
by Aldo Maria Valli 10 dic 2025
Propongo qui, in italiano, tre contributi: dopo l’articolo con il quale Jackson fa sapere del suo libro, trovate il Prologo e l’Introduzione all’opera.
Ricordo, sullo stesso tema, il libro da me curato “L’altro Vaticano II. Voci su un Concilio che non vuole finire”. Lo trovate qui.
A.M.V.
*
di Chris Jackson
Scrivo questo articolo mentre in molte parti del mondo è ancora l’8 dicembre, sotto il manto dell’Immacolata Concezione della Madonna e all’ombra di un altro evento che ha rivendicato la sua festa. In questo giorno del 1965, esattamente sessant’anni fa, i padri del Concilio Vaticano II uscirono da San Pietro e dichiararono conclusa la loro opera. La Chiesa chiuse ufficialmente un convegno che si era rifiutato di dare alla Madonna un suo documento, appiccicandola invece, come un’appendice, alla fine di una costituzione sulla Chiesa. Nei decenni successivi, quel rifiuto si è trasformato in palese imbarazzo. Ora abbiamo Leone che ci dice che è “inappropriato” chiamare Maria con i titoli che generazioni di cattolici hanno amato: corredentrice mediatrice di tutte le grazie. Tutto questo in una festa che esiste proprio per onorare i privilegi unici della donna che schiacciò il serpente.
Negli Stati Uniti, il calendario aggiunge un ulteriore strato di ironia. Il giorno prima dell’Immacolata Concezione è il 7 dicembre, il giorno di Pearl Harbor, quando l’Impero giapponese lanciò un attacco a sorpresa e mandò a morte migliaia di militari americani. Ogni anno i notiziari mostrano immagini sgranate del porto, delle esplosioni, delle navi in fiamme nel porto. Comprendiamo così, almeno in quel contesto, cosa significhi per un nemico pianificare in segreto, colpire all’improvviso e paralizzare una flotta che si credeva intoccabile.
Il Vaticano II è stato la Pearl Harbor della Chiesa. I modernisti avevano predisposto i loro piani in anticipo. Studiarono le correnti, contarono i vescovi e prepararono le manovre. Molti padri conciliari arrivarono a Roma fidandosi della macchina della tradizione. Pensavano che gli schemi preparatori avrebbero avuto successo, che le fortificazioni teologiche costruite dai papi precedenti avrebbero retto. Invece furono presi in giro da giochi procedurali, aggirati dalle commissioni e logorati da un nuovo vocabolario che suonava misericordioso e moderno, allentando al contempo i legami che univano dottrina, liturgia e disciplina. I bombardamenti furono condotti in latino e in italiano, con sorrisi e note a piè di pagina. Solo in seguito la maggior parte dei cattolici si rese conto di tutto ciò che fu affondato.
Il libro “Vaticano II. Anatomia di una Rivoluzione” sarà il mio tentativo di tornare a quel momento e di descrivere l’attacco in dettaglio. Non è una pia celebrazione da tavolino del “Concilio”. È un esame dei testi e delle idee che animarono gli uomini che li scrissero e li riscrissero. Voglio mostrare come un concilio che si definiva “pastorale” abbia usato quell’etichetta come copertura per un mutamento dottrinale silenzioso ma molto concreto, come certe espressioni e certi “piccoli” cambiamenti nel linguaggio abbiano aperto la porta al caos in cui oggi viviamo nella normale vita parrocchiale.
Sto ancora lavorando al manoscritto completo, ma non ho voluto aspettare per condividerne l’introduzione con voi. Quella che segue è la bozza del Prologo e dell’Introduzione. Sono due testi che danno il tono all’intera opera. Il Prologo delinea il contrasto tra la Chiesa fortezza che esisteva ancora nei primi anni Sessanta e l’istituzione disorientata che emerse pochi anni dopo. L’Introduzione espone il metodo e la struttura del libro e spiega perché considero il Vaticano II una rivoluzione nella grammatica della misericordia e del dialogo.
In questa festa dell’Immacolata Concezione, e nel sessantesimo anniversario del Concilio che cercò di mettere la Madonna in secondo piano, voglio rivendicare questa data con un piccolo gesto. Dopo che i modernisti hanno sferrato un attacco a sorpresa alla Chiesa, il minimo che possiamo fare è studiare il loro piano di battaglia. Solo allora potremo iniziare a ricostruire ciò che è andato in frantumi.
