martedì 9 dicembre 2025

Dalla tutela del clima alle minacce alla libertà







COP 30 


Di Gianfranco Battisti, 9 dic 2025

Un summit fallimentare

Come i media hanno ampiamente comunicato, l’accordo raggiunto durante la Cop30, la trentesima Conferenza annuale sul clima delle Nazioni Unite, viene definito “deludente” dai governi europei e dal Brasile stesso che ha ospitato l’evento. Non solo non c’è un percorso vincolante per l’uscita graduale dai combustibili fossili, ma addirittura tale categoria non compare tra gli impegni precisati nel documento finale. Pochi gli impegni approvati, pochi i finanziamenti promessi. Su tutto ha pesato poi l’assenza (oltre a quella, consueta, della Cina e dell’India), degli USA, che all’inizio dell’anno sono usciti dal Trattato di Kyoto. Del resto, anche la partecipazione del pubblico ha lasciato a desiderare.

Il vertice ha invece approvato un “Piano d’azione di genere”, volto a incrementare la rappresentanza femminile ai colloqui di lavoro, proteggere le donne impegnate nella difesa dell’ambiente e garantire che le politiche climatiche tengano conto del loro impatto sulle donne e sulle ragazze, considerate come soggetti particolarmente fragili. Argomento lodevole, ma che non sta proprio al centro della questione. Senza contare che l’esplicito “linguaggio di genere” non è piaciuto ad es. alla Russia ed alla Santa Sede.

Degna di rilievo è piuttosto l’inedita alleanza tra 20 Paesi (tra i quali il Brasile)[1] e l’UNESCO: sono i soggetti che hanno lanciato una Dichiarazione, redatta dalla cosiddetta Iniziativa Globale sull’integrità dell’informazione sui cambiamenti climatici. Un’associazione creata “per contribuire a indagare, denunciare e smantellare la disinformazione relativa ai cambiamenti climatici, nonché a diffondere i risultati della ricerca”.

Appare sintomatico che la stragrande maggioranza dei Paesi aderenti appartengano all’Europa. La lobby continentale in trasferta a Belém sperava di trovare un sostegno internazionale alla politica di transizione energetica radicale, sempre meno accetta a Bruxelles. Nell’eurocamera il vento è cambiato e la nuova maggioranza di fatto tra i Popolari e le destre sta mandando al macero le norme green più demenziali redatte dall’ammucchiata rosso-verde, mettendo in crisi la “maggioranza Ursula”. In Brasile il carrozzone climatista ha invece toccato con mano come buona parte del mondo stia silenziosamente cambiando strada.

Non si tratta solo dei tre maggiori inquinatori del pianeta (Cina, India e USA). È il segnale che il nostro continente – in profonda crisi morale, politica, demografica ed economica; privo di energia quanto di materie prime e chiaramente incapace di realizzare una politica estera che ne tuteli il futuro – ha perduto la leadership mondiale anche in questo settore, attraverso il quale si era illuso di prolungare la sua influenza sull’economia mondiale. Non è casuale la convergenza tra gli europei e il Brasile. Non è soltanto una consonanza di tipo ideologico. Sul tappeto c’è l’accordo per l’apertura del mercato UE ai paesi del Mercosur, guidati attualmente da Lula da Silva. Se anche questa opportunità venisse a saltare – come ipotecato dalla opposizione totalitaria del parlamento francese – la UE dimostrerebbe definitivamente la sua insignificanza a livello globale.

Al lupo, al lupo!

La sconfitta (preannunciata) di Belém ha messo in allarme i pifferai di mestiere, i quali hanno pensato di salvarsi la faccia puntando il dito contro la “disinformazione”. Da qui l’appello a 360° perché il mondo insorga contro quanti diffondono una cultura contraria alla narrazione ufficiale. Ci si preoccupa del crescente impatto della “disinformazione”, del “negazionismo”, espressioni standard che tradiscono la consapevolezza che la verità sta facendosi strada attraverso il muro di falsità che ci viene tuttora scaricato addosso dalla quasi totalità degli organi di informazione.

Ciò fa naturalmente paura a quanti sbarcano il lunario vendendo sogni. Visto che la cura non funziona, pensano bene di aumentare la dose. Rimasti a corto di idee, non hanno trovato di meglio che criminalizzare ancora di più il dissenso. Si denunciano così gli “attacchi deliberati a giornalisti ambientalisti, difensori dei diritti, scienziati, ricercatori e altre voci pubbliche”, quasi fossero vittime di raid squadristici dei quali non abbiamo alcun riscontro. Al contrario, le uniche violenze provengono proprio dagli ecologisti, vedi le bravate ed i vandalismi di patetici gruppuscoli, dai “Gretini” ad Extinct rebellion.

Fanno veramente pena questi eroici difensori della verità a senso unico. Chi scrive ricorda fin troppo bene la vera e propria aggressione subita anni orsono da un cattedratico di fisica durante un seminario sui temi dell’energia. Per 45 minuti mi sono sentito dare alternativamente dell’ignorante e del cretino da parte di questo energumeno, balzato in piedi allorché, iniziando il mio intervento, avevo definito il riscaldamento globale una problematica sulla quale si discute. No, non si può discutere, si deve solo accettare, e quindi credere, obbedire, combattere. Come si diceva nel ventennio, i fascisti sono come i fichi, neri di fuori e rossi di dentro. Poi, hanno rivoltato la divisa.

