critica radicale a questa visione della storia, soprattutto nella Ginestra scritta nel 1836, dove la grande tracotanza moderna appare ritratta nella sua ridicola e tragica sconfitta: «Dipinte in queste rive/ Son dell’umana gente /Le magnifiche sorti e progressive/ Qui mira e qui ti specchia/ Secol superbo e sciocco,/Che il calle insino allora/Dal risorto pensier segnato innanti/Abbandonasti, e volti addietro i passi,/Del ritornar ti vanti,/E proceder il chiami».
E ancora più incisivamente, la superbia e la sciocchezza del secolo che crede nelle sorti magnifiche e progressive appare nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo del 1824, in cui viene illustrata la scomparsa della specie umana: «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». E gli uomini sono spariti per loro propria causa: « Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male»; ma il mondo continua ad andare avanti e lo gnomo afferma: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» .
Una critica molto forte all’idea di progresso e soprattutto agli aspetti intrinsecamente negativi del progresso scientifico e tecnologico proviene nel secolo XX dalla Scuola di Francoforte, che si distanzia in questo dal marxismo classico. Il dominio recato dalla scienza è in realtà una forma di schiavitù. Ben lontano dal “promontorio estremo dei secoli”, ma anche ben oltre la denuncia del “secolo superbo e sciocco”, Horkeimer mostra il mondo che «sembra andare verso una catastrofe, o meglio trovarvisi già» [5]. Adorno, quando denuncia la “cattiva coscienza” del progresso, che mentre libera distrugge, diffida anche dell’estremo antiprogressismo, che può rovesciarsi nell’irrazionalismo.
L’immagine più suggestiva dell’ambiguità del progresso è, forse, quella offerta da Walter Benjamin: «C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta»[6].
Il progresso viene, dunque, rappresentato come una tempesta che proviene dal paradiso, spinge verso un futuro che non vediamo, mentre si accumulano i detriti del passato.
Il mito del progresso sembra dunque svelato nella sua valenza mitica, ma può, tuttavia, dirsi superato? Il termine rimane ancora investito di valenza fortemente positiva: «Noi diamo per scontato che qualsiasi progresso tecnologico sia, per definizione, un progresso. Sì e no. Dipende da cosa intendiamo per progresso.
Di per sé, progredire è solo un “andare avanti” che comporta un aumento. E non è detto che questo aumento debba essere positivo. Anche di un tumore si può dire che è in progresso; e in questo caso quel che aumenta è un male, una malattia. In molto contesti, allora, la nozione di progresso è neutra. Ma in riferimento al progredire della storia la nozione di progresso è positiva. Per l’illuminismo, e ancor oggi per noi, progresso è una crescita di civiltà, un aumento in meglio, un miglioramento» [7].
Eppure la nozione di progresso, sebbene per più versi demitizzata, continua ad essere uno dei motori più forti della storicizzazione artistica, soprattutto di tipo manualistico. La sua persistenza ci obbliga a riflettere ancora.
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NOTE
[1] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.
[2] P. Miccoli, La voce di Clio. Lineamenti di filosofia della storia, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 131.
[3] F. Bacone, Nuovo organo [1620], trad.it., Rusconi, Milano 1998, VI, pp. 57-58.
[4] «Appare, dunque, comprensibile il rifiuto nietzscheiano del mito del Progresso e della Storia: la seconda Considerazione inattuale (1874) chiude l’epoca della modernità e pare il periodo fluido e incerto, poliedrico e danzante della postmodernità. La concezione lineare della storia, propria in forma religiosa del secondo uomo ed in forma utopica del terzo uomo, viene ibernata» G. Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando editore, Roma 1992, p. 18.
[5] M. Horkheimer, Materialismo e morale [1933], in Teoria critica. Scritti 1932-1941, trad.it. Einaudi, Torino 1974, p. 95.
[6] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it., Einaudi, Torino 2006, p. 79.
[7] G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 19.
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