Ecco, quindi, un primo sguardo a “Vaticano II. Anatomia di una rivoluzione”.
*
“Se la tromba dà un suono incerto, chi si preparerà alla battaglia?”
(1 Corinzi 14:8)
Prologo
Quando il Concilio Vaticano II si aprì in una mattina d’autunno del 1962, la Chiesa sembrava ancora una fortezza dimenticata dal tempo. Da mille anni, in continuità, il latino si elevava dagli altari con l’incenso. Lo stesso catechismo che istruiva i contadini in Polonia formava i seminaristi a Roma. I sacerdoti parlavano con la sicurezza di uomini convinti che il Cielo sostenesse ogni loro parola. La tiara papale brillava ancora sotto la cupola di San Pietro, e i cattolici la consideravano ancora una corona, non un capo di vestiario.
Qualche anno dopo, la stessa Chiesa sembrò risvegliarsi davanti a uno specchio deformante. La tiara scomparve in una teca da museo; il linguaggio del sacrificio divenne il linguaggio della comunità; i sacerdoti si voltarono verso il popolo e scoprirono, troppo tardi, che il popolo gli aveva voltato le spalle. La quercia non era caduta, ma il tronco si era spaccato, e attraverso l’apertura soffiava l’aria di una nuova religione che insisteva di essere quella antica.
Il Concilio si definiva pastorale.
Prometteva di aggiornare senza alterare, di riformare senza ribellarsi. Eppure, un Concilio che si proclama pastorale lasciando intatta la dottrina solleva una domanda che non vuole scomparire. Se nulla è cambiato, perché è cambiato tutto? I documenti del Vaticano II non hanno inventato l’eresia; hanno fatto qualcosa di più sottile. Hanno allentato le definizioni in modo che quasi tutto potesse entrarvi. Ciò che era stato dogma è diventato dialogo; ciò che era stato salvezza è diventato accompagnamento. La Chiesa ha iniziato a spiegare sé stessa al mondo e, nel farlo, ha dimenticato di spiegare il bisogno di conversione del mondo.
Questo libro affonda il bisturi nel paziente. Esamina i testi conciliari come un chirurgo studia il tessuto di un trapianto fallito, sondando dove l’innesto ha attecchito, dove il corpo lo ha rigettato e dove si è sviluppata l’infezione. Non perde tempo in domande sentimentali sul fatto che il Concilio dopo tutto “aveva buone intenzioni”. Le rivoluzioni hanno sempre buone intenzioni, almeno per chi le guida. Mi chiedo invece se la fede tramandata dagli Apostoli possa sopravvivere a una riscrittura secondo la grammatica dell’uomo moderno, amministrata da uomini che sempre di più hanno preferito quella grammatica al linguaggio della tradizione.
Non è un’elegia, ma un’autopsia. Sono pagine scritte per coloro che credono ancora che il cadavere meriti di essere esaminato, anche solo per capire come sia morto, e per coloro che sospettano che da qualche parte, sotto le macerie, il cuore della vera Chiesa batta ancora, in attesa della resurrezione.
Introduzione
Il Concilio Vaticano II si annunciò come un atto di misericordia. Non avrebbe condannato, ma invitato; non avrebbe definito, ma dialogato. I suoi padri entrarono in San Pietro sotto vessilli che promettevano un rinnovamento senza rotture: la Chiesa che finalmente parlava al mondo moderno in una lingua che tutti potevano comprendere. Sessant’anni dopo, persino molti dei suoi difensori ammettono che il risultato è stato sconcertante. Ci era stata promessa una nuova primavera; abbiamo ricevuto un lungo gelo in cui le vecchie forme sono rimaste sulla carta mentre la sostanza si è esaurita. La tromba ha suonato, ma la nota era incerta, e l’esercito si è disperso invece di marciare.