Se non sempre menano le mani, non rinunciano comunque a tentare di zittirti. Difatti, il comizio del “collega” mi ha sottratto – con la connivenza della coordinatrice – il tempo assegnato (anzi ben di più), impedendomi di fatto di esporre il mio contributo. Chi mi conosce sa che difficilmente sto zitto. Se nell’occasione l’ho fatto è solo per le possibili conseguenze sulla carriera del giovane allievo che mi aveva invitato a parlare. Ho insomma esercitato la responsabilità del maestro, peraltro di fronte ad un uditorio schierato e quindi impermeabile a qualsiasi argomentazione. Purtroppo l’Università non è più un luogo dove alberga il dibattito scientifico, ammesso che lo sia mai stato. Per chi vuole prevalere ad ogni costo, la tentazione di buttare ogni cosa in politica è troppo forte.

E’ esattamente quanto fanno i firmatari del documento in questione, i quali chiamano a raccolta “tutti i segmenti della società, inclusi i cittadini, le comunità, le imprese, i governi subnazionali, le organizzazioni della società civile, le organizzazioni dei media, le organizzazioni internazionali, le università ed i centri di ricerca”. Una mobilitazione giustificata con “L’urgenza della crisi climatica (che) domanda azioni decisive non solo da parte degli Stati”.

Un esercizio di democrazia


Rivolgersi alla piazza significa confessare che la presa sui politici si è allentata, come emerso nel dibattito europeo e puntualmente registrato a Belém. Si cerca allora di mettere sotto ricatto i rappresentanti scelti dal popolo, un esercizio che questi soggetti – tecnicamente dei meri “portatori di interessi” – concepiscono come un esercizio di democrazia. Non passa nemmeno per le loro menti che sollecitare l’aiuto del braccio secolare sia una prassi risalente a quelli che il progressismo identifica come i “secoli bui”.

Si argomenta che la mobilitazione su scala mondiale di tutti questi attori ”richiede l’accesso ad un’informazione sui cambiamenti climatici consistente, affidabile, accurata e basata sull’evidenza”. Strana affermazione invero. I media sono quasi tutti schierati e anche le riviste “scientifiche” pullulano di articoli che seguono gli ordini di scuderia. Le voci dissenzienti quasi mai riescono a trovare spazio, certamente non sulle pubblicazioni che vengono definite “autorevoli”, quelle così specializzate da evitare accuratamente i contributi interdisciplinari, dai quali la realtà dei fatti emerge per forza propria. Il clima, per capirci, è un argomento studiato anche da astronomi, geologi, botanici, geografi, storici, economisti, ma quando vengono menzionati è solo per dichiararli incompetenti. C’è da meravigliarsi se ben pochi fra questi se la sentono di affrontare il tema?

Aggiungiamo il fatto che non esistono finanziamenti per ricerche che potrebbero contrastare la versione consolidata, che gli eventuali risultati non troverebbero comunque un’eco positiva sulla grande stampa (la quale fa capo ai medesimi interessi che reggono la stampa scientifica) e pure il reclutamento del personale scientifico segue il medesimo copione.

Essendo questo il “clima sociale” nel quale siamo immersi, non meraviglia che gli autonominati difensori dell’informazione “libera” chiedano a gran voce che i governi adottino legislazioni volte a controllare le comunicazioni, affidando all’UNESCO (!) il compito di vigilare sulla loro correttezza. Il Global Digital Compact e i risibili Obiettivi di sviluppo sostenibile sono i testi di riferimento per il “grande fratello” globale che si vuole imporci. Ricordiamo ad. es. il cosiddetto Scudo della democrazia, una rete di cosiddetti fact-checker che (sempre) la UE sta approntando per sorvegliare (e censurare) le informazioni online durante in tempo di elezioni.

Un altro degli appelli contenuti nel Documento in questione è l’invito a fare donazioni al Fondo globale per l’integrità ecc., gestito ovviamente dall’UNESCO. Ciò significa che i soldi per la propaganda stanno finendo. La fuga del grande capitale dalla finanza verde è una realtà ormai consolidata. Non c’è allora da meravigliarsi se i finanziatori si stanno dileguando, e senza un flusso consistente che lo alimenti il baraccone mediatico messo in piedi in tanti anni rischia di afflosciarsi su sé stesso.

Il timore è che la verità si faccia strada man mano che la pressione sull’opinione pubblica calerà di intensità e magari si arrivi un domani alle commissioni d’inchiesta, come sta accadendo in molti paesi per l’affaire dei vaccini Covid. Ecco allora che il gridare al lupo assume in prospettiva una qualche plausibilità.