Questo libro parte da una semplice proposizione. Ogni generazione cattolica riceve un acconto, non una cambiale. La dottrina cresce come cresce un essere vivente, dalla stessa radice e nella stessa specie. Può ramificarsi, fiorire e dare frutto, ma non si trasforma in un’altra pianta. Eppure il Vaticano II ha segnato un momento in cui la Chiesa ha iniziato a descrivere sé stessa con categorie tratte dalla mente moderna piuttosto che dalla rivelazione e dalla metafisica. I documenti del Concilio hanno sostituito la grammatica verticale della grazia e del peccato con una grammatica orizzontale dell’esperienza e del dialogo. L’ordine soprannaturale non è stato negato categoricamente. È stato assorbito nel linguaggio della psicologia, della storia e della sociologia, dove poteva essere reinterpretato a proprio piacimento. La fede indossava ancora i vecchi paramenti, ma parlava un dialetto nuovo, che faceva sembrare l’obbedienza una conversazione e la salvezza una realizzazione personale.
Questa trasformazione non si è verificata mediante un singolo decreto o in un singolo anno. Si è dispiegata attraverso una sequenza di testi che sembravano innocui se letti velocemente ma pericolosi se letti attentamente. La piccola espressione “subsistit in”, inserita nella “Lumen gentium”, sembrava una sfumatura di poco conto. In pratica, ha creato una nuova ecclesiologia in cui la Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, estendendosi anche, in qualche modo, oltre i suoi confini visibili. La dichiarazione sulla libertà religiosa, “Dignitatis humanae”, ha preso in prestito il vocabolario dei diritti naturali per riaffermare un’antica verità sulla coscienza, ma per poi staccarla silenziosamente dall’antico obbligo di cercare, abbracciare e mantenere l’unica vera fede. La costituzione pastorale “Gaudium et spes” ha trattato il mondo moderno non come una Babilonia da convertire, ma come un interlocutore da affermare e comprendere secondo i suoi termini. Ogni testo sembrava solo regolare un cardine. Presi insieme, hanno girato la porta.
Questo libro affonda il bisturi nel paziente. Esamina i testi conciliari come un chirurgo studia il tessuto di un trapianto fallito, sondando dove l’innesto ha attecchito, dove il corpo lo ha rigettato e dove si è sviluppata l’infezione. Non perde tempo in domande sentimentali sul fatto che il Concilio dopo tutto “aveva buone intenzioni”. Le rivoluzioni hanno sempre buone intenzioni, almeno per chi le guida. Mi chiedo invece se la fede tramandata dagli Apostoli possa sopravvivere a una riscrittura secondo la grammatica dell’uomo moderno, amministrata da uomini che sempre di più hanno preferito quella grammatica al linguaggio della tradizione.
Non è un’elegia, ma un’autopsia. Sono pagine scritte per coloro che credono ancora che il cadavere meriti di essere esaminato, anche solo per capire come sia morto, e per coloro che sospettano che da qualche parte, sotto le macerie, il cuore della vera Chiesa batta ancora, in attesa della resurrezione.
Introduzione
Il Concilio Vaticano II si annunciò come un atto di misericordia. Non avrebbe condannato, ma invitato; non avrebbe definito, ma dialogato. I suoi padri entrarono in San Pietro sotto vessilli che promettevano un rinnovamento senza rotture: la Chiesa che finalmente parlava al mondo moderno in una lingua che tutti potevano comprendere. Sessant’anni dopo, persino molti dei suoi difensori ammettono che il risultato è stato sconcertante. Ci era stata promessa una nuova primavera; abbiamo ricevuto un lungo gelo in cui le vecchie forme sono rimaste sulla carta mentre la sostanza si è esaurita. La tromba ha suonato, ma la nota era incerta, e l’esercito si è disperso invece di marciare.
Questo libro parte da una semplice proposizione. Ogni generazione cattolica riceve un acconto, non una cambiale. La dottrina cresce come cresce un essere vivente, dalla stessa radice e nella stessa specie. Può ramificarsi, fiorire e dare frutto, ma non si trasforma in un’altra pianta. Eppure il Vaticano II ha segnato un momento in cui la Chiesa ha iniziato a descrivere sé stessa con categorie tratte dalla mente moderna piuttosto che dalla rivelazione e dalla metafisica. I documenti del Concilio hanno sostituito la grammatica verticale della grazia e del peccato con una grammatica orizzontale dell’esperienza e del dialogo. L’ordine soprannaturale non è stato negato categoricamente. È stato assorbito nel linguaggio della psicologia, della storia e della sociologia, dove poteva essere reinterpretato a proprio piacimento. La fede indossava ancora i vecchi paramenti, ma parlava un dialetto nuovo, che faceva sembrare l’obbedienza una conversazione e la salvezza una realizzazione personale.