Alcune domande

Facciamoci adesso alcune domande. Se chi pagava fino ad ora sta cambiando idea, non sarà per caso perché ha fatto i suoi conti ed ha compreso che la battaglia è perduta? O meglio, che si tratta di una battaglia persa in partenza, dato che abbandonando gli idrocarburi si va diritti verso il collasso dell’economia globale? Il concetto è stato ricordato anche dal presidente Lula, il quale adesso si lamenta perché riceverà pochi finanziamenti per “salvare” la foresta amazzonica, che però ha abbandonato agli speculatori. Guardiamo ad es. la situazione della Germania, che da un paio d’anni si trova in recessione. Sotto la spinta dei partiti verdi ha chiuso in rapida successione le miniere di lignite, le centrali nucleari ed ha abbandonato il gas russo, con il risultato di ritrovarsi con l’industria automobilistica al collasso, presto seguita dalla metallurgia e la chimica. Che si spera adesso di salvare mettendosi a costruire carri armati.

Anche senza guardare alle statistiche, e cioè a quell’informazione “accurata e basata sull’evidenza” della quale si straparla, si vorrebbe farci credere che la maggior parte dei governi mondiali è composta da imbecilli, impegnati a votare alla catastrofe i loro popoli soltanto per incassare le tangenti dai petrolieri. Forse le industrie “green” (sarebbero le uniche) non pagano tangenti? Quanto ai petrolieri, che sono nella posizione di conoscere meglio di chiunque altro la situazione del pianeta, sono anch’essi così incoscienti da marciare inflessibili fino alla morte propria e dei loro figli? E infine, se coloro che stanno chiudendo il rubinetto dei soldi fossero veramente convinti che l’umanità rischia grosso, è credibile che abbandonino la lotta?

Si vorrebbe farci credere che i governi del “terzo mondo” che a Belém hanno mollato la bandiera verde siano stati frastornati dalla “disinformazione”. Se hanno cambiato idea è perché, 1) hanno accertato che dopo decenni di allarmi il sole continua regolarmente ad alzarsi ogni mattina, 2) vedono cosa succede in Europa, 3) hanno preso atto del mutamento di rotta degli USA sotto Trump. Nel “Terzo mondo” c’è oggi un buon numero di persone preparate, capaci di fare due più due, contrariamente a quello che certa stampa cerca di farci credere. Con tutta probabilità i governanti locali sapevano da sempre che si stava portando avanti una bufala, ma hanno fatto finta di crederci perché schiacciati dall’Occidente, il quale prometteva loro pingue sovvenzioni sotto la voce “contributi ai danni del riscaldamento globale”.[2] E quando hai il tuo popolo che rischia di morire di fame o di spada, non è che ti puoi permettere di dire di no solo per affermare che gli elefanti non volano.

Si dà inoltre il caso che molti di questi paesi campano esportando gas e petrolio. Pretendere adesso, come si è cercato di ottenere a Belém, che vi rinuncino tout-court e magari trovino anche i soldi per comprare costosissime automobili elettriche (per giunta costruite in Cina) appare un’idea semplicemente demenziale. Invece di cercare di decifrare i calcoli astrusi con i quali si vorrebbe dimostrare l’indimostrabile, chiudiamo il televisore e ragioniamo con la nostra testa. Nella maggior parte dei casi il buon senso funziona assai meglio delle elucubrazioni di menti magari eccezionali nel loro microambito di studi, nel quale a volte sono così impegnate da cuocersi l’orologio e guardare l’ora sull’uovo.

Il tempo è galantuomo


Alla fine della storia, c’è effettivamente bisogno di un’informazione seria, imparziale ed affidabile in relazione al clima. E’ infatti ora che si faccia sapere come stanno realmente le cose, e cioè che non esiste alcuna emergenza climatica, né mai è esistita. Come dice Trump, è semplicemente una truffa.[3] Una colossale montatura ideata da una coalizione di scaltri finanzieri, pessimi manager industriali e politici di quart’ordine. L’obiettivo era imporre (assolutizzandola) una rivoluzione tecnologica senza considerare i tempi fisiologicamente necessari alla sua realizzazione, con il rischio di smantellare l’apparato produttivo dell’Occidente. Adesso gli USA hanno tagliato la corda, mentre l’Europa, che ne ha fatto una bandiera ideologica, si è scavata la fossa. Come si vede, è tutto il contrario della fuffa che gli autoproclamati integerrimi tutori dell’integrità ecc. vorrebbero propinarci fino a farci morire di fame.

E’ verissimo che occorre una urgente presa di coscienza della gravità della situazione. Non tanto per l’ambiente fisico (che se la passa invece benino), bensì in quello sociale, politico ed economico, così come sta avvenendo attualmente negli USA. Quivi, in un settore altrettanto vitale, il ministro della sanità Edward Kennedey Jr. sta scoprendo uno dopo l’altro gli altarini dell’industria medicale, rivelando come il marcio, prima ancora che nei media, si annidi nelle università e nei centri di ricerca industriali. Come si usa dire, il pesce puzza dalla testa.




(Foto di Markus Spiske su Unsplash)


[1] Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cechia, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia e Uruguay.

[2] Non casualmente nessuno ricorda la vicenda dell’adesione della Russia al Trattato di Kyoto.

[3] Essendo un politico, vale a dire uno che cerca il consenso, non può ovviamente divulgare le informazioni di cui dispone.





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