Questa trasformazione non si è verificata mediante un singolo decreto o in un singolo anno. Si è dispiegata attraverso una sequenza di testi che sembravano innocui se letti velocemente ma pericolosi se letti attentamente. La piccola espressione “subsistit in”, inserita nella “Lumen gentium”, sembrava una sfumatura di poco conto. In pratica, ha creato una nuova ecclesiologia in cui la Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, estendendosi anche, in qualche modo, oltre i suoi confini visibili. La dichiarazione sulla libertà religiosa, “Dignitatis humanae”, ha preso in prestito il vocabolario dei diritti naturali per riaffermare un’antica verità sulla coscienza, ma per poi staccarla silenziosamente dall’antico obbligo di cercare, abbracciare e mantenere l’unica vera fede. La costituzione pastorale “Gaudium et spes” ha trattato il mondo moderno non come una Babilonia da convertire, ma come un interlocutore da affermare e comprendere secondo i suoi termini. Ogni testo sembrava solo regolare un cardine. Presi insieme, hanno girato la porta.
I vari capitoli del libro esamineranno questi cardini uno per uno. Lo faranno non raccontando aneddoti o recitando slogan, ma affiancando i testi conciliari al magistero che li ha preceduti. Il metodo è di una semplicità quasi imbarazzante. Si mettono a confronto le parole del Concilio con quelle dei papi e dei concili precedenti e ci si chiede se possano andare d’accordo senza fare violenza alla ragione o alla fede. Quando Leone XIII scrisse che la Chiesa “è una, nella dottrina, nel governo e nella comunione”, parlò il linguaggio dell’identità. Quando la “Lumen gentium” scelse invece di presentare la Chiesa in termini di “gradi di comunione”, adottò il linguaggio dell’approssimazione. La distanza tra questi idiomi non è una questione di stile. È la distanza tra una teologia che pensa per confini netti e una che procede per sfumature.
A questo punto compare la solita difesa. Ci viene detto che il Concilio deve essere interpretato “in continuità” con il passato. Tale affermazione viene qui esaminata con tutta la simpatia che i fatti consentono. Continuità non può significare che una cosa e il suo opposto siano entrambi veri allo stesso tempo. O il Concilio ha espresso la stessa fede attraverso un nuovo registro, oppure ha introdotto una nuova fede nelle vecchie parole. Per decidere quale sia il caso, bisogna leggere i documenti nel loro senso più chiaro, non nelle parafrasi consolatorie che le generazioni successive hanno fornito quando il danno era già visibile.
C’è un’altra pia storia che deve essere abbandonata. È di moda dire che i Padri conciliari erano personalmente sani e si limitarono a scrivere testi ambigui che furono poi abusati da interpreti senza scrupoli. Senza dubbio molti vescovi firmarono per confusione, paura, abitudine o fiducia mal riposta. Ma ci furono anche uomini che desideravano consapevolmente una rottura con la dottrina e la disciplina del passato e che usarono il linguaggio pastorale come un piede di porco per forzare la porta. Il resoconto non è quello di pure intenzioni tragicamente fraintese. È un misto di ingenuità e calcolo, di sincero ma fuorviato ottimismo e deliberata sovversione. La crisi non fu quindi solo metafisica o semantica. Fu, ed è, anche morale.
Il Vaticano II deve essere studiato non come una serie casuale di interpretazioni infelici, ma come un voluto ri-orientamento di linguaggio e di enfasi che molti dei suoi principali attori sapevano avrebbe avuto conseguenze concrete. Per alcuni, quel ri-orientamento era il punto centrale. Volevano libertà dove la Chiesa un tempo parlava di dovere, dialogo dove parlava di conversione e “apertura” dove un tempo insisteva sulla custodia del gregge. Quando le cose eterne vengono tradotte in idiomi moderni, non rimangono intatte. Un mistero reso “rilevante” cessa di essere misterioso. Una Chiesa che implora di essere compresa inizia a suonare come un corpo che chiede al mondo il permesso di esistere.
La struttura del libro segue la logica della rivoluzione che descrive. La prima parte ricostruisce il contesto storico del Concilio: il crepuscolo di Pio XII, l’elezione di Giovanni XXIII, le correnti teologiche preconciliari, l’apparato delle commissioni preparatorie e le manovre politiche che ne affondarono i lavori. La seconda parte analizza le quattro costituzioni, le travi portanti della nuova costruzione: la costituzione dogmatica sulla Chiesa, la costituzione sulla liturgia, la costituzione sulla rivelazione e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno. La terza parte segue i decreti, quando la teoria inizia a governare la vita di sacerdoti, religiosi, missionari e laici. La quarta parte esamina le dichiarazioni, in cui la rivoluzione parla più apertamente nel vocabolario della libertà religiosa, dell’ecumenismo e delle religioni non cristiane. La quinta parte ripercorre le conseguenze da Paolo VI all’attuale pontificato, interrogandosi su come il vocabolario conciliare sia maturato nella teologia e nella pratica pastorale del nostro tempo.
Le prove saranno tratte principalmente da testi pubblici: i documenti del Concilio, le encicliche e le allocuzioni che li accompagnano, nonché i catechismi e i codici ufficiali che hanno tentato di addomesticarne il linguaggio. Diari, memorie e lettere private appariranno solo quando faranno luce sull’intento nascosto dietro una frase o sulla manovra dietro una sorpresa procedurale. L’obiettivo non è quello di costruire un ritratto psicologico dello “spirito del Concilio”, ma di mostrare, riga per riga, come certe frasi e scelte lessicali abbiano reso possibile e, in molti casi, quasi inevitabile l’attuale crollo.
Il punto di vista è francamente quello dei fedeli disorientati. Seminari vuoti, parrocchie chiuse, liturgie profanate e catechismi che non catechizzano più non sono dati astratti. Sono il risultato vissuto di decisioni prese in aula e ratificate con l’inchiostro. In teologia, le parole sono fatti. Un aggettivo può spostare il peso di una frase. Un avverbio può svuotare un comando. Una nota a piè di pagina può sabotare un paragrafo dogmatico. I cattolici che si inginocchiano in chiese semideserte, o che hanno dovuto cercare rifugio in cappelle marginali e altari improvvisati, vivono nell’eco di quelle decisioni.
Tutto ciò non ci obbliga a supporre che la vera Chiesa sia perita o che Cristo ci abbia abbandonato. Ci obbliga invece ad affrontare la possibilità che ciò che si presenta come la continuazione ufficiale di quella Chiesa sia diventata, per aspetti importanti, una contro-testimonianza del suo stesso passato, una contro-chiesa che sopravvive parassitando il linguaggio e le strutture che ha ereditato. Che si giunga alla conclusione che i recenti pretendenti al soglio pontificio manchino di autorità o che ne abbiano abusato fino al punto di renderla moralmente inutilizzabile, le prove da valutare sono le stesse. Dobbiamo guardare onestamente a ciò che hanno fatto con il Concilio che celebrano come loro statuto.
Per comprendere la rivoluzione, bisogna partire da dove ebbe inizio: dalla decisione di convocare un concilio in un’epoca che non credeva più nei concili né nella verità stessa. Il capitolo successivo si concentra quindi sul preludio, sugli ultimi anni di Pio XII, sull’elezione di Giovanni XXIII e sulla strana fiducia con cui la Chiesa aprì le sue finestre a una tempesta che non poteva controllare. Solo tornando a quel momento possiamo comprendere la portata di ciò che seguì.
Si alza ora il sipario sugli ultimi anni di un mondo che credeva ancora che la Chiesa non potesse cambiare perché Dio non cambiava. Pio XII regnava su una gerarchia che sembrava incrollabile; eppure, sotto la superficie, il terreno si stava già sgretolando. Teologi che un tempo sussurravano le loro teorie nei seminari avevano iniziato a esprimerle ad alta voce. Vescovi che avevano giurato di difendere la tradizione impararono a parlare di adattamento. Quando Giovanni XXIII annunciò la sua intenzione di convocare un concilio, la maggior parte del mondo lo accolse come una curiosità, non come una rivoluzione. La storia raramente annuncia i suoi punti di svolta con clamore. Inizia in silenzio, negli uffici e nei corridoi, con uomini che pensano di stare solo riordinando i mobili della fede.